Atto primo

 

Scena prima

Alfeo.

Alfeo

 

 

Ben sei possent'Amore  

nel cielo e nella terra:

ogni belva più fera

dalla tua forza è vinta.

Ogni nume celeste a te si rende.

Amor dell'auree stelle

il regnator sovrano

più volte a te soggiacque

né valse al gran tiranno

del tenebroso Averno

contr'i tuoi colpi di fierezza armarsi.

In qual parte non sono,

Amor, dei tuoi trionfi

alti vestigi impressi?

Benché fanciullo ignudo,

mirabil cosa oprasti

in ogni età del mondo, in ogni loco;

ma questo è del tuo foco

il miracol maggiore:

che possa in mezz'all'acque arder un core.

Ahi, che pur tropp'è vero,

et io ne fo la prova,

misero Alfeo, che giorn'e nott'avvampo

per la bell'Aretusa,

né trovo all'ardor mio fra l'onde scampo.

Or io, deposto l'urna

e lasciat'al governo

dell'acque mie le fid'umide figlie,

me n' vengo a queste selve

ove la ninfa mia,

il sol degl'occhi miei, spesso ritorna.

Avrò forse ventura

di ritrovarla sola

e di coglier coi preghi o con la forza

delle sue labbra l'odorate rose,

desiate conforto alle mie pene.

Favorite, vi prego,

l'amoroso pensiero, amate selve;

così fra vostre piante

ingiurioso ferro mai non fieda,

così non venga mai Borea orgoglioso

a far de' vostri onori indegna preda.

Alfeo ->

 

Scena seconda

Aretusa, Flora.

<- Aretusa, Flora

 

ARETUSA E FLORA

Vaga figlia di Latona,  

che sei'n cielo più d'ogni stella

chiara e bella,

di splendor porti corona.

Tu, qualor fra noi discendi,

liete rendi

nostre dolci alme contrade

di tuo lum'e tua beltade.

ARETUSA

Mentre tu nei campi nostri

fra le ninfe amica stai,

l'ira mai

non temiam di feri mostri.

Anzi andiam arditi al varco,

teso l'arco,

ov'apporti più spavento

fera belva al nostr'armento.

FLORA

Nostri studi e nostri onori,

bella dea, quando ti piaccia,

son la caccia;

né ci cal d'estivi ardori,

e del fredd'orrido verno

facciam scherno,

purché dain'o fier cignale

fort'atterri il nostro strale.

ARETUSA E FLORA

D'esser tue sol ci vantiamo

consecriamt'i nostri spirti

per seguirti

mentr'ancor vive spiriamo;

pria che mai cangiar tal sorte,

cruda morte

con la falc'empia e spedita

tronch'il fil di nostra vita.

FLORA

Saett'il dardo mio cignal od orso,

carissim'Aretusa,

o mi chiami fuggendo

veloce cervo al corso,

ché sol quest'è mia gioia,

ogn'altra affann'e noia,

questi diletti stimo assai più degni

che ricca posseder cittadi e regni.

ARETUSA

Albergh'altri nel seno

desio d'argento e d'oro,

stimi dolce tesoro

altri di due begl'occhi il ciel sereno,

ch'io sempre il cor avrò di gioia pieno

mentre nei boschi io creda

di poter saettando

nobil gloria acquistar e nobil preda.

FLORA

A te diede la cura

nostro drappel fiorito

di guidarn'alla caccia;

così fosse nel ciel mio prego udito

com'io diletta amica,

bramo di ricca preda

felice tua fatica.

ARETUSA

Non fa cauto timore

le timidette belve

asconder delle selve

in sì profondo orrore,

né fa degli aspri monti

o delle cupe valli

luogo insegnar sì fiero e dirupato,

né s' chiuso o celato,

ove non s'apra il varco

a questa man, a questo piè la brama

d'adornar il mio stral di nuova fama.

Spero che mille schiere

di snelli capriol veder farotti

e con tua gran piacere

altrettante seguir veloci fere.

FLORA

Megl'è dunque ch'al fonte

ratte n'andiam, ch'omai

delle fide compagne

ivi n'aspetterà l'amico stuolo

ARETUSA

Mira che non ancora

dell'antico Titon l'amata sposa

le vie del cielo indora,

anzi ciascun riposa,

ch'abbiam per tempo assai

le piume abbandonate.

FLORA

Ma chi brama acquistar famosa loda

rompa del sonno i lacci

e vincitor lo scacci.

Egli sopra i miei lumi

nella passata notte

non ha sparso giammai

col verde ramo suo l'onde di Lete.

ARETUSA

A me la desiata quiete

rapì volando dall'eburnea porta

soavissimo sogno.

FLORA

Sono i sogni talor verace scorta

di futuri contenti,

perché le nostre menti,

ove degli altri sensi

sta l'adoprar da forte sonno oppresso,

scorgon il ver nelle nud'ombre impresso.

Ma di che t'insognasti?

ARETUSA

Vinta dal gran calor

e lassa di seguir cervo fugace,

pareami star ignuda in mezz'all'acque;

quivi desio mi nacque

di gareggiar notando

coi timidetti pesci:

ma mentre con la man l'onda sospingo,

d'irreparabil forza

sento tirarmi al fondo.

E già nei chiari umor tutta m'ascondo,

quando per sua pietate

la nostra amata dèa,

cui calse di mia vita,

a me si mostra e con sua man m'aita.

Io piango sbigottita

temendo ancor la morte,

dolente di mia sorte,

ella mi dice allora:

«Perché di morte più non tema il gelo,

vienne, Aretusa mia, meco nel cielo.»

Io per l'aer con essa allor n'andai

e piena di piacer mi risvegliai.

FLORA

L'amor, car'Aretusa,

che della bella dèa ti sta nel core,

e 'l chiaro fresco umore

del fonte ove del sol fuggiam la sferza,

mentre col sonno scherza

nella più quieta notte

l'immagine del giorno,

fanno nel tuo pensier dolce ritorno.

Ma senti omai i pastori

da' mattutini albori

chiamati alle fatiche.

 

Scena terza

Carino, Flora, Aretusa.

 

CARINO
(canta dentro)

Ecco l'alba ne viene  

sul bel carro dorato,

pastori, al prato

pastori, al prato.

Ella del ciel serene

le vie sparge di fiori,

su su, pastori

su su, pastori.

Fugge innanzi ogni stella

della notte con l'ore

fugg'ogni orrore,

fugg'ogni orrore.

Vedi, deh, come è bella,

empie il sen di viole:

eccon' il sole

eccon' il sole.

 

<- Carino

ARETUSA

Pastor, s'egli pur lice,  

deh, dimmi in sul mattino

ove ne vai felice

provocando col canto ogni augellino?

CARINO

Il dì, ninfa, n'invita

menar le pecorelle

su quest'alta pendice

riccamente vestita

di fresch'erbette e belle.

Ma, voi, ché più tardate

che già comincia al fonte dell'alloro

venir cantando delle ninfe il coro?

FLORA

Or su dunque, Aretusa,

ratto moviamo il piede,

ché vien men'ogni scusa

e di Febo si vede

omai la bella face.

ARETUSA

Io vengo, e tu, pastor, rimanti in pace.

 

CARINO

Deh, compagni, correte,  

che già di raggi adorno

risplende il giorno,

risplende il giorno.

Deh, pur come solete,

ove l'erba verdeggi

menate i greggi

menate i greggi.

 

<- pastori, Dorino, Silvio, Aminta, pastore del coro

CORO

Noi venghiamo al caro invito

per menar i nostri armenti

dove possino contenti

pascolar prato fiorito.

CARINO

Questi son nostri diletti,

sì giocondi a tutte l'ore,

che mai tali alto signore

non trovò ne' regi tetti.

DORINO E SILVIO

Qui non splende argento od oro,

né si veste altera seta,

innocente vita e queta

sol si stima bel tesoro.

Qui non cela un finto riso

d'odio occulto aspro veneno,

ma quant'è racchiuso in seno

legger puoi scritto nel viso.

CORO
(a sei)

Qui non teme che l'estingua

pastorel candido e puro,

mentre ei gode più securo,

col mentir perfida lingua

AMINTA

Dell'invidia il fero dente

qui non morde i nostri cori,

che non s'alza unqu'agl'onori

arte vil d'indegna gente.

PASTORE DEL CORO

Spenga pur la sete mia

d'acqua fresca un rivo chiaro,

e vie più d'ambrosia caro

puro latte il cibo fia.

CORO

Purché mai di rio pensiero

tempestosa altra procella

calma turbi così bella

del mio sen puro e sincero.

 

Fine (Atto primo)

Prologo Atto primo Atto secondo Atto terzo
Alfeo
 

Ben sei possent'Amore

Alfeo ->
<- Aretusa, Flora

Vaga figlia di Latona

Aretusa, Flora
<- Carino

Pastor, s'egli pur lice

Carino, Coro, Dorino, Silvio, Aminta
Deh, compagni, correte
Aretusa, Flora, Carino
<- pastori, Dorino, Silvio, Aminta, pastore del coro
 
 
Scena prima Scena seconda Scena terza
Prologo Atto secondo Atto terzo

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