www.librettidopera.it

La Didone

LA DIDONE

Dramma per musica.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

Da qui accedi alla versione estesa del libretto.
Da qui accedi alla versione in PDF del libretto.

Codice QR per arrivare a questa pagina:
QR code

Libretto di Giovan Francesco BUSENELLO.
Musica di Francesco CAVALLI.

Prima esecuzione: carnevale 1641, Venezia.


Interlocutori:

Nel prologo

IRIDE prologo

soprano

Nell'opera

DIDONE regina di Cartagine

soprano

ENEA troiano

tenore

ANCHISE padre di Enea

tenore

ASCANIO figliolo di Enea

soprano

CREUSA moglie di Enea

soprano

IARBA re degl'Etuli

contralto

ANNA sorella di Didone

soprano

CASSANDRA troiana

soprano

SICHEO marito di Didone in ombra

tenore

PIRRO greco

tenore

COREBO

contralto

SINONE greco

basso

Ilionèo, AMBASCIATORE compagno di Enea

contralto

ACATE familiarissimo di Enea

tenore

ECUBA vecchia moglie di Priamo

contralto

GIOVE

basso

GIUNONE

soprano

MERCURIO

contralto

VENERE

soprano

AMORE

soprano

NETTUNO

basso

EOLO

tenore

FORTUNA

soprano

Le GRAZIE

soprano


Coro di Damigelle cartaginesi. Coro di Cacciatori. Coro di Troiani. Coro di Ninfe marine.



Argomento

Quest'opera sente delle opinioni moderne. Non è fatta al prescritto delle antiche regole; ma all'usanza spagnuola rappresenta gl'anni, e non le ore. Nel primo atto arde Troia, e Enea, così comandato dalla madre Venere scampa quegli incendi, e quelle ruvine. Nel secondo egli naviga il Mediterraneo, e arriva ai lidi cartaginesi. Nel terzo ammonito da Giove abbandona Didone. E perché secondo le buone dottrine è lecito ai poeti non solo alterare le favole, ma le istorie ancora: Didone prende per marito Iarba. E se fu anacronismo famoso in Virgilio, che Didone non per Sicheo suo marito, ma per Enea perdesse la vita, potranno tollerare i grandi ingegni, che qui segua un matrimonio diverso e dalle favole, e dalle istorie. Chi scrive soddisfa al genio, e per schifare il fine tragico della morte di Didone si è introdotto l'accasamento predetto con Iarba. Qui non occorre rammemorare agl'uomini intendenti come i poeti migliori abbiano rappresentate le cose a modo loro, sono aperti i libri, e non è forestiera in questo mondo la erudizione. Vivete felici.

Prologo
Scena unica

Iride.

[Sinfonia]

Caduta è Troia, e nelle sue ruine

giace sepolto d'Asia il bel decoro,

del giudizio fatal del pomo d'oro

l'alta Giunon s'è vendicata al fine.

[Arietta]

Già son precipitati i bronzi, e i marmi

delle memorie dardane superbe,

e circondato sta d'arene, e erbe

un monte d'ossa, una miniera d'armi.

Ritornello

Recitativo

Fiumi di sangue son tutte le strade,

a' sepolcri infiniti il suolo manca,

l'istessa morte si confessa stanca

dell'ira greca a seguitar le spade.

A te ritorna, o moglie del tonante,

Iride ancella tua con lieti avvisi,

il ferro, e 'l foco ha i tuoi nemici uccisi,

disfatto è il regno del troiano amante.

O voi mortali, che con legge incerta

librate e premi, e pene ai buoni, e ai rei,

nel giudicar non offendete i dèi,

che tosto, o tardi la vendetta è certa.

Atto primo
Scena prima

Creusa, Enea, Acate, coro di Troiani, Ascanio.

[Coro]

CORO DI TROIANI

Armi Enea, diamo all'armi.

Recitativo

CREUSA

Enea non è più tempo

di stabilir speranze

su la punta alla spada.

Va la patria infelice

fornace di sé stessa

consumandosi in polve, e in faville

la disperata Troia

di reliquie disfatte

cumulo spaventoso

di ceneri confuse orribil monte,

tutte le glorie sue piange defonte.

È infruttuoso omai

il peso di quest'armi,

ma se pur tu confidi,

che l'elmo, e la lorica

possan contro il nemico oprar difese,

deh non partir Enea;

del decrepito Anchise

la canizie impotente,

l'afflitta età cadente

sian di tanta difesa i primi oggetti,

fa' muro col tuo brando a nostri petti,

se tu parti, chi resta

a custodir dentro alle stanze nostre

il dolce Ascanio? o dio,

Ascanio il tuo, il mio,

il nostro unico figlio

chi salverà da morte, e da periglio?

Di me non parlo no, se 'l figlio, e 'l padre

non son forti catene

per trattenerti, o Enea,

che valerà Creusa,

o pregante, o piangente?

Se il titolo di moglie

alle viscere tue trova la strada,

per singhiozzarti le tue angosce al core,

ti prego non partir, ma con quest'armi

difendi Anchise, Ascanio, e tua consorte

dal ferro, dall'incendio, e dalla morte.

ENEA

Creusa ardon le mura,

l'alta città, che in Asia fu regina

ha votata di sangue ogni sua vena,

per empirla di fiamme,

e tu vuoi, che defraudi

del mio sangue la patria, e che non vada

l'anima mia con l'altre accumulata

a insignirsi di gloria,

ad eternare il lume a sua memoria?

Non vadan scompagnate

dalle ferite mie, da miei perigli

queste publiche stragi.

Le spade greche inebriate omai

del sangue del mio re di Priamo il grande

con un sorso del mio

sian testimoni veri,

che il sangue del vassallo

versò morendo gl'ultimi tributi

all'ombra coronata

del suo rege, e signore,

e che la fedeltà d'un'alma ardita

non è tenuta a più, se dà la vita.

Dove more tra l'armi

il padrone innocente,

se non more anco il servo, egli è fellone.

Se recisa la testa, un membro vive,

contro natura ei vive.

Cor de' sudditi è il re; spento il re nostro,

portento è il mio respir, mia vita è un mostro.

Viver dopo il mio re caduto in guerra,

e un calcarlo sepolto,

e a scettro forastier serbar la fede:

ch'io salvi il core ad ubbidir nemici?

Ch'io serbi i sensi ad adular chi ho in odio?

Che ad un greco un troian presti servaggio?

Ahi che la servitù troppo è diforme,

e dirimpetto a lei la morte è bella,

per dispetto dirà la gente achea

seppe morir, ma non servir Enea.

ASCANIO

Padre ferma i passi, e l'armi

non lasciar questa magione,

non so dirti alta ragione,

non dovevi generarmi,

se volevi abbandonarmi.

Ritornello

Le mammelle di mia madre

l'alimento m'han prestato,

ma quel latte è disarmato,

sei tu sol mio usbergo, e scudo,

senza te son solo, e nudo.

Ritornello

L'avo mio si strugge in pianti,

ma a guardar mia imbelle etade

dal furor di greche spade

fanno debole apparecchio

fredde lagrime d'un vecchio.

Ritornello

Se la vita mi donasti,

caro padre dolce, e pio,

se figliuolo ti son io

questo nome caro il dirti

vaglia solo a intenerirti.

Ritornello

Se perir dovrà pur anco

questa debole animetta

innocente, e pallidetta

prenderà, se tu la vedi

da te gl'ultimi congedi.

Ritornello

Recitativo

ACATE

Nell'animo di Enea

contrastano l'angosce;

io non so quale affetto

prevalerà tra tanti

o la patria in incendio, o 'l figlio in pianti.

Ma pur se 'l figlio more,

il grand'Enea può generar ancora,

che le lacrime al fine

non pon ricuperar città perduta,

né più rifabbricar patria caduta.

ENEA

Ascanio unico figlio

punto non dubitar, queste ruine

siano al genio crescente

maestre, onde s'apprenda da tui sensi,

che la patria finisce,

ma la virtù sempre comincia, attendi,

impara a sostener l'ire del cielo.

Piovono di là su perversi i casi

per cimentar nostra costanza, e sappi

sprezzar la morte, e vincer le paure,

che gran senno è avvezzarsi alle sventure.

Ritiratevi entrambi,

invocate de' numi

il propizio soccorso,

che mentre i voti vostri ascolta Giove,

io vado a ritentar l'ultime prove.

Amici, andiamo a fabbricarci al nome

tempii di glorie illustri

con l'ossa de' nemici,

e sul fiume corrente

del loro sangue alziamo un nobil ponte,

che ci conduca, ove non giunge oblio.

Dimostriamo al destino,

che se la nostra spada al ciel non giunge,

per ornarsi con l'oro delle stelle

ella mille trarrà del sangue achivo

e piropi, e rubini

per ingemmarsi, e arricchirsi: or dunque

o con il nostro, o col nemico sangue

ammorziamo l'incendio, e questa notte

col far di chi ci insidia aspro governo

al valore troian sia giorno eterno.

Necessitiamo i posteri a sacrarci

cospicui i bronzi, e speciosi i marmi,

combattiam disperati,

che nel fin della vita, e della speme

trionferemo, o moriremo insieme.

[Coro]

CORO DI TROIANI

Armi Enea, diamo all'armi.

Recitativo

ACATE

Sia la terra agl'Argivi

angusto campo al piè, largo alle morti;

non cada invendicato

della patria comun l'inclito nome.

Per un golfo di sangue

navighi la vittoria de' nemici.

Nei cadaveri nostri

inciampi il vincitore, e cada al fine;

né sappia mai distinguere la morte

tra chi vinse, o perdé vantaggio alcuno.

Del ferro ostil sopra le punte acute

or cerchiamo o la morte, o la salute.

[Coro]

CORO DI TROIANI

Armi Enea, diamo all'armi.

Scena seconda

Anchise, Ascanio.

Recitativo

ANCHISE

Vaneggiante fanciullo,

ove corre il tuo piè senza consiglio?

Il tuo passo bambin vacilla ancora,

e tu col grave pondo

del ferro agl'anni tuoi niente conforme,

vai disfidando in fasce

quel destin violento,

che col semplice sguardo

di stella incrudelita

in un istante ucciderà tua vita.

ASCANIO

Son figliuolo d'Enea,

e tuo solo nipote, o grande Anchise,

se non adopro il ferro in sì gran tempo,

se mi mostro codardo

la patria istessa mi dirà bastardo.

Ritornello

Pesa sì questo ferro,

ch'alzar io non lo posso, e a pena il movo;

ma se la terra mi vedrà cadere

senza la spada in mano

non potrà creder mai, ch'io sia troiano.

Ritornello

Se morisse mio padre,

l'ombra sua venirebbe a eseredarmi,

se mi trovasse senza spada al fianco;

con questo ferro ho fede

del mio gran genitor mostrarmi erede.

E se il destin, che gioca

co' suoi dadi stellanti il viver nostro,

vorrà, ch'io cada esanimato al fine,

il mio sangue innocente

sarà famoso appresso ad ogni gente.

ANCHISE

Larga vena di pianto,

che dal cupo dell'anima mi sgorga

scrive queste parole, o gran nipote,

nel sen dell'amor mio,

e che veggio, e che sento, o cieli, o dio?

ASCANIO

Indarno, o mio grand'avo,

della canizie tua righi l'argento

con queste calde tue dogliose stille.

L'acqua non acuisce

il ferro, ma lo guasta, e irruginisce.

ANCHISE

Tuo padre ti commise

di ritirarti, e invocare i numi,

vientene Ascanio, vieni,

deponi questo ferro,

né rida la fortuna,

che contro la sua forza

voglia un infante adoperar la cuna.

Scena terza

Pirro, Cassandra, Corebo.

CASSANDRA

Non perdonate al tempio?

E dagl'istessi altari

con sacrilego ardir levate a forza

una vergine orante?

E lo comporti, o cielo, e non t'accorgi,

che il riservar gli sdegni

alle tarde vendette

fomenta le tirannidi, e concede

e vita, e regno a chi agli dèi non crede?

PIRRO

Temeraria donzella,

nelle man di chi vince,

in servitù di chi trionfa, ardisci

trattar ingiurie, e inasprir parole?

Dell'ingiustizia altrui ti lagni invano,

sempre ha ragion chi tien la forza in mano.

CASSANDRA

Barbaro, credi tu, che le catene,

e l'imminente morte

a Cassandra troiana

figlia d'un regnator, se ben estinto,

tolgano la virtù, turbino il core?

Se mi torrai la vita

trionferai d'una incarnata polve,

e all'alto suo principio

l'alma mia condurrai,

e da vil servitù mi leverai.

PIRRO

Non è molto lontana

quella morte, che sprezzi, un colpo solo

caverà me d'impaccio, e te di duolo.

COREBO

Fermati traditor, volgi quel ferro

nell'esecrando tuo perfido seno,

e lo vibra, e lo adopra

in tua difesa contro a' colpi miei.

PIRRO

E chi è costui, che provoca il mio sdegno,

e vuol nobilitar la sua ruina

sotto l'armata man d'un trionfante?

COREBO

Risponde la mia spada,

saran parole i colpi, e tu morendo,

quale sia mia ragion, intenderai.

[Combattimento]

Qui combattono, e Pirro ferito fugge, lasciato ferito a morte Corebo.

Recitativo

COREBO

Ho vinto, ho trionfato,

e così vadan l'anime rubelle,

e ne' lor propri danni

sian esempi d'infamia i rei tiranni.

Ma, qual fiacchezza nova

mette i miei sentimenti in abbandono?

Esce il sangue, o Cassandra, io son ferito,

o disperato amor, mentre guerreggio,

e alla mia sposa io dono libertade

il sangue m'esce, e la mia vita cade.

Liberato mio bene,

per salvarti la vita,

io la vita perdei;

vivi i tuoi giorni, o cara, e vivi i miei.

Ho vinto, ma la falce

della mia propria morte

sopra un avel le mie vittorie intaglia,

e in un momento han fine

la vittoria, la vita, e la battaglia.

Non però ancora io son di vita privo,

la vendetta, e l'onor mi tengon vivo.

CASSANDRA

Ahi questo è dunque il principe Corebo,

che versa da più piaghe

della vita, che fugge i caldi rivi?

COREBO

Corebo io fui, ma il sangue,

che m'esce dalle vene,

scrive Corebo al numero dell'ombre.

O Cassandra, o Cassandra,

a Troia venni per te sola, e diedi

il mio spirto in balia de' tuoi begl'occhi;

cercai piacerti con gli ossequi, e feci

l'anima innamorata

sgabello al piè di tue grandezze; or trovo

su la via degli amori

l'inciampo della morte,

e sotto gli orienti

de' tuoi lumi vitali

hanno i miei giorni un glorioso occaso.

In faccia all'alba mia pura, e fiorita

tramonta la mia vita.

CASSANDRA

Spera, e rinfresca il core;

il vigore dell'anima sostenti

le veci di quel sangue,

che dalle vene tue rapido fugge.

COREBO

Ben credev'io Cassandra

in più dolce stagione

prender da' detti tuoi conforto, e pace;

or che morir conviemmi

per estremo soccorso all'amor mio

porgimi la tua destra,

che sola puote de' sepolcri ad onta

da questo basso stelo

in alma, e in corpo ancor condurmi in cielo;

fa' ricca la mia morte

con favor sì bramato,

mandami all'altra vita

di gioia accumulato;

non farà lungo volo

l'anima mia per gire in paradiso,

mentre m'è sì da presso il tuo bel viso.

CASSANDRA

Se la mia mano, o amico

ti consola, e t'aggrada,

prendila, te ne fo libero dono.

Virginale onestà dammi perdono.

COREBO

O presto conceduta,

ma lasso troppo tardi supplicata

man di vere dolcezze imbalsamata.

Vieni all'estremo ufficio

in questa orrenda, e miserabil ora,

man dolce, e chiudi gl'occhi a chi t'adora.

Avorio spiritoso,

alabastro incarnato,

spira lieto il cor mio, mentre in te vede

impresso il bel candor della sua fede,

e l'anima, che m'esce dalla bocca,

e in questa mano esala a poco a poco,

stampa in sentier di neve orme di foco.

Amici, io parto ohimè,

Cassandra, e lascio te,

prendi del tuo Corebo, idolo mio,

l'ultimo detto, il moribondo a dio.

Scena quarta

Cassandra.

L'alma fiacca svanì,

la vita ohimè spirò,

Corebo, o dio morì,

e sola mi lasciò,

per sposa ei mi voleva, e io qui piango

prima che sposa, vedova rimango.

La vita così va,

anco mio padre il re

nel fin di grave età

regno, e vita perdé.

Del senso umano o debolezza, o scorno

su i secoli disegna, e vive un giorno.

Cassandra, e che di te

questa notte sarà?

S'aita più non c'è

la tua vita cadrà.

O della patria mia stragi fatali,

o in van da me profetizzati mali.

Nel tempio io tornerò

i numi a supplicar,

altrove andar non so,

sia guardia mia l'altar;

e s'all'altar morrò, vi prego, o dèi,

le vittime a gradir de' spirti miei.

O vita umana, o vita

insolente, e superba

all'or ricorri ai dèi,

quando afflitta tu sei,

e se il mal non t'arriva,

d'ogni religion ti mostri priva.

Tempio m'ascondo in te,

tempio salvami tu,

ma il mio Corebo, ohimè,

non lo vedrò mai più;

su l'orlo al mio sepolcro in ciechi orrori

rigo di pianti i miei svenati amori.

Temo il vicin morir,

e pur piango d'amor,

l'alma sta su l'uscir,

sta sul spirare il cor,

e pur in onta della mia paura,

amor vuol venir meco in sepoltura.

Scena quinta

Venere, Enea.

Ritornello

VENERE

Omai pon freno all'impeto dell'ira,

o generoso figlio,

e l'armi, e gl'ardimenti

riserba ad altri più felici eventi.

Ritornello

La troiana caduta è già prefissa,

tu non puoi ripararla;

indarno il ferro vibri,

scritto è così negli stellanti libri.

Ritornello

Fuggi pur così, madre, e così dèa

ti dico, e ti comando,

le forze in darno spendi,

co' Greci no, ma col destin contendi.

Ritornello

Né l'istorie, né i posteri potranno

nominarti codardo,

se per divin consiglio,

e non per tua viltà scampi il periglio.

Ritornello

Ove il morire è certo, e non arreca

beneficio alla patria

vuol la legge dell'armi,

che il proprio sangue il capitan risparmi.

ENEA

O Venere, o felice

mia cara genitrice;

se m'imponi così, così risolvo,

e 'l mio fuggir co' tuoi comandi assolvo.

Patria l'ardir non langue,

ecco la vita, e 'l sangue,

sacrare a te volevo il petto mio,

ma la religion m'obbliga a dio.

Di mia fé, di mio zelo

sii testimonio, o cielo,

e tu madre, e tu diva attesta al sole,

ch'io fuggo astretto dalle tue parole.

O secoli venturi,

da voi sempre si giuri,

ch'io non manco al dover di cittadino,

ma presto ossequio al comandar divino.

VENERE

All'opre tue sarà la fama tempio,

e tra l'idee celesti

degl'incliti tuoi gesti

la gloria stessa scriverà l'esempio;

sarò di tua virtù scorta opportuna,

e per te farò voti alla fortuna.

ENEA

Andrò; spada che sei

tinta del sangue ostile,

conserva queste macchie

per segni di decoro,

riserba queste stille

per impronte d'onore:

abbi vivi pur sempre

dell'amor mio verso le patrie mura

gl'insanguinati, e nobili sigilli.

Caratterizza in te la mia fortuna

dell'arsa Troia i sanguinosi annali;

stampò sopra di te l'empio destino

l'aspra tragedia delle mie sventure.

Ha voluto la sorte

sopra l'acciaio tuo

istoriar della mia patria i mali;

sarai creduta spada, e pur sei libro.

In cui la turba greca

scrisse col sangue suo le proprie morti.

Ferro, ferro felice,

che feristi, e spargesti

le viscere nemiche.

Ma che deliro, o dèi,

ferro, ferro infelice,

già stromento guerriero,

or della fuga mia, per cui mi lagno,

lugubre, e funestissimo compagno.

Il tuo fil, la tua punta

già stanchi di ferire

vengan meco oziosi,

ove ne spinge imperioso cielo.

Ti ripongo, o mio brando,

andiam raminghi omai peregrinando.

Scena sesta

Enea, Anchise, Ascanio, Creusa.

ENEA

Andianne, o genitor, figlio, consorte,

cediamo il campo all'impeto de' cieli,

disarmiam le speranze

nella semplice fuga

della salute riponiam la fede,

fatal necessità così richiede.

ANCHISE

Va' figlio, nuora vanne, va' nipote,

me lasciate alle morti.

Abbia l'ira del cielo

il decrepito peso

di queste membra vacillanti, e lasse

in questi estremi affanni

per vittima cadente, e carca d'anni.

Poca ferita

m'ucciderà,

languida vita

tosto cadrà,

e tra l'alte ruine

di queste patrie mura

carestia non avrò di sepoltura.

ENEA

Padre, in ogni paese

ci seguita la morte, e la sventura,

né ritarda il destino i colpi suoi,

ovunque andiamo ei ci sovrasta, e giunge;

però se morir brami

fidati di natura, e della sorte,

purtroppo altrove troverai la morte.

Ma ch'io figlio te padre

lasci in arbitrio di nemici irati,

perché tra greche squadre

dentro al tuo sangue anneghi i propri fiati,

non è pietà, non è dover più tosto

tra le lance, e le spade,

del viver mio dividerò gli avanzi,

che lasciar te mio genitor canuto

tra gli anfratti del ferro, e delle fiamme

in ambigua ruina, e morte doppia.

Fuggiamo omai, per non restar distrutti,

o in lagrimoso accordo moriam tutti.

CREUSA

Andiam suocero andiamo.

ASCANIO

Piglia queste mie lagrime innocenti,

e fanne bagno all'ostinato affetto,

che vedrai tosto intenerirti il petto.

ANCHISE

Poiché così volete,

io movo a vostro senno il fianco antico.

O dio; Troia, s'io parto

le polvi di quest'ossa in altra parte

tornerà l'alma mia sciolta dal corpo

ad abitare al fine

tra queste funestissime ruine.

ENEA

Adagiati, o mio padre,

sopra gl'omeri miei: tu figlio prendi

la mia destra; Creusa e tu ci segui.

Voi servi precorrete,

e ci aspettate al più vicino lido.

Qui Creusa entrata in casa, e pigliate alcune gioie, seguendo gli altri veduta da Greci vien uccisa.

CREUSA

Ohimè son morta: Anchise, Ascanio, Enea.

Scena settima

Ecuba, Cassandra.

ECUBA

Alle ruine del mio regno adunque

sopravvivo decrepita, e son giunta

a riputare il pianto

testimon trivial de' miei dolori!

Onde va l'alma mia

cercando oltre le lagrime il tenore

di lamentarsi, mentre in questa notte

in un punto perdei

regno, patria, marito, e figli miei.

[Aria]

Tremulo spirito

flebile, e languido

escimi subito,

vadasi l'anima,

ch'Erebo torbido

Cupido aspettala.

Povero Priamo

scordati d'Ecuba

vedova misera.

Causano l'ultimo

orrido esizio

Paride, e Elena.

Recitativo

Ahi tra tanti nemici

prova il mio petto solo

penuria di ferite,

né cade ancor la mia tra tante vite.

Cassandra, ohimè Cassandra

piango, piangi, piangiamo il caso estremo,

l'alba non rivederemo.

CASSANDRA

Madre, e regina mia,

più volte indovinai

questi ora succeduti ultimi guai.

Ma i vaticini miei

in vece d'oprar ben recaron noia,

né credenza ebbe mai Cassandra in Troia.

ECUBA

Questo è difetto antico

a noto cittadin non si dà fede,

a ignoto peregrin tutto si crede.

Vita mortale a dio,

mi licenzio da te;

non ti partir da me

cara figlia, e vien meco,

e la figlia, e la madre estinta cada

per una stessa man, per una spada;

e nel morir sotto il nemico ferro

si riconfonda il sangue nostro, e sia

questo misero ventre, onde nascesti,

lacerato non lunge dal tuo petto.

Riunisca la morte

ciò, che il nascer divise,

e della madre, e della figlia esangue

vada in sepolcro ad abbracciarsi il sangue.

Madri, troiane madri

esalate col pianto

dell'alma afflitta le reliquie, e sia

il morir di dolore

dell'inimico un occupar la gloria,

e scemare il trionfo a sua vittoria.

Benché s'io dritto miro

dopo svenati i vivi,

vorranno i fieri Argivi,

da reo furor, da fellonia sospinti

incrudelir ancor contro gli estinti.

Le paci delle ceneri interrate

saran contaminate,

ma non potrà veder l'empio destino,

se non con occhi torti,

che non siano sicuri in polve i morti.

Ulisse, Menelao

sviscereranno i ventri

delle pregnanti lasse,

usciranno gl'infanti

dalle piaghe materne, e non dagl'alvi,

così i non nati ancor non saran salvi:

e mentre non avran goduto ancora

del vital corso il debole principio,

le vite infanti, e l'anime bambine

saran costrette a sofferirne il fine.

Mira patria caduta,

i tuoi miseri figli

avanti il loro respirar spirati,

pria, che possedan alma esanimati.

Porgimi, figlia,

la man, che sento

non poter più;

andiam cercando

spada cortese,

che ci tolga ben tosto i dì mortali,

oggi la morte è 'l minimo de' mali.

Scena ottava

Sinon greco.

O con qual gusto,

con qual diletto

v'ho assassinati

troian mal nati.

Imparate a rapire

la moglie al greco re,

ve l'ho attaccata a fé.

Poco valea la spada

d'Ulisse, e Agammenone

se non era la fraude di Sinone.

Messer Paride volle

piantar le guglie in testa a un innocente:

povero Menelao mal avveduto

non era coronato, ma cornuto.

O quanti menelai

oggi van per il mondo;

giuro al cielo, non v'è né fin, né fondo:

la Grecia ha consumati,

diec'anni, e cento mila combattenti,

per celebrar la festa

del torsi le piramidi di testa:

e pur ve ne son tanti,

che sanno del satrapo,

e se le metton per quattrini in capo.

[Aria]

Ogn'un millanta

riputazione,

e se ne vanta

con le persone,

ma se l'argento, e l'oro comparisce

va la riputazion, l'onor svanisce.

Ritornello

Da quanti s'usa

vestir di seta,

e a man profusa

sparger moneta.

Ma vengon quei danari, e quelle spoglie

dal trafficar della scaltrita moglie.

Scena nona

Enea, ombra di Creusa.

Recitativo

ENEA

Deh chi m'insegna omai, deh chi m'addita

la smarrita consorte?

Torna con dubbio passo or la mia vita

tra ferro, e foco a ritentar la morte.

O Creusa, o Creusa, ove t'ascondi?

Dagli abissi, o dai cieli a me rispondi.

Destin dunque non basta

per mio flagello un miserando esilio,

se della cara moglie

non s'aggiunge la perdita? Hanno certo

i cieli le lor furie a quel, ch'io scerno,

e non è solo in crudeltà l'inferno.

Perdonatemi, o stelle, ancorché d'oro

abbiate il vago, e luminoso volto,

un feroce talento in voi raccolto

diluvia a noi mortali

sotto nome d'influsso angosce, e mali.

O madre del mio figlio,

sostegno a' miei pensieri,

consorte de' miei casi,

compagna di mia vita,

o Creusa, o Creusa, ove se' ita?

CREUSA

ombra

Enea, diletto Enea,

non ricercar tra vivi

la tua moglie svenata,

sentila in voce,

guardala in ombra,

dal cerchio de' mortali affatto esclusa,

io son lo spirto della tua Creusa.

Racconsola i singulti,

la volontà del cielo

non ammette contrasti.

Un cenno delle stelle

è legge all'universo,

però se morta io son, portalo in pace.

Mentr'io ti seguitavo

cento spade nemiche

mi colpirono il seno;

per cento spade entrò la morte cruda,

ma sol per una uscì la vita ignuda.

Vanne vedovo mio,

e della morte tua fedel compagna

porta il nome in deposito nel core.

La tua memoria pia

venga ad accarezzar l'anima mia.

A te del nostro caro,

ohimè del nostro, o dio,

del nostro, ah concedete,

ch'io possa dirlo, o tenerezze, o pianti,

del nostro caro figlio

raccomando il tesoro,

il dolce, il solo, il prezioso pegno,

a cui destina il ciel d'Italia il regno,

e nel nome d'Ascanio

ti lascio, che non posso

dopo pronunciato

questo nome di figlio,

ch'ogni amarezza, ogni tormento molce,

dirti parola, o Enea, che sia più dolce,

a dio consorte, a dio.

Non mi vedrai più viva;

sia della tua pietade

frequente ufficio il sospirarmi estinta,

ma sia di tua fortezza

parte dovuta il consolarti; e in tanto

ti lascio, e l'amor mio bacia il tuo pianto.

ENEA

O sparita speranza,

o spirata mia luce,

parto da Troia senza te? Sien dunque

senza tumulo degno

l'ossa onorate, e anderanno insieme

le ceneri plebee con le tue polvi?

Confonde la fortuna

le reliquie insensate,

ma discerne la gloria i merti, e i nomi.

Terra ignorante, oscura

i cadaveri involve;

fama dotta, e lucente

i titoli abbellisce, e l'opre innalza,

e da sepolcro ignoto

rifulge in faccia ai giorni

la memoria de' grandi

venerabile a secoli venturi.

Così vivrai Creusa,

e della tua pietà con grido eterno

testimonio saran trombe sonore.

Con la certa speranza

di tue future glorie asciugo i pianti,

e le versate lagrime sacrando

al loco ove cadesti

ti do, e ricevo l'ultimo congedo,

e senza moglie, e senza patria, o dèi

lascio in arbitrio al caso i passi miei.

A dio morta cittade,

a dio spento Ilione,

mura atterrate, e disperato regno,

estinto Priamo, conculcati altari,

miserande ruine

all'oblio destinate,

ecco lunge da voi me stesso invio,

spenta moglie, arsa patria, io vado a dio.

Scena decima

Venere, Fortuna.

VENERE

Diva anzi più che diva,

con cui partì l'onnipotenza Giove,

fortissima Fortuna,

a cui soggiace quanto

la natura creò sotto la luna;

di Venere, che prega

per un figlio innocente

ascolta i voti, e racconsola i pianti.

Fugge per l'onde il mio

inclito figlio, il valoroso Enea;

non fugge per timor, ma per destino.

Gonfia tu le sue vele,

e sopranatural forza de' venti

in poco d'ora il porti

lontan dal greco mare

per lunghissimo tratto,

e verso Italia voli;

a te nulla è impossibile, o Fortuna,

anzi là tu cominci i tuoi gran fatti

ove ragione natural finisce,

e la tua forza immensa,

perché in tutto trionfa, il tutto ardisce.

FORTUNA

Tutto farò per ubbidirti, o bella

di Cipro imperatrice,

ciò, che non può natura

può la divinità: tosto vedrai

volar l'alta falange

del tuo famoso eroe, del grande Enea,

in poco d'ora fuor dell'onda egea.

Fenderan le prore

l'alto Mediterraneo; ma preveggo

orribili tempeste; io nondimeno

tanto farò, che salvo

arriverà il tuo figlio

al gran lido african fuori di periglio.

VENERE

Abbia la chioma tua

di stellato diadema onori eterni.

Ciprigna sarà sempre

memore grata a beneficio tanto.

Figlio mio, caro figlio, invitto Enea,

non temer punto più di noia alcuna,

se teco vien propizia la Fortuna.

[Passata dell'armata]

Qui passa l'armata troiana a vele gonfie e finisce il primo atto.

Atto secondo
Scena prima

Iarba solo.

Per eccesso d'affetto,

che imperioso alla ragion sovrasta,

la maestà di re

con il mio proprio piè calco, e deprimo,

in arnese privato

celo il regal mio stato;

del regno mio, de' fidi miei vassalli

obliato il riguardo

pende l'anima mia da un dolce sguardo.

Sola Didon l'idolo mio conosce;

che Iarba io son re de' Getuli, a cui

degnamente s'appella

l'Africa serva, e la fortuna ancella:

ma contro Amor tiranno

è impotente il mio scettro:

ad un viso divin, che m'imprigiona

è sforzata ubbidir la mia corona.

Amor sei stato sempre

dio delle violenze,

artefice crudel de' fatti enormi,

or nel mio cor tu formi

laberinti d'angosce,

e meandri di pianti, in cui pur troppo

con precipizi orribili, e diversi

l'alma perdei, la libertà sommersi.

Didone, ohimè, Didone

non mi riceve amante,

e sposo mi rifiuta,

e io scordato del decoro mio

di qui non parto, oh dio!

Ma bisogna che qui

venga Didone sì;

vacilla il cor, trema il pensier, e sente

l'anima mia, che vien verso di lei

l'umana deità de' spirti miei.

[Aria]

Chi ti diss'io

lasso cor mio,

ecco se n' viene

il nostro bene;

m'allegro teco

desir mio cieco,

poiché il destino

t'ha delle glorie tue fatto indovino.

Ritornello

Vieni, e t'affretta

o mia diletta

a consolarmi,

anzi a bearmi

con una sola

dolce parola,

che dar mi puoi

ogni felicità co' labbri tuoi.

Scena seconda

Didone, Iarba, coro di Damigelle.

Recitativo

DIDONE

Re de' Getuli altero

non fastidir de' miei pensier la pace,

ammorza la fornace

degl'insolenti tuoi vani desiri,

son meco inefficaci i tuoi sospiri.

[Aria]

DIDONE

Il mio marito

già seppellito

seco in sepolcro tien gli affetti miei,

se amarti anco volessi, io non potrei.

Ritornello

Se le tue brame

han solo fame

della bellezza mia, Iarba importuno,

sia con tua pace, morirai digiuno.

Ritornello

Vanne se vuoi

a' regni tuoi,

e se pur pertinaci avrai le voglie,

in sogno, in fantasia sarò tua moglie.

Recitativo

IARBA

Didone, io sono un re, non un plebeo.

DIDONE

Iarba, se re tu sei, son io regina.

IARBA

Sprezzato amor in odio si converte.

DIDONE

E vuoi, ch'a forza di minacce io t'ami?

IARBA

Vuò, che 'l merto abbia loco, e la ragione.

DIDONE

A meriti, a ragion non bada amore,

egli è dio, fa a suo modo, e non conchiude

con argomenti umani.

IARBA

Femmina al suo peggior sempre s'appiglia.

DIDONE

Questo è be' ver, perché s'appiglia all'uomo.

IARBA

I regi hanno del dio più che dell'uomo.

DIDONE

E pur muoiono i regi, e non i dèi.

IARBA

La possanza dei re gli uomini affrena.

DIDONE

Ma il fulmine de' dèi castiga i regi.

IARBA

Lasciam di disputar, Didon, t'adoro.

DIDONE

Lasciam di contrastar, Iarba, non t'amo.

IARBA

Disamato, disprezzato

volgo il piè, ma non il core,

che schernito, e mal gradito

tanto è fuori di sé stesso,

quanto è dentro al suo dolore.

Crudele, empia, superba,

bestemmiar, maledirti il cor desia,

ma a mio dispetto sei la vita mia.

[Aria]

Rivolgo altrove il piede,

e 'l cor mio resta qui.

D'aita e di mercede

veder non spero il dì,

insanabile mal m'opprime il core,

son disperato, e pur nutrisco amore.

Ritornello

Derelitto, ramingo,

Didone, ahi dove andrò,

lagrimoso, e solingo

le selci ammollirò;

dirà pur sempre agonizzando il core

son disperato, e pur nutrisco amore.

Ritornello

La ragione, lo sdegno

voglion ch'io gridi, e al ciel mandi i lamenti,

né posso far, ch'a fren la lingua stia,

a mio dispetto sei la vita mia.

Scena terza

Didone, Anna, coro di Damigelle cartaginesi.

Recitativo

DIDONE

Sta mane, mentre l'alba

perleggiava rugiade,

e coloria con imperfetta luce

il sonnacchioso, e taciturno mondo,

vidi cara sorella

un terribile sogno,

che spaventommi, e mi spaventa ancora,

e non voglio, e non posso

l'anima riaver da un freddo orrore,

che agghiaccia omai tutti gli uffici al core.

ANNA

Manda i sogni bugiardi

a involversi nei fumi,

sprezza i vani fantasmi,

scaccia l'ombre insolenti,

pur troppo il giorno somministra affanni,

senza che ancor la notte accresca danni.

Indiscreta natura

tutto il dì ci tormenta,

e non assolve il sonno

da chimere scortesi.

Dormono le palpebre illanguidite,

e pazza fantasia con noi fa lite.

Umanità infelice

desta sempre combatti

con altri, o con te stessa

o col caso, o col cielo,

e quando avvien, che il sonno i sensi ingombre

sei destinata a contrastar coll'ombre.

Ma il sogno, e la follia

son ambi d'una scola,

ambi senza discorso,

senza misura, o freno.

Rallegrati, Didon, col vero lume,

e lascia i sogni all'oziose piume.

Ma dimmi, e che vedesti,

che disturbò la pace a' tuoi pensieri?

DIDONE

Parvemi, ch'una spada

il sen mi traffiggesse,

e che l'alta Cartago, ohimè cadesse.

ANNA

Cessi il ciel tali auguri;

non paventar regina,

mille prestigi, e mille

simolacri deformi il sonno unisce,

ma all'apparir del dì tutto sparisce.

DIDONE

Inteso ho molte volte in gravi accenti

da più saggi, e prudenti,

che il sogno mattutino

gran vaticinio sia,

e quasi sotto la cortina, o il velo

misteri, e profezie ci mostri il cielo.

ANNA

Se il cielo è tutto luce, e tutto raggi,

come vuoi tu, ch'ei mandi

per messaggiere sue le lame, e l'ombre?

L'immaginare umano

ha formate a sé stesso

le frenesie del prestar fede a' sogni.

Pensa cara Didone,

non conosciam noi stesse,

quando abbiam gl'occhi aperti,

e indovine sarem coi lumi chiusi?

Son pazzie credi a me, serena omai

del tuo bel viso i luminosi rai.

Scena quarta

Giunone, Eolo.

GIUNONE

Le ceneri troiane

non soddisfano ancora

al mio giusto disdegno.

L'ira, benché gioisca

nel bere ogn'or dell'offensore il sangue,

non s'appaga però, finché non vede

nel mezzo a strage agl'occhi altrui palese

l'alta vendetta sormontar l'offese.

Sofferto oltraggio attosca

le viscere all'onore,

ma vendicato oltraggio

all'onore è salute,

morde lo scorpione,

ma se l'uccidi, e l'applichi alla piaga

al suo dispetto il suo velen ti sana.

Così l'ingiuria vendicata a pieno

salda all'altrui decoro ogni ferita,

rende al traffitto onor salute, e vita.

Io del re dell'Olimpo

venerata consorte

fui da Paride in Ida

disprezzata, e posposta a Citerea?

Ben vendicate in parte

ho le passate offese, e staran l'ossa

degl'estinti troiani

e nude, e insepolte

a far tacita fede ai dì venturi,

che contro i numi irati

i regni, e i regnator non son sicuri.

Ma dal fil della falce

della morte, che in Troia,

pur tanti esanimò, fuggito Enea

va col padre, e col figlio

promovendo i destini a cose nove,

e se non sarò presta

a spezzar le figure ai gran disegni,

e a soffocar nel punto

le linee de' pensieri al fuggitivo,

veggo bandiere alzarsi,

eserciti formarsi,

e d'impero aggrandir sì vasta mole,

che stancherassi in circondarla il sole.

Prodigioso volo

porta l'armata de' troiani in modo

che l'occhio non la segue,

il pensier non la giunge,

effetto portentoso

di propizia fortuna.

Ma voglio, che sommerso Enea rimanga,

così Priamo svenato,

Troia dal foco spenta,

Enea tra l'onde absorto,

adempito averanno

con diverse ruine un solo sdegno.

Qui venni a ritrovar il dio de' venti

Eolo cortese, e obbligato nume

alla mia deità, dalle caverne

esci nume degl'austri, e aquiloni,

e di Giunone irata

odi le instanze, e approva le ragioni.

EOLO

O dèa non occorreva

discender dalle stelle,

bastava col divin di tua virtute

ispirarmi nell'alma i tuoi comandi.

Pende mia volontà da' cenni tuoi,

eccomi ubbidiente a quanto vuoi.

GIUNONE

Enea quel reo, quell'empio,

ma dirò peggio, quel troiano ha gonfie

le vele in mezzo all'onde;

io voglio, che tu affonde

lui co' suoi legni a più sepolti abissi.

EOLO

Ubbidisco; o miei servi, o turbi, o venti

armisi d'impeto

d'orgoglio insolito

la vostra lena sempre infaticabile,

e gite là nell'africano gurgite,

e quante navi con troiane insegne

ritrovate varcar gl'umidi campi

urtate, e confondete

affondate, immergete, e sommergete.

Scena quinta

Nettuno, coro di Ninfe marine.

[Sinfonia navale]

Recitativo

NETTUNO

Smoderati insolenti

nembi, turbini, venti,

a chi dic'io? io vi farò! chi turba

del tranquillo elemento,

della placida calma

senza gl'imperi miei la bella pace?

Perché tanta licenza?

Sgombrate da miei regni

famiglia violenta,

superbi esecutori

di cieco imperio, e di volere insano.

Fuggite omai, fuggite

satelliti mal nati

della plebe de' dèi

schiera troppo oltraggiosa a' regni miei.

Voi marittime ninfe,

voi dell'ondoso mondo amici numi

rimovete da scogli, e sollevate

le naufraganti, e misere catine,

che tarde non fur mai grazie divine.

Scena sesta

Venere in abito di ninfa, Amore, le Grazie.

VENERE

Già del lido africano,

com'appunto Fortuna a me promise,

è vicino alle rive il mio gran figlio.

Qui Didone è regina, e temo ch'ella

per opra di Giunone

ordisca tradimenti al pio troiano.

Amore io ti vorrei

esecutor de' stratagemmi miei.

AMORE

Madre pensa, e comanda,

ch'io volo, e t'ubbidisco.

AMORE

Da tua sola beltà

nacque mia deità, madre divina,

e però pronto amor a te s'inchina.

Ritornello

Sol mi piace beltà,

chi bellezza non ha non cerchi amore,

dove beltà non è, Cupido more.

Ritornello

Or la tua volontà

mi mandi ov'è beltà, s'ho da ubbidire,

che fuor d'un viso bel non so ferire.

VENERE

Io voglio, che tu prenda

la figura d'Ascanio,

e quando tu sarai

dalla regina Dido accolto in grembo

pungila dolcemente

col tuo dorato strale

sì ch'accesa d'Enea tosto rimanga,

e 'l dolce stral soavemente pianga.

Io farò in tanto, che le grazie mie

portino Ascanio c'ora in nave dorme

all'Acidalio monte.

Così v'impongo, andate,

e 'l fanciul dormiente

dalle navi rapite,

e invisibili gite, e 'l custodite.

GRAZIE

Pronte voliamo,

ed eseguiamo

quanto imponi, o ciprigna,

del famoso troian madre benigna.

AMORE

E io m'invio volando

a diventar Ascanio, o madre a dio.

VENERE

Vanne garzon celeste

dio delle maraviglie:

scegli opportuno il tempo, e osserva il loco,

ove il tuo dardo soddisfar mi deve;

tua pargoletta man d'intatta neve

su l'anima a Didon semini il foco.

Qui nasconder mi voglio,

e dimostrarmi poi quando sia tempo.

Scena settima

Enea, Acate, coro di Troiani.

ENEA

Campioni invitti, e gloriosi eroi,

che meco sofferendo aspri disagi

portate nella fronte

della patria comun l'alto ritratto,

onde possiam chiamarci

Troia peregrinante,

pur col favor de' fati,

del ciel con i sussidi

siam pervenuti al fin dall'onde ai lidi.

[Aria]

Non fu natural vento al creder mio,

che ci ha fatto volar per tante miglia,

di così nova, e strana maraviglia

(siatene certi) il solo autore è dio.

Ritornello

Quel che sembra periglio al primo aspetto

dischiude le fontane alla salute,

fa la fisica man punture acute,

e pur di sanità ne trae l'effetto.

Ritornello

Pazzia rassembra, o pertinacia sola

il batter falsi con serrata mano,

e nondimen si vede uscir pian piano

quel foco, che ci scalda, e ci consola.

Ritornello

Così va, conosc'io l'arti del cielo,

sotto ombre di flagel lusinghe adopra,

mai non è mal quel, che ci vien di sopra,

i dèi son tutti caritade, e zelo.

Recitativo

Superate i furori

della fortuna avversa, e inclemente,

che la ruota di lei

manderà da' suoi raggi alti splendori

sotto il carro in trionfo a vostri onori.

Il recinto del mondo

è fatto per chi vince,

né si vince con l'ozio, né col sonno.

Disagio, e sofferenza

temprano il bronzo eterno a nomi illustri,

alzano statue alle memorie insigni.

Nostra vita è un contrasto con la sorte,

e la fama immortal costa la morte.

ACATE

Signor chi teco viene

nobilita il suo stato;

l'assisterti è decoro,

il servirti è grandezza;

se le cose non nate avesser senso,

vorriano esser prodotte in tuo servaggio.

Non è caduta Troia,

cadder solo le mura,

ma la virtù troiana in te s'è unita,

in te raccolta vive,

e l'eterno a sé stessa in te prescrive.

I perigli minuti

di te non sono degni,

se teco viene in prova la fortuna,

armisi de' suoi casi

più forti, e violenti;

adopri sue vicende

più mostruose, e fiere,

e al fine a' piedi tuoi venga a cadere.

Scena ottava

Venere, Enea, Nuncio, Acate.

VENERE

L'amor materno vuol, ch'io mi discopra.

Ma pur vo' trattenermi alquanto ancora.

ENEA

A chi possiamo dimandar, o Acate,

qual region sia questa?

ACATE

Mira colà, signor, ninfa gentile,

che notizia sicura

darà di ciò, che brami.

ENEA

O ninfa, in cui le luminose idee

impressero bellezza,

che i paragoni sprezza.

Dimmi s'al tuo sembiante

non sfiori invido tempo il bel vermiglio,

qual provincia, qual terra

è questa ove noi siamo?

Se però terra può chiamarsi, dove

vedersi lascia tua beltà divina.

VENERE

Questo è 'l lido african; di qui non lunge

è l'eccelsa Cartagine, ove impera

Didone la bellissima regina,

già vedova rimasta

del famoso Sicheo.

NUNCIO

Signor, mentre sul lido

il tuo canuto genitor usciva,

stuol numeroso di feroci genti

sortì dal bosco, e con insulti, e armi

l'ha condotto prigion: ben mille spade

s'opposero de' nostri,

ma al fine sanguinosa

della fiera tenzone

fu vinta dalla forza la ragione.

VENERE

Non dubitar, signor, alla regina

senz'altro indugio ambasciatore manda,

che impetrerai del padre

la libertade, e troverai Didone

altrettanto trattabile, e clemente,

quanto audace, e feroce è la sua gente.

ENEA

Acate va', prega, disponi, impetra

a pro del padre mio: conduci teco

Ascanio, e in dolci modi,

e in efficaci note

per il grande avo suo preghi il nipote.

ACATE

Vado, signor al lido, e quivi spero

trovar scorta fedel, che m'assicuri

dall'error della strada, e sia mia cura

di conseguir il tuo bramato intento.

ENEA

Ma tu chi sei bellissima al sembiante,

alle maniere più che umane? Dimmi

dell'esser tuo, del nome;

tua modestia cortese

non impedisca a sé gli onori suoi,

né faccia peccar me di mal costume.

E non è ben, che il nome sia secreto,

mentre si vede il merito palese.

Consenti ch'io t'onori

conforme al molto de' doveri miei,

e se celeste sei

mi ti prostri umilissimo, e t'adori.

VENERE

Dunque non riconosci

la madre tua divina,

ch'ha lasciata per te la reggia eterna,

e t'indirizza, e t'assiste, e ti governa?

ENEA

Or sì, ch'io ti conosco,

diva, e madre, e m'inchino,

e raccomando in pianto filiale

a tua pietade il derelitto Enea.

VENERE

Alzati non temere;

segui gl'ambasciatori,

ch'avrai felice il porto,

cortese udienza, e tutto impetrerai,

quanto richiederai.

ENEA

Sì tosto mi abbandoni,

e sopprimi nell'alma mia obbligata

anco i ringraziamenti?

O santa deitade;

tua natura benefica, e cortese

ti move a favorire,

e non ambisci i complimenti umani;

e però quando hai dati

i benefici, subito t'ascondi.

Al contrario fa l'uomo;

vuol esser ringraziato

prima che favorisca.

Andiam commilitoni,

cercarem guida, che ci adduca omai

alla regia Cartagine vicina,

all'alta maestà della regina.

Scena nona

Didone, Damigella, Ambasciatore, Amore in forma d'Ascanio.

DAMIGELLA

Giunge un ambasciator d'Enea troiano,

che da tua maestade udienza chiede.

DIDONE

Venga l'ambasciator, esponga, udiamo.

AMBASCIATORE

Non so, se tanto avrà di spirto il core,

che possa raccontare alta regina

de' troiani infelici

prodigioso il numero de' mali,

ma supplirà delle parole in vece

un duol loquace, un lamentoso pianto.

Del glorioso Enea

nome famoso in Asia, e al mondo tutto,

in riverenti uffici

queste lagrime sono ambasciatrici.

DIDONE

Amico, arrivi in parte,

ove pietà de' peregrini alberga.

Non caderanno in discortese orecchio,

ma saranno raccolte

da sentimento pio le tue proposte.

So dell'inclito Enea

e 'l nascimento, e l'opre;

se di lui nunzio sei,

non approdasti male a' lidi miei.

AMBASCIATORE

Serie di casi improsperi, e crudeli

fece del mio signor barbaro scherzo.

Tra l'insidie mortali il foco, e l'armi

d'Ulisse, d'Agamennone, e d'Achille

precipitò la nostra patria, e andaro

le vite in sangue a formar fiume orrendo,

le cui sponde, e arene

sono ceneri, e ossa

funeste senza esequie, e senza fossa.

Scampammo dalle fiamme

all'instabil ricovero dell'onde.

Ci spinse un elemento

nelle fauci dell'altro;

dubbiosa la morte,

se spegner ci doveva

o nell'acque, o nel foco

tra contrari motivi

irresoluta, al fin ci lasciò vivi;

e dal mare, e dal foco bersagliati,

fuggiti dalle polvi, e dagli abissi,

reliquie di noi stessi,

residui de' naufragi,

mal condotti, e sdrusciti

dato abbiam fondo agli africani liti.

Ma dove alta risplende

tua maestà sublime

la terra si fa cielo,

paradiseggia il loco;

il respirar quest'aure

beatifica i cori;

e dalla tua sembianza

atta, e possente ad abbellir l'inferno

prendono i lieti dì sereno eterno.

Ti supplico, o regina

e di pace, e di porto,

e del cadente Anchise

padre del grand'Enea

fatto prigion dalle tue genti armate,

deh concedimi in don la libertate,

se il sol, che volle impoverir sé stesso,

per arricchir de' raggi il tuo bel volto,

non secchi i gelsomini,

ch'inalbano il candore al tuo bel seno;

se quando la natura ti produsse

incarnò la pietade

nel magnanimo tuo genio cortese,

onde sei degna omai d'altari, e tempi,

le preci mie delle tue grazie adempi.

DIDONE

E pace, e porto io ti concedo, amico,

e libero ti dono

il prigion, che dimandi,

e la città, e la reggia,

che qui vedi, è già tua;

vanne alle navi, e qui conduci omai

quell'eroe sì famoso,

che co' titoli suoi chiari, e illustri

mette al secolo nostro

sì preziosa, e nobile corona,

che cupidi di gloria

n'avranno invidia eterna i dì venturi,

e Cartagine mia tra tanti onori

orni i principi, e i fondamenti indori.

AMORE

come Ascanio

Piovan le sfere

su questa reggia

nembi di grazie, e 'l ciel sia sempre vago

di prosperar, di sublimar Cartago.

Ritornello

Bella regina,

per ringraziarti

figurati vedere a tutte l'ore

su le mie labbra l'obbligato core.

Ritornello

L'etade mia

picciole offerte

può contrapporre a beneficio tanto;

un ossequio bambin ti bacia il manto.

DIDONE

E chi sei tu bellissimo fanciullo,

che in età pargoletta

hai sensi così adulti?

AMBASCIATORE

Questi è del grand'Enea

Ascanio unico figlio.

DIDONE

Amico, errasti, e m'offendesti: dirmi

dovevi tu dal bel principio, quale

fosse questo fanciullo,

onde onorato avessi

lui con altre accoglienze, e in altri amplessi.

Ma si emendi ogni error: siedimi in grembo

figlio d'un semideo.

Ecco io bacio le gote

della diva di Cipro al bel nipote.

AMORE

come Ascanio

Regina, ecco mio padre,

che viene ad inchinarsi

alla tua maestade.

Miralo un poco, e dimmi,

non ha torto il destino

a farlo andar ramingo, e pellegrino?

DIDONE

Ohimè, che aspetto luminoso, e grande!

Che movimento, che guardar, che ciglio,

ben d'una dèa si vede esser lui figlio.

Scena decima

Enea, Didone, Anna, Messo.

ENEA

Bellissima regina

giunge alla tua presenza

un peregrin troiano,

un guerriero infelice,

che porge la man nuda, e chiede pace.

Non m'abbruciò l'incendio

della patria caduta;

non m'inghiottiro l'onde

del mare esasperato,

perch'io potessi consacrarmi vivo

a te, che sei della sovrana luce

vivo riflesso, e animato raggio.

Quel, che costa la vita,

non può costar più caro;

ma s'io mille, e mill'alme avessi spese,

per comprar solo un'ora

del godimento, che in mirarti io provo

in sì felice loco,

speso avrei nulla, o poco.

Deh per accoglier le sventure mie

della pietade tua dilata il lembo,

e degli orrori miei serena il nembo.

DIDONE

Come pungono ohimè soavemente

le di costui parole.

Ora del padre tuo, che sta prigione

la libertà commisi,

e all'orator, ch'a nome tuo mi espose

desiderio di pace, agio di porto,

tutto donai ben pronta.

La cortesia diventa

sopra sé stessa illustre, e onorata,

quando vien teco usata.

L'esser da te pregata, o semidio,

cresce decoro alle grandezze mie,

mentre posso giovarti,

io mi devo stimar più che regina.

Lo scalpel, se lo miri,

è martirio del marmo,

e pur talor d'un dio gli dà figura,

così se la fortuna

ti disturba, e molesta in apparenza,

nondimeno s'adopra,

per porre in chiaro tua virtù divina.

O là, vadasi al porto,

vi si arrechino cibi,

si ristorin le navi,

e soldati, e nocchieri, e ciurme, e genti;

e qui portate omai

ciò, che può consolar chi dal viaggio

deve stanco patir, se patir puote

alto germe divin, prole de' dèi,

gradisci, o semidio gli uffici miei.

ENEA

Regina, io son confuso;

l'anima mia vorrebbe

concepir il suo debito al tuo merto,

ma l'obbligo disperde

i pensieri in sé stesso,

sta il buon voler dal non poter oppresso.

E non formo parole,

per non scemar, parlando,

la gloria, che dall'obbligo mi nasce,

e mentre il cor nell'obbligo ti onora,

onorato t'adora.

Scena undicesima

Tre Damigelle di corte.

PRIMA

Udiste, o mie dilette,

le dolci parolette

della nostra regina al forastiero,

al troian cavaliero;

le vacillan del pari il core, e 'l piede,

è più cieco d'Amor, chi amor non vede.

Ritornello

SECONDA

Vorace fiamma chiusa

sempre sé stessa accusa,

il foco ad onta pur d'ogni divieto

sdegna di star secreto.

Dal tributo amoroso de' tormenti

gl'istessi regi ancor non vanno esenti.

Ritornello

TERZA

Questo troian signore

a Dido ha tolto il core,

così a' piedi d'amor s'inchina, e cade

superba maestade,

né si lagni Didon, perché alla fine

son donne come l'altre le regine.

Ritornello

TUTTE

Sì sì nostra signora

del troian s'innamora;

tra questi novi cavalieri erranti

provediamci d'amanti;

il rigor d'onestade a terra cada,

la regina in amor ci fa la strada.

Scena dodicesima

Iarba solo.

Recitativo

O castità bugiarda,

quanti difetti copri,

quanti vizi nascondi

co' tuoi fallaci, e scellerati modi

abbellisci le colpe, orni le frodi.

Didon meco si scusa,

con le polvi, e con l'ossa del marito,

mischia i colori, e fabbrica i pretesti,

per escluder dal sen le preci mie.

Son gemelle le donne, e le bugie.

Iarba re, Iarba nato

a insospettir con la potenza, e l'armi

e Pluto negli abissi, e Giove in cielo:

Iarba re, Iarba eletto

a stancar i trionfi,

a far sudar le glorie

è posposto ad Enea?

A un forastier mendico,

che scampa dalla terra,

ch'è scacciato dal mare,

ond'hanno l'opre sue

penuria di elementi,

perseguitato con ugual rigore

dagl'incendi, e dai venti,

dalla regina, Enea mi s'antepone?

Quando nacquer le femmine moriro

il discorso, il giudizio, e la ragione.

O crude angosce mie,

son gemelle le donne, e le bugie.

Gelosia venenosa,

gelido mostro, e rio

se cerchi il pianto mio, lo cerchi in darno,

una lagrima sola m'esce a pena,

disperazion ne disseccò la vena.

E io lascio il mio regno,

abbandono lo scettro,

e m'induco a pregare?

Lingua nata ai comandi,

lingua ch'a pena forma le parole,

mentre il cenno de' regi è imperio muto,

discende a supplicare, e è schernita?

Ma pur anco, o Didon, sei la mia vita.

Ed amo, e spero ancora,

e pur in onta delle mie follie

son gemelle le donne, e le bugie.

Qui Iarba si straccia l'abito.

Così stracciar, e sviscerar potessi

da questo sen, da questo cor l'imago

di quel viso assassin, che m'ha ferito,

e annullati gli amori

terminar i furori.

Maledetta la fiamma,

che incenerì il mio petto;

no, mi ridico, e mento:

la natura creante

nel partorir Didone

non produsse un bel viso,

ma incarnò un paradiso.

Anzi no, che vaneggio;

è Didone un inferno,

e in lei son io dannato al foco eterno.

Ma Didon m'ha schernito,

ed io, cieco, e piangente

vo cercando a tentoni

a suon d'aspro martel le mie ragioni.

Deh grida verità, fa', ch'ognun senta,

che un ostinato amor pazzia diventa.

Non possono i poeti a questi dì

rappresentar le favole a lor modo,

chi ha fisso questo chiodo,

del vero studio il bel sentier smarrì.

Scena tredicesima

Iarba, un Vecchio.

IARBA

O bella oltre ogni stima,

degna di prosa, e rima,

e che il bel nome tuo sempre s'imprima

d'un bue pugliese in su la spoglia opima.

Meritevole sei,

che in suon d'f, fa, ut.

Ti canti in un l'Arcadia e 'l Calicut.

Or ascoltami tu,

guarda un poco là su.

Se tu vedi una gabbia;

o ti venga la scabbia,

ancor non ti se' accorto,

che v'è dentro l'augel dal becco storto.

Qui Iarba fugge via.

VECCHIO

O dell'uomo infelice

più infelici vicende.

Un bel viso innamora,

e poi tormenta, e accora,

e in un breve girar d'un solo die

passiamo dagli amori alle pazzie.

Passa l'oggetto bello

a lusingar il core,

ma si muta il diletto

in furioso affetto,

così dolce bevanda il gusto aggrada,

e all'ebrietà c'apre la strada.

Ballo de' Mori africani.

Atto terzo
Scena prima

Didone, Anna.

DIDONE

Qual violenza interna,

qual forza sconosciuta

mi fa tremar le viscere innocenti,

e mi toglie, e mi ruba

di me stessa il dominio,

e mette in schiavitù l'anima mia?

Qual mano, o dio, qual mano

soavemente cruda,

dolcemente superba

con coltello invisibile, e fatale

senza avermi pietà svena il cor mio,

e mentre me lo svena

vuol ch'al dispetto della morte io viva?

Chi queste membra afflitte

disabitò di spirti, e di calori?

Chi mi sforza a singulti,

chi spreme, chi distilla

dall'anima infiammata acque di pianto?

Chi al cor mio diede l'ali, ond'ei mi vola

fuor del petto, e si ferma

dopo corsi raminghi in un bel viso,

son in terra, in abisso, o in paradiso?

Qui sopraggiunge Anna.

Anna sorella, e segretaria fida

custode dell'archivio più riposto

de' miei pensier più cupi, e più profondi,

ecco t'apro le porte,

ti riveli i secreti

degl'arcani dell'anima traffitta,

piangi i martir d'una sorella afflitta.

Quel troiano signor, quel cavaliero,

che poco dianzi con armati legni

reliquie miserabili dell'onde,

delle tempeste avanzo, è qui venuto,

m'ha ferito nel core,

Anna pietà, la tua Didon si more.

Mi circonda la mente

l'orribile sepolcro

del mio già morto sposo,

d'amor l'acuto dardo

trotta ne' miei pensieri

la falce, che recise il mio marito.

Temo se m'innamoro

oltraggiar quelle ceneri gelate.

Mi par di far dispetto

a quell'ossa, se corro ad altri amori.

Il rispetto d'un morto

il desire d'un vivo

fan guerra nel mio petto;

d'un sole tramontato

mi fastidiscon l'ombre;

d'un sole a mezzo giorno

m'infiamma il dolce raggio.

Con un oggetto spento

mi seppellisco viva,

ma con un vivo oggetto

io risorgo, e festeggio,

l'uno mi spira orror, l'altro diletto,

l'un mi chiama alla tomba, e l'altro al letto.

Anna però tu senti,

che un'arteria frequente,

un polso inordinato

le mie febbri amorose a te palesa.

Mira i miei precipiti,

ripensa a miei perigli,

l'oracolo attend'io de' tuoi consigli.

ANNA

O regina, o mia Didone,

o degl'occhi miei pupilla,

se il tuo cor d'amor sfavilla,

non guardar legge, o ragione;

ama, godi a tuo senno, e ti ricrea

col sempre grande, e glorioso Enea.

Ritornello

S'è sepolto il tuo marito,

più non sente ingiurie, o torti,

son di mente privi i morti,

niente sa chi è seppellito;

fa' ch'ogni dubbio dal tuo cor disgombre

trastulla il corpo, e non pensar all'ombre.

Ritornello

Giovanezza senza amori

è una notte senza stelle,

degne son tue guance belle

d'aver servi mille cori,

vada la castità co' suoi compassi

a misurar le voglie ai freddi sassi.

Ritornello

Sangue vivo, età fiorita

mal s'accorda col digiuno,

lascia omai l'abito bruno,

se il destino, e amor t'invita.

Son morte al mondo le giornate triste,

la vita solo nel goder consiste.

Ritornello

Verde incalmo in bella pianta

agghiacciato talor more,

non però l'agricoltore

la radice viva spianta,

ma con inserti novi apre gl'umori,

e più odorosi rivagheggia i fiori.

Ritornello

Così tu Didon consenti

novo innesto peregrino

nel segreto tuo giardino,

che i tuoi fior non sian mai spenti.

Opra, sorella, tu quel ch'io favello,

e apri gl'orti al giardinier novello.

Alla caccia andar potrai,

e nel sen d'un cavo speco

con l'eroe troiano teco

trasformar in gioie i guai.

Vanne, che 'l ciel t'assista, e pro ti faccia,

se gioverà l'esser andata a caccia.

DIDONE

Ministri, e servi miei

ordinate i destrieri,

apparecchiate i cani,

si circondino i boschi,

s'attraversino i colli,

vadansi a ritrovar covili, e tane.

Su, castigate gli ozi,

rinunciate gl'indugi,

dimostri questo giorno

della Tiria virtù gl'usati segni.

Disubbidiente al moto

agl'inciampi s'estenda, e non ai passi.

Gelo, e foco in un punto,

la dubbia volontà raffrena, e spinge:

batte l'alma sul core, e stride, e cerca,

e pur non sa perché soccorso, e pace.

Vado, o non vado, o dèi,

scorgete a buon cammino i passi miei.

Scena seconda

Iarba, due Damigelle.

IARBA

Pur t'ho colta, assassina.

PRIMA DAMIGELLA

Alle dame di corte,

serve della regina?

IARBA

La tua vigliaccheria, ch'è sopraffina,

che mi pone in dispreggio,

merita questo, e peggio.

SECONDA DAMIGELLA

Questo è l'amor, che porti, o re fellone,

alla nostra Didone?

IARBA

Che dici di Didone?

Didon, che nome è questo?

PRIMA DAMIGELLA

Or t'è uscito di mente il nome amato,

pazzarel smemorato?

IARBA

Io non so di Didone, anzi pur so,

ch'ella il sen mi piagò.

Ma guarda quante mosche per quest'aria

battono la canaria.

SECONDA DAMIGELLA

È il tuo cervel che vola,

e batte con le piume una chiaccona.

IARBA

Care le mie giovenche dolci, e belle,

amate pecorelle,

se il ciel vi guardi d'ogni mal le groppe,

dite se queste sono spade, o coppe.

PRIMA DAMIGELLA

E che ti par sorella

di questo sì elegante, e caro pazzo?

SECONDA DAMIGELLA

In quanto a me direi,

se contenta tu sei,

che 'l facessimo entrar solo soletto

nel nostro gabinetto,

per servirsene, sai:

tempo perduto non si acquista mai.

PRIMA DAMIGELLA

Pazzarello amoroso,

forsennato vezzoso

vuoi tu venir con noi?

IARBA

Verrò, ma due son troppo: io non vorrei

por fra due rompicolli i casi miei.

PRIMA DAMIGELLA

Vientene meco pur.

SECONDA DAMIGELLA

Vientene meco omai.

IARBA

Ma giocamo alla mora

con chi debbo venire.

TUTTI TRE

Cinque, sett', otto, nove.

IARBA

Ohimè, che piove.

Deh non vedete voi,

che m'entrano le nuvole nel capo?

Copritemi sorelle,

guardatemi da rischi.

PRIMA DAMIGELLA

O questa ci vorrebbe,

che fossimo trovate in questo impaccio

col bambozzo nel sen, col matto in braccio.

IARBA

O mirate, mirate

quante spade, e celate

formano il rompicollo alle brigate.

Osservate ignoranza,

che un asino cavalca,

e alla virtù, ch'è a piedi

dà la fuga, e la calca;

ma nel mezzo mirate, o vista rea,

Didon, ch'abbraccia il fortunato Enea.

SECONDA DAMIGELLA

Infelice ei vaneggia,

e nella mente insana

l'ostinato fantasma ancor passeggia.

IARBA

Sapete voi gli avvisi di Parnaso?

Venere è uscita a trastullarsi al fresco,

e ha incontrato per l'amene strade

diversi beccafichi,

che l'han confusa in inviluppi e intrichi;

onde non v'è dubitazione alcuna,

tosto vedrem l'eclissi della luna.

PRIMA DAMIGELLA

O bel pensiero, o curioso avviso.

IARBA

Guardate, deh guardate

con quanta gravità

riposato si sta con piedi pari

il censor del paese,

il gran fiuta popone modenese,

che sopra del quantunque, e sopra il cui

fa del censor delle faccende altrui,

e dice questo certo io non lo voglio,

quest'altro non mi piace,

e questo non l'ammetto in alcun modo,

ch'io non so poetar, se non al sodo:

e aggiunge il sputa tondo,

cotesto io no 'l vorrei,

né quest'altro giammai l'apponerei;

e non s'accorge il povero meschino,

che il pesce grosso si mangia il piccino.

SECONDA DAMIGELLA

Orsù finiamla, pazzerel mio caro,

vogliam partir di qua?

IARBA

Ma dove starò meglio,

o mie zitelle in questi caldi estivi,

che tra gli ameni colli,

de' vostri seni amorosetti, e molli?

PRIMA DAMIGELLA

Andiamo omai, che 'l ballo si finisce.

IARBA

Al ballo eccomi pronto.

Scena terza

Cacciatori.

[La caccia]

Tu tu tu al cingiale, al cingiale,

ve' Melampo, che l'afferra,

ve' Licisca, che l'atterra,

dal destrier scendiamo a' piedi,

siamli addosso con gli spiedi;

or la lena, e 'l braccio vale

tu tu tu al cingiale, al cingiale,

ve' che gridi orrendi, e strani,

come fan spavento ai cani,

da quel dente incrudelito

già Tigrin resta ferito,

né si move a pena più

al cingiale, al cingiale tu tu tu.

Ve' che ruote infuriate,

ve' che zanne insanguinate,

par che morte avventi, e scocchi

dalla rabbia di quegl'occhi,

com'è fiero, com'è forte

tu tu tu al cingial date la morte.

Già piagato in mille bande

con il sangue l'alma spande,

ecco il piè gli cade sotto,

ecco a morte egli è condotto,

suona suona il corno acuto

il cingial tu tu tu langue caduto.

Ma qual orrida tempesta

strage annuncia alla foresta;

qual ruine avranno i campi,

odi i tuoni, e vedi i lampi,

già da monti verran torrenti, e fiumi,

il dì s'annotta, e 'l sol ha spenti i lumi.

Suona il corno, e diamo volta

qui per questa selva folta;

vedi il fulmine, che straccia

a quell'arbore le braccia;

s'impetuoso turbo urta le selve,

e fa negl'antri inorridir le belve.

Qui passa la Regina con Enea.

Vedi vedi la regina

col troian, che s'avvicina

là del monte al cupo grembo,

per scappar sì fiero nembo;

or per i men difficili sentieri

salviamci a tutto corso, o cavalieri.

Scena quarta

Giove, Mercurio.

Recitativo

GIOVE

Mercurio vedi tu, come caduto

da' suoi titoli illustri, e immortali

il valoroso Enea giaccia perduto,

scopo infelice agl'amorosi strali?

Della sua fama eccelsa il grido è muto,

la di lui gloria ha indebolite l'ali.

Egli è notte a sé stesso, e sue bell'opre

disonorata nube involve, e copre.

Vola a lui, di', ch'ei parta, e non ritardi

con sozzi indugi il corso alle sue stelle,

scacci da sé i pensier vili, e codardi,

e faccia alla ragion sue voglie ancelle;

fugga il velen degl'amorosi sguardi,

scampi il malor delle sembianze belle,

vinca sé stesso, e parta, e i propri errori

sconti coi pentimenti, e coi rossori.

Di bella donna un lusinghiero volto

a seppellire i scettri suoi lo guida,

e in laberinto femminile involto

fa' che l'ozio, e l'oblio sue glorie ancida,

vanne, e guarisci in lui l'arbitrio stolto,

ammonisci l'errante, anzi lo sgrida.

L'uom, che sopra sé stesso non ha forza,

tutti del suo decoro i lumi ammorza.

Qui Mercurio scende dal cielo.

Scena quinta

Mercurio, Enea.

MERCURIO

Enea, che fai, che pensi? Enea tu dormi?

L'incenerita Troia omai ti desti

l'imperatrice Italia i tuoni appresti,

onde abbian fine i tuoi letarghi enormi.

Giove dio delle cose a te mi manda

perch'io sgridi i tuoi falli, i tuoi furori,

alla mensa degli ozi, e degli amori

hai trangoiata una mortal bevanda.

Lascivia folle, e smoderato affetto

effeminaro il brando tuo feroce.

Tu non rispondi no? scampa tua voce

a seppellirsi entro all'avel del petto.

Tu quel troiano, tu quel pio, quel forte,

che di gloria alla cote aguzzò l'armi,

che fu decoro ai bronzi, e pompa ai marmi,

e per trionfo incatenò la morte.

Or imbelle guerriero, e drudo vile

le libidini stanchi, e 'l nome guasti,

e obliati i militar contrasti

soffri in brutto sudor giogo servile.

Ascanio il tuo figliuol, che in sé racchiude

de' posteri gli scettri, e le corone,

fraudato oggi vien per tua cagione,

e l'error tuo le di lui glorie esclude.

Non affetto di padre, o di monarca

ti chiama a comandar province, e mondi;

dai ciechi abissi, e dagli orror profondi

a luminoso porto or meco varca.

Arma il cor di fortezza, e ti rammenta,

ch'altrove il ciel l'altezze tue destina,

tronca il filo agli indugi, alta ruina

già ti s'appresta, se tua fuga è lenta.

[Aria]

Leva l'ancore, e in alto al gran passaggio

la tua falange spieghi al vento i lini;

per tuoi nocchier s'accordano i destini,

Nettun sarà il pilota al gran viaggio.

Ritornello

Vanne in Italia, ch'a te sol fa voti,

per partorire alla tua prole i regni;

la terra, e 'l ciel saranno angusti segni,

le palme per capir de' tuoi nipoti.

Ritornello

Or vigoroso movi e 'l core, e 'l piede,

e da ceppi l'arbitrio discatena;

del vano lagrimar chiudi la vena,

così t'impon chi 'l tutto intende, e vede.

Scena sesta

Enea, coro di Troiani, Acate.

Recitativo

ENEA

Acate, Ilionèo, compagni, amici,

ohimè qual vision l'alma m'abbaglia?

Qual scalpello divin nel cor m'intaglia

sentenze eterne, e de' miei falli ultrici?

Il ciel fulminator de' petti rei

chiama dal core i pentimenti miei.

Acceleriam l'andata, e taciturni

lasciam di Libia i minacciati lidi,

ci prometton le stelle alti sussidi,

su via dal porto usciam cheti, e notturni,

sicché il rumor non giunga alla magione

dell'infelice mia dolce Didone.

Fierissimo contrasto, aspro conflitto;

Amor m'induce ai pianti a viva forza,

onor trova le lagrime, e le sforza

a soffocarsi in mezzo il core afflitto.

Son pianta combattuta da due venti,

e vengon da due inferni i miei tormenti.

Me la pietà di padre, e verso i divi

religione or chiama alla partita,

ma Didone il mio core, ahi la mia vita

come abbandono in lagrimosi rivi?

In fiamme già lasciai la patria antica,

lascio in acque di pianti ora l'amica.

Dormi cara Didone, il ciel cortese

non ti faccia sognar l'andata mia,

il corpo in nave, e l'alma a te s'invia,

non sien mai spente le mie voglie accese,

ite sotto al guancial del mio tesoro,

o miei sospiri, e dite, ch'io mi moro.

Ritornello

Peregrin moriente il piede movo,

ma vivace amator il core ho fermo,

dal voler degli dèi non trovo schermo,

e in ubbidire al ciel l'inferno provo,

se svegliata vedrai lunge mie vele,

bella Didon non mi chiamar crudele.

Perché fisso destin colà mi vuole,

ove spargendo bellicosi i semi,

corrà frutti di scettri, e diademi

la mia del ciel predestinata prole.

Già il vento spira, il ciel mi chiama, o Dido,

a dio parto, e veleggio ad altro lido...

CORO DI TROIANI

Al lido amici,

correndo andiamo,

sarem felici,

se noi partiamo.

ACATE

Cheti, o là, che dic'io?

supprimete le voci,

e frettolosi in nave ite, e volate.

Agl'uffici espediti,

ordinate i navili,

e precorrete i venti,

e provocate il mare alla partita.

ENEA

Così v'impongo, andate,

né palesate del partire un cenno,

ch'io sarò tosto a voi.

Scena settima

Didone, Enea.

DIDONE

Perfido, misleale,

così la fuga tenti,

e ordisci i tradimenti?

E perché non lo sappia, empio, volesti

sceglier la notte oscura,

seppellirne la fama,

far muto il mondo, e trar le lingue ai venti?

Sai tu chi me l'ha detto?

Me l'ha detto l'inferno,

che per empirti di perfidia il petto

ha privato sé stesso

delle furie, e de' mostri:

tratti così gli abbracciamenti nostri?

Abbracciamenti, oh dio,

come volesti, oh cielo

di pestilenze influitor maligno

umanare l'aspetto ad una serpe,

solo perch'io me la covassi in seno?

Diedi la vita in preda,

diedi l'onor in mano

all'assassin delle fortune mie.

Enea, spietato Enea,

tu mi rendi così con cambio ingiusto

per dolcezze veleni,

e svenando la fede, e la ragione

la morte affretti della tua Didone.

Ti fo libero dono

dell'immensa Cartagine, che sorge,

e con le torri eccelse

ha vinta l'aria, e ingelosito il cielo.

Tributari vassalli

dell'oro, e della fede

ti saran tutti i miei:

l'Africa tutta produrrà trionfi,

germoglierà trofei

delle tue glorie al carro, e finalmente

sarà l'anima mia

alla bella, e divina tramontana

del tuo viso gentile

calamita servile.

Ecco abbasso a' tuoi piedi

il nome di regina:

umilio al tuo cospetto

questa corona mia.

Atterro alle tue piante

la porpora, e lo scettro;

piego alla tua grandezza

i singulti, i pensieri,

e prostro a te davanti,

e le ginocchia, e 'l viso,

e se sotto la terra, e sotto al centro

ha sito l'umiltade, o casa il pianto

colà giù profondata

mando agli orecchi tuoi

sol questo prego lagrimoso, e pio.

Non mi tradir, non mi lasciar, ben mio.

ENEA

Regina, omai rasciuga

quella pioggia d'argento,

che dalle stelle tue sul cor mi cade.

Regina, omai raccogli

le preziose perle,

i tepidi diamanti

di questi tuoi mal consigliati pianti.

Non val la mia fortuna,

non costa la mia vita

di così ricche lagrime una stilla.

Deh bellissima Dido

non siano i tuoi dolori

prodighi sì nel dissipar tesori.

Teco mi strinsi, è vero,

e nelle braccia tue provai, non nego,

in coppa di delizie un mar d'amore.

Tu per ogni mio senso

hai tentata la strada

per sorprendermi il core, e l'hai sorpreso;

onde l'arbitrio mio

con la catena al collo

mostrava il suo servaggio a' tuoi begl'occhi;

e io del cor incatenato, e stretto

ero prigion andante, e carcer vivo.

Così la patria in foco,

i compagni nell'onde,

la libertate in Libia,

l'anima nel tuo volto

o regina io perdei,

la sorte si stancò ne' casi miei.

Ma da Giove mandato,

Mercurio il glorioso,

interprete de' dèi,

mi sgrida, e mi comanda,

ch'io parta, e non ricusi

del destino gl'inviti,

che chiamano il mio figlio

per volger d'astri incognito, e profondo

all'imperio d'Italia, anzi del mondo.

Ti lascio queste lagrime, e dolente

parto dalle tue rive.

Correrà mia memoria innamorata,

a baciar questa terra,

ove mi raccogliesti;

e dell'anima mia la miglior parte

sarà perpetuo tempio

alla divinità del tuo bel viso.

Navigherà per l'onde

inaufragabilmente

riposto nel mio cor il tuo ritratto.

Verran dentro al mio petto

alla tua deità gli eretti altari

a placar gl'euri, e implacidire i mari.

Consola i tuoi cordogli,

richiama a te la pace,

manda il duolo in oblio.

E da me prendi omai l'estremo a dio.

DIDONE

Dunque sordo a miei preghi,

cieco alle mie ruine,

anzi delle mie ceneri infelici

dissipator feroce,

del mio nascente regno

sovversor dispettoso

l'imperio di Cartagine rifiuti?

E per gl'ondosi campi

vai cercando gli scettri, e le corone,

e stimi onor l'assassinar Didone?

E io fui così stolta,

ch'ad un profugo errante

avanzato alle fiamme, anzi da quelle

rifiutato, aborrito, come indegno

di macular, di profanar col sangue,

le sacre mura della patria ardente,

diedi ospizio, e soccorso, e don gli fei

del mio decoro, e de' tesori miei?

Io, io, fui sì crudele

contro l'ossa innocenti,

del sepolto marito,

ch'a te mendico ignoto,

fuoruscito, e ramingo il cor piegai,

e da te la mia morte cominciai.

Giove ti dà consiglio

di tradir l'innocente?

Mercurio t'ammonisce

a lacerar la fede?

Un dio ti persuade

perfidie, e fellonie?

Il ciel qui ti condusse

a calcar i diademi all'onor mio,

per comandarti poi

con oltraggiose, e barbare ragioni,

che qui disonorata or m'abbandoni?

Scellerato troian de' tuoi misfatti

osi imputar, e incolpar il cielo?

Sacrilego tiranno,

mostro d'insidie, adopri

religioso manto

per mascherar di volto pio l'inganno,

e mentre le tue frodi addossi al fato

metti il manto di Giove al tuo peccato?

Menti bugiardo, menti:

scopro l'insidie, e riconosco l'arti.

Ottimo è il ciel, son pessimi i mortali,

la deità non autorizza i mali.

Vanne, vattene pur, stanca, e aggrava

delle balene i ventri

con le tue navi; e sforza

la pietà degli dèi

a incrudelir contro il tuo capo; e vada

a cader tra ruine

delle tue colpe insanguinato il fine.

Ti sprezzi ogni memoria,

l'oblio ti vilipenda;

per spavento de' tempi,

per terrore de' secoli venturi

resti il tuo nome; e per racchiuder tutte

l'empie brutture in una voce rea

sol si pronunci, Enea.

E poiché nulla curi i regni miei,

va' cercando nei mari Italia: oh dio,

cerchi regni per l'onde, e qui tu lasci

nel mar delle mie lagrime la fede

del vero amore, e il regno della fede.

Vanne, ch'io qui delibero

chiuder le luci languide,

finir l'angosce, e i gemiti.

Venga la morte squallida,

segni il punto al periodo

di mie giornate flebili,

e la parca terribile

con la fatal sua forbice

recida il filo tenue

della mia vita debole.

Qui chiudo gl'occhi miseri

della luce vitale ai dolci rai;

ingrato Enea, non gli aprirò più mai.

Qui Didon tramortisce.

Scena ottava

Sicheo in ombra, Didone tramortita.

SICHEO

Queste sono l'esequie, e le memorie,

che tu celebri a me, donna impudica?

Son questi i funerali,

in cui pietà, religion risplende?

Così sul marmo del sepolcro mio

scrivi infamie alle ceneri gelate,

stampi obbrobri su l'ossa

dell'innocente tuo spento marito?

A sozzure sì enormi,

a sì laide brutture

precipita, e ruina

il titolo di moglie, e di regina?

Prendi uno specchio, e guarda

di te stessa l'imago,

e trema di spavento

al simulacro orrendo

della tua colpa infame,

mira la tua coscienza,

e troverai là dentro

il misfatto, e 'l flagello,

che la ragione, e l'anima diventa

carnefice del corpo,

e con macello interno

i colpevoli sensi uccide, e sbrana.

Lacera pur te stessa

con le torture de' tuoi propri falli.

A chi vive nel mondo

una morte sovrasta,

ma per castigo tuo consenta il cielo

moltiplicati generi d'angosce

alla tua morte rinascente, e in tanto

il tuo sangue, e 'l tuo pianto

eternamente sia

bagno, e bevanda alla vendetta mia.

Didon rivenuta parte.

Scena nona

Tre Dame di corte.

PRIMA

Enea rivolto ha 'l piede

da queste spiagge apriche;

donna, che in uom pon fede

perde le sue fatiche,

ché son più vani i cor de' cavalieri,

che le piume non son de' lor cimieri.

SECONDA

Però se ingegno avremo

nell'amoroso tresco,

consolate vivremo

sempre di fresco in fresco;

bisogna variar disegno, e volo,

perché fa troppa nausea un cibo solo.

TERZA

Fedeltate, e costanza

son belle da contarsi,

ma per porle in usanza

son mostri da scamparsi.

È ben pazza colei, che s'innamora,

se in un solo pensier sta più d'un'ora.

Scena decima

Iarba, Mercurio.

IARBA

O che vita consolata,

o che mondo ben composto,

mangiar stelle in insalata,

e 'l zodiaco aver arrosto,

così la complession ben sì mantiene,

né si può dubitar di mal di rene.

Deh vita mia sentite,

non ve n'andate ancora,

Amor per voi m'accora,

e mette fuor de' gangheri il mio petto;

sapete pur, ch'io spando

lagrime per le nari, e per li orecchi,

e l'ombelico mio non può lavarsi

nell'onda dell'oblio,

sapete ch'io son quello,

che per farvi l'amore,

cavalco alla ridossa un mongibello,

o bell'ore, o chiar'ore,

o bene mio squartato

deh consolate il vostro innamorato,

che se mi siete cruda

il ciel vi metta ignuda

in arbitrio, e in braccio

all'ebbro popolaccio,

e vi faccia mostrar al mondo tutto,

quanto il cielo vi diè di bello, e brutto.

MERCURIO

Ecco Iarba impazzito.

O natura creata

ai casi destinata.

O caduci mortali

calamite de' mali,

vo' sanar la pazzia, ma non l'amore

di questo infermo core;

vuò che saggio ritorni,

ma non si scordi mai

dell'amata Didone i dolci rai.

IARBA

Ma, che panni son questi,

che novità ved'io?

Ohimè da quali abissi

l'intelletto risorge.

Cilenio a te prostrato

adoro la tua man, la tua virtute.

O somma deità, che tutto puoi,

il mio genio s'atterra ai piedi tuoi.

MERCURIO

Vivi felice Iarba;

l'adorata da te bella regina,

così il cielo permette,

fatto ha l'influsso reo l'ultime prove,

or il ciel sovra te delizie piove.

IARBA

O benefico dio,

o dator delle grazie, e de' favori,

felicità mi doni,

che soprafà

l'umanità;

chi più lieto di me nel mondo sia,

se Didon finalmente sarà mia.

Ritornello

O secreti profondi,

non arrivati dal pensiero umano;

per contemplarli

forza non ha

l'umanità;

chi più lieto di me nel mondo sia,

se Didon finalmente sarà mia.

Ritornello

Scena undicesima

Didone.

Porgetemi la spada

del semideo troiano.

Ritiratevi tutte, o fide ancelle;

appartatevi, o servi;

io regina, io Didone?

Né Didon, né regina

io son più, ma un portento

di sorte disperata, e di tormento;

vilipesa dai vivi,

minacciata dai morti,

ludibrio uguale agl'uomini, e all'ombre.

Pur troppo io t'ho tradito,

o infelice marito;

pur troppo da miei falli

la dignità real resta macchiata.

Disonorata adunque,

come respiro, come

movo il piè, movo il capo?

Anima mia sei dunque un'alma infame,

se presti il tuo vigore

a chi non ha più onore;

m'additeranno i sudditi per vile

concubina di Enea;

mormoreran le genti

la mia dissolutezza.

Ma se fosser pur anco

le genti senza lingua,

le penne senza inchiostri,

muta la fama, e i secoli venturi

senza notizia degli obbrobri miei,

basta la mia coscienza,

che sempre alza i patiboli al mio fallo.

Ho soddisfatto al senso,

alla ragione si soddisfi ancora;

e se me stessa offesi,

or vendico me stessa.

Ferro passami il core,

e se trovi nel mezzo al core istesso

del tuo padrone il nome

no 'l punger, no 'l offender, ma ferisci

il mio cor solo, e nella strage mia

sgorghi il sangue, esca il fiato,

resti ogni membro lacerato, e offeso,

ma il bel nome d'Enea,

per cui finir convengo i giorni afflitti

vada impunito pur de' suoi delitti.

Cartagine ti lascio.

Spada vanne coll'elsa e 'l pomo in terra,

e nel giudizio della morte mia

chiama ogn'ombra infernal fuor degli abissi.

E tu punta cortese

svena l'angosce mie,

finisci i miei tormenti,

manda il mio spirto al tenebroso rio

empio Enea, cara luce, io moro, a dio.

Qui Didone vuol ferirsi, e vi sopraggiunge Iarba, che ne la impedisce.

Scena dodicesima

Iarba, Didone.

IARBA

O dèi, che veggio? o dèi, questi non sono

gl'esempi, e gl'argomenti,

onde gl'uomini frali

vi credono immortali.

Vesta, Giunon, Diana,

la vostra eternitade è certamente

titolo morto, e favola dipinta,

se la dèa delle dèe rimane estinta.

Didone? estinta giaci? al tuo bel viso

consacrerò piangendo

tarde lusinghe, e intempestivi baci.

Inginocchiati, o core,

abbassatevi, o labra,

rapisca il vostro disperato duolo

dall'altar della morte un bacio solo.

No, che se viva fosse

mi negherebbe la mia Dido i baci;

e non debb'io, se ben amor m'ingombra

noiarla in spirto, e fastidirla in ombra.

Esangue anima mia, morta mia vita,

chi ti chiuse quegl'occhi,

che m'apersero il seno?

Ohimè vidi ben'io, luci mie belle,

a tramontar non a morir le stelle.

Perdonami destino,

i tuoi celesti aspetti impazienti

d'aver in terra un paragon sì bello

dubitando che il mondo un dì l'adori,

l'hanno estinto infelice;

così da sua superbia il ciel commosso

a puntigliar con la natura nostra

per ragione di stato

sì bel corpo ha svenato.

Ma senza te

non sia mai ver,

ch'io viva un dì;

ciò, che non puote amor, possa la morte.

Pallida mia,

squallida bella,

gradisci il mio morire;

e s'odiasti già la vita mia,

deh togli in pace almeno,

idolo mio spirato

quest'ultima amarissima agonia.

Iarba si vuol ferire, ma s'arresta, vedendo rivenir Didone.

DIDONE

Iarba deponi il ferro, e lieto vivi.

Da me ricevi in dono

quel che tu mi donasti,

la vita a me salvasti,

la salute, e la vita a te ridono;

finché vedrò di questa luce i giri

agl'obblighi vivrò più, ch'ai respiri.

Ma dovria la fortuna, o la natura,

per provveder d'altari i tuoi favori

moltiplicarmi in questo seno i cori.

A te spiro, a te vivo,

e per giusta ragione

d'altri non sia, se non è tua, Didone.

IARBA

Santa pietà del cielo

a qual felicità Iarba riservi?

Occhi miei, che stancaste lagrimando

i pianti, e l'amarezze,

ora diluviate

del cor mio l'ineffabili dolcezze.

E è vero, o bellissima regina,

che pietà senti, e m'ami?

DIDONE

Iarba preservator della mia vita,

re, vero amante, e fido amico, e mio,

gl'andati miei rigor mando in oblio,

d'averti offeso è già Didon pentita.

Ritornello

Le cortesie dal tuo gran genio uscite

chiaman da me la viva ricompensa;

brama l'anima mia d'esser immensa,

per capir gratitudini infinite.

Ritornello

Sorda a' lamenti, a' preghi tuoi sdegnosa

gradir non volli il tuo verace affetto,

ora disarmo d'ogni asprezza il petto,

eccomi a' tuoi voleri ancella, e sposa.

Ritornello

IARBA

Didon tu preservasti i miei respiri,

la vita mia di tua pietade è dono,

e dolce ti concedono perdono

i miei già disperati aspri sospiri.

Alle tue cortesie dilato il core,

e l'alma mia negl'obblighi trasformo,

e a' tuoi pensier, e a tuoi desir conformo

la vita, e i sensi in servitù d'amore.

E poiché sei de' miei martir pietosa,

e le morte speranze in me ravivi,

qui in presenza degl'uomini, e dei divi

per mia regina ti ricevo, e sposa.

[Aria con tutti gli strumenti]

Son le tue leggi, Amore,

troppo ignote, e profonde,

nel tuo martir maggiore

la gioia si nasconde.

Dalle perdite sai cavar la palma,

dalle procelle tue nasce la calma.

Ritornello

DIDONE

L'àncora della speme,

de' pianti il mare insano

qualor ondeggia, e freme,

non mai si getta invano;

ch'Amor nel mezzo ai casi disperati

i porti più felici ha fabbricati.

Ritornello

TUTTI DUE

Godiam dunque godiamo

sereni i dì, e ridenti,

né pur pronunciamo

il nome de' tormenti.

DIDONE

Iarba son tua.

IARBA

Didon t'ho al cor scolpita.

DIDONE

Ben...

IARBA

Gioia...

DIDONE

Cor...

IARBA

Speranza unica, e vita.

Fine del libretto.

Generazione pagina: 14/01/2016
Pagina: ridotto, rid
Versione H: 3.00.40 (W)

Locandina Prologo Scena unica Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima