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La fida ninfa

LA FIDA NINFA

Dramma per musica.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto di Scipione MAFFEI.
Musica di Antonio Lucio VIVALDI.

Prima esecuzione: 6 gennaio 1732, Verona.


Interlocutori:

LICORI ninfa di Sciro

soprano

ELPINA ninfa di Sciro

contralto

ORALTO corsaro e signor di Nasso isola dell'Egeo

basso

MORASTO

soprano

OSMINO

contralto

NARETE padre di Licori, e d'Elpina

tenore

GIUNONE

contralto

EOLO

basso


Accompagnamenti:
di Corsari con Oralto,
di Venti con Eolo.



Eccellenza

L'ardimento, che la nostra compagnia ha avuto di assumere la prima recita del Teatro Filarmonico, ha fatto strada all'altro di consacrare a v. e. il libretto, e di riverentemente presentarglielo per la sicurezza che non potrebbe mai incontrare maggior sorte, che di esser ben accolto da così gran dama, la quale unisce alla grandezza della fortuna le più ammirande qualità. Il nobilissimo a antichissimo sangue delle celebri famiglie Soranza, e Gradeniga, basterebbe da sé a meritar la venerazione, e la stima universale; ma le sue pregevoli doti, e l'ingegno vivissimo, e la prudenza da tutti esaltata, e la somma pietà, la rendono degna consorte d'un rappresentante, che si rende l'invidia de i grandi esempi, e che può bastare con le sue azioni a santificare un aprovincia. Si degni adunque di favorire con l'aura della sua protezione la nostra difficile, e non piccola impresa, che allora non temeremo di non riuscire con felicità, e con gloria: da questa speranza animati con profondo ossequio ci dedichiamo di v. e.

umilissimi e devotissimi servitori

Li compartecipi

Al lettore [da edizione successiva]

Perché di tutti e tre i generi, a' quali ne' moderni secoli si è ridotto il teatro, si abbia qui saggio, ecco per terzo un dramma musicale. Avendo la presente condizion de' tempi fatta sospendere l'apertura del nuovo teatro della nostra accademia di Verona, che nella primavera passata con tanta sontuosità preparata era, e per somma sventura impedendola anche nel prossimo autunno, non solamente se n'è provato il danno di gravissime spese indarno fatte, ma n'è rimasta in oltre tormentata curiosità, che molti aveano di vedere il dramma, ch'era destinato. Essendone però andate fuori alcune copie, benché non uniformi tra loro, si è creduto di poterla considerare come opera in certo modo pubblicata, e di poterla dare alle stampe: e ciò senza pregiudizio della nobil recita quando sarà permessa, e per la quale sono in ordine tutti gli apprestamenti, e tutte le scene, lavorate sontuosamente dal sig. Francesco Bibbiena architetto, e pittor bolognese. Perché un dramma non è necessario, che non sia stato letto.

Stimo bene di far qui sapere, come l'accademia veronese detta filarmonica, nata alla metà del secolo cinquecentesimo, ebbe come appare dal titolo stesso per antico suo istituto il coltivare tanto la poesia, quanto la musica, quali come gl'intendenti ben sanno son due arti gemelle, e tra loro sì analoghe, che a pensare e favellar sanamente non vi dovrebbe esser poesia senza musica, né musica senza poesia. Si vede ne' vecchi statuti dell'accademia, come a que' primi tempi in pubblico cantavano, e suonavano gli accademici stessi: stabilirono però di fabbricare nel loro fondo un teatro magnifico, del qual si vede il modello; abbenché cangiatasi la condizione de' tempi, quel modello fatto al gusto de' latini, e de' greci teatri non siasi trovato abile alle costumanze presenti, né alla nuova maniera de' drammi musicali. Li presenti accademici adunque hanno seguito l'istituto de' loro padri fabbricando col concorso della miglior parte della città un nobilissimo teatro, dalla forma del quale ben si conosce, come l'idea è stata affatto signorile. Il nostro autore però, ed insieme con lui il sig. conte Ippolito Bevilacqua il sig. conte Gerolamo Pompei, e il sig. conte Giorgio Allegri, i quali a preghiere dell'accademia assunsero la sopraintendenza di così difficil negozio, e quelli parimente, che l'anno scorso cedendo alle pubbliche instanze intrapresero d'assistere alla prima sontuosa apertura, l'hanno fatto per nobile adempimento dell'istituto dell'accademia stessa.

Ora per venire al proposito nostro, quando l'autore fece prima questo componimento, era nell'anno suo diciottesimo, e lo tenne però con altri sepolto. Molto tempo dopo divisandosi da alcuni cavalieri suoi amici per certa occasione una recita in musica, lo prese per mano, e vi mutò gran parte de i versi, perché il gusto dello stile da quel tempo assai mutato era. Svanito poi quel disegno, tornò a seppellirlo sino alla presente congiuntura, quando desiderandosi dramma nuovo, e pastorale per ischivar le troppe mutazioni di scena, dopo d'aver eccitati invano alcuni valenti poeti a comporlo, credendosi allora che fosse assai ristretto il tempo, diede mano a questo.

Bisogna avvertire, che l'autore non considerava questo dramma come perfezionato, e che dovesse rimanere come qui si trova, non avendo anzi voluto dargli l'ultima mano, perché non volea farlo se non sotto gli occhi del maestro di musica, qual però voleva venisse a comporre in sua casa per levar arie, o aggiungere, e per adattarle al di lui piacere nel modo, e nel sito, e in altre circostanze della scena, secondando anche il genio de i cantanti: anzi in alcuni loghi vi erano due arie in vece di una, perché il maestro prendesse la più geniale, di qualcuna ancora essendosi servito, che aveva con applauso usata in cantate. Credo, che tutto ciò era coerente alla opinione, ch'egli accennò nella prefazione al Teatro italiano; cioè che dopo la maniera, ch'ora corre di musica nei nostri teatri, i drammi non siano altro, com'egli dice quivi, «che un'arte storpiata in grazia di un'altra, e dove il superiore serve all'inferiore, e dove il poeta quel luogo ci tenga, che tiene il violinista ove suoni per ballo». Per lo che suol dire, questi essere componimenti, de' quali per lo più perisce la memoria col suono; come dell'eloquenza di Seneca disse Tacito negli Annali. E pure è cosa ammirabile, quanto rari sieno i poeti, che in tali difficili bagatelle riescano, e incontrino, richiedendovisi ancora alquanto più del poetico nello stile, e più difficili, che non pensa chi provato non vi si ha, essendo le ariette; che però se si farà per curiosità osservazione, molto rare si sogliono vedere, che sentimento giusto contengano, e parole di riempitura, e sforzate, e versi superflui al concetto non abbiamo; e difficile anche essendo l'andarne variando il metro, e l'idea. Del moderno canto poi nel teatro parla il Gravina in questa forma nel libro della Tragedia; cioè che «in cambio di esprimere, e d'imitare, suol più tosto estinguere, e cancellare ogni sembianza di verità, e che lusinga e molce la parte animale, cioè il senso solo, senza concorso della ragione, come fa il canto di un cardello, o d'un usignolo». Credo per altro, che poco avrebbe avuto il nostro autore da rimutare, poiché il sig. Giuseppe Orlandini fiorentino, maestro di musica tanto celebrato, il qual da Bologna si era già trasferito a Verona, e in casa dell'autore principiava con sommo piacere a comporre, molto si rallegrò dell'arie, che trovò di tutto suo gusto; ed essendo esse capitate allora sotto l'occhio del nobil uomo Benedetto Marcello, riconosciuto in oggi comunemente per principe in così nobil facoltà, e che con l'opera de i Salmi di David eccellentemente a tal fine tradotti dal nobil uomo Girolamo Giustiniani, si è acquistata tanta gloria, disse, e scrisse non avere dopo il suo abbandono di così geniale esercizio patita maggior tentazione di ripigliarlo, che per far la musica a questo dramma. Vi sono veramente alcune canzonette che restano in scena, il che suole aborrirsi da questi cantanti, che credono esser necessario sentirsi sempre dietro il rumore del popolaccio; ma queste dal savio, e inventivo maestro si possono fare di poco impegno, o senza tornar da capo, e a maniera di cavate, avendo già ogni cantante le sue arie a luogo, e di spicco; e sono anche in siti, che si posson lasciare, non servendo, che a variare il recitativo. Questa usanza di voler le canzonette nel fine è una delle ragioni, che rendono ridicoli i drammi, facendosi spesso partire il personaggio con una similitudine, o con pensieri, e motivi lirici, e sentimenti che sono fuor di luogo. Nel principio dell'atto terzo intenzione era di far luogo a qualche instrumento raro con qualche cantata a piacere. Facendosi l'ultima aria dell'atto primo a tre, vien a finire ogn'atto con una specie di coro. Ma se il maestro volesse più tosto farla a solo, le due Ninfe hanno luogo di partire avanti l'aria. È vero, ch'essendosi altre arie a più, ch'hanno del comico, come il teatro ama, sarebbe anche bene farne una in grazia dell'arte musica, al che si conosce diretta l'intenzione del poeta nelle parole, asserendomi un bravo professore, che la ruota, ch'ora gira volge in quella canzonetta, ed ora sta fissa, presta un bell'adito alle parti contrarie, e allo scherzare dell'una in fuga, quando l'altra sta ferma, e al cambiarsi fra esse, che tanto diletta chi intende, e per la forza dell'armonia chi non intende ancora. Così nell'altre arie con la diversità de' metri, e de' pensieri, e con figure, e con certe parole a bello studio poste, ben si conosce aver avuto mira il poeta a varietà, e a novità nella musica di dar motivo.

Quanto al dramma stesso, o sua materia, essendo il soggetto delle pastorali come quello delle commedie, in tutto finto, non occorre parlarne altro. Dà però alla favola certo fondamento di verisimiglianza il sapersi come ne' mezzani secoli l'isole dell'Egeo furono grandemente infestate da corsari, e come alcune stabilmente da tal gente occupate, e possedute furono. Avendo poi Aristotile nella sua Poetica insegnato, che il maggior diletto nel teatro nasce dal riconoscimento, per lungo tempo non si vide quasi tragedia, né commedia, che scoprimenti di persone non contenesse. Ma essendo poi per tanta frequenza venute queste cose a noia, si tralasciò affatto di usarle più, massime ne' drammi musicali, ne' quali rarissime volte si è tenuta questa strada. Nel presente adunque lo sciogliere, che si fa per via di riconoscimento, viene dopo sì lungo disuso ad aver grazia di novità. L'ultima apparenza, o comparsa, e introduzion di deità, aggiunta ultimamente, credo era diretta a far conoscere con nobilissima scena, e di nuovo artifizio la forza del teatro; e si è dal poeta trovato modo di congiungerla al dramma istesso senza separarla a modo di farsa; la quale staccatura suol riuscire per più ragioni disgustosa: né da questo attaccamento nasce qui alcuna opposizione, perché il dramma ha già avuto l'esito suo, e non sendosi qui nel caso del precetto Oraziano: nec deus interfit nisi dignus vindice nodus.

Giulio Cesare Becelli

Atto primo
Scena prima

Boschereccia montuosa con veduta da un lato del palazzo d'Oralto.
Oralto e Morasto.

MORASTO

Qual mai, signor, degno compenso, e quali

a si gran merto eguali

grazie render poss'io di tanto dono?

Il mio destin tu cangi in un baleno,

e di schiavo qual fui gran tempo, e sono,

tuo ministro mi rendi, e a me t'affidi.

Che debb'io dir? Questa per te disciolta

non imbelle mia destra a tua difesa

s'armerà sempre, e prode

di tua vita sarà fedel custode.

ORALTO

Ben Morasto tu 'l sai; perfin d'allora

ch'io di te feci nella Tracia acquisto,

con occhio amico io ti mirai d'ognora.

Or uopo avendo di fedel compagno,

che regga in parte, e vari uffizi adempia,

te solo io scelsi: in avvenir disciolto,

e di custodia immune, i' vo' che solo

il benefizio mio sia tua catena.

Ma quando avvenga di por l'armi in opra,

fa' che uguale alla fé valor si scopra.

MORASTO

Non fia leggera impresa

il secondarti nell'ardir; per esso

in quest'isola hai regno, e sol con esso

tutto l'Egeo poni in terror: di rado

tornano i legni tuoi senza gran prede,

e ad un trionfo ognor l'altro succede.

ORALTO

Ma quanto ha mai, che 'l più gradito acquisto

non feci dell'altr'ier! col padre loro

due giovinette, e vaghe ninfe.

MORASTO

E dove

potesti far sì rara preda?

ORALTO

A Sciro.

MORASTO

A Sciro?

ORALTO

Or le vedrai, ch'esse, e alcun altro,

della maggior sorella

secondando il desio,

dal guardato recinto uscir permisi,

e gir vagando tra lo scoglio, e 'l rio.

Ma sai tu, che colei

col volto suo fa sul mio cor vendetta?

Ora all'armi t'appresta; e a non tradire

il tuo sembiante, e la mia speme: è nostro

quanto acquistar si può con forza, e ardire.

Chi dal cielo, o dalla sorte

fatto grande non si trova,

faccia sé col suo valor.

Tutto il mondo è del più forte:

alma vile a che mai giova?

Povertà vien da timor.

Scena seconda

Morasto.

O mia diletta Sciro, o sospirata

mia dolce patria, così dunque ancora

d'avari predator gioco pur sei!

Ma a ricercar costoro

come ancor non m'affretto? e a chieder loro

de' genitori miei,

e della cara mia ninfa novelle?

Dapoiché gli è pur ver, che tanti affanni

non seppero già mai sveller dal core

un amor, che mi strinse in sì verd'anni;

e che due gran portenti

di fermezza immutabile vid'io

nel mio crudo destin, nell'amor mio.

Dolce fiamma del mio petto,

ben cangiarmi nome, e stato

poté il fato,

ma non mai cangiarmi il cor.

A vagar fu il piè costretto,

ma il pensiero in sé ristretto

e in te fisso stette ognor.

Scena terza

Elpina e Osmino.

ELPINA

Ciò ch'io ti dico è vero;

nelle patrie mie selve un sì leggiadro

pastor come tu sei, non rimirai.

OSMINO

Ciò ch'io ti dico il giuro;

ne' miei sì lunghi in tante parte errori

ninfa così gentil non vidi mai.

ELPINA

Ma tu forse mi beffi.

OSMINO

E che mai pensi?

Altro pregio io non vanto,

che lingua ognor verace, e cor sincero;

ciò ch'io ti dico è vero.

ELPINA

Credimi pur, che quando

del tuo carcere uscito

a discior me corresti,

sentii rapirmi il core.

Crudo liberatore

tu mi legasti allor, non mi sciogliesti.

OSMINO

Questi soavi detti

empion di tal dolcezza il petto mio,

che già tutti i miei guai pongo in oblio.

ELPINA

Ed io per te fin posi al pianto amaro,

ch'ognor m'inondò il sen, da che rapinne

questo crudo corsaro.

OSMINO

(D'alleggiar mio tormento

così scherzando io tento;

ma la gentil sorella

non si può amar da scherzo,

tanto è leggiadra, e bella.)

ELPINA

Dimmi pastore,

OSMINO

ninfa, mi spiega,

ELPINA

s'io ti do il core,

OSMINO

se amor mi lega,

ELPINA E OSMINO

e quale avrò del mio penar mercé?

ELPINA

Altro io non chiedo,

OSMINO

non altro io bramo,

ELPINA

se l'alma cedo,

OSMINO

se servo, ed amo,

ELPINA E OSMINO

che trovar nel tuo seno amore e fé.

Scena quarta

Licori e Narete.

LICORI

Selve annose, erme foreste,

dite voi se mai vedeste

alma afflitta al par di me.

O ricetto d'infelici,

scoglio infausto, aspre pendici!

viver qui vita non è.

LICORI

Questo dunque è 'l gioir, che di mia etade

m'apprestava il destin nel più bel fiore?

NARETE

Figlia in preda al dolore

non ti lasciar cotanto;

che giova ohimè sempre disfarsi in pianto?

Or di', ti diè più noia il fiero Oralto?

LICORI

No 'l vidi più, ma 'l suo ferino ingegno

fa' che sempre io paventi; io temo, o padre,

temo più del suo amor, che del suo sdegno.

NARETE

Tu resisti, ma pur ti sforza

non irritarlo.

Furor pazzo più si rinforza

col provocarlo.

LICORI

Di quest'empio ladron...

NARETE

Deh taci figlia,

ch'un di costor s'appressa.

Scena quinta

Morasto e detti.

MORASTO

Eccogli al fine. O ciel! traveggo? O dèi!

Non è questi Narete?

Non vegg'io qui la mia Licori? è dessa.

NARETE

Che ha costui, che te sì attento mira?

MORASTO

Ah certo è dessa; ah che se l'occhio errasse

errar non puote il cor: mi scopro, o taccio?

NARETE

Pur segue, andiam, Licori, usciam d'impaccio.

MORASTO

Dunque la ninfa mia,

ch'io di più riveder speme non ebbi,

quella, il cui dolce nome in questi faggi

ho tante volte inciso, è qui presente?

Se ben cresciuta sì di membra, e d'anni,

i lineamenti suoi pur raffiguro.

Me in quest'abito barbaro, e con questo

bosco sul labro, trasformato tanto

da estranio clima, e da disagi, e guai,

non fia ch'alcun ravvisar possa mai:

ma o ciel! trovarla in così duro stato

dirassi dono, o crudeltà del fato?

Scena sesta

Elpina e detto.

ELPINA

Deh, come volentier ciò che di noi

esser debba, a costui chieder vorrei!

MORASTO

Giovinetta gentil, di che paventi?

Non isdegnar ch'io teco

favelli alquanto.

ELPINA

Il padre mio m'impose

che da soldati io fugga.

MORASTO

Di me non dubitar, ché sempre amico

a que' di Sciro io fui, da che approdando

molt'anni sono a quella spiaggia, io vidi

amore, e cortesia regnarvi: allora

i' vi conobbi Alceo, conobbi Silvia;

dimmi, son eglin vivi?

ELPINA

Vivi, ma solo al pianto, ed al dolore.

MORASTO

Ahi che si spezza il core.

ELPINA

Poich'ebber già due figli, or d'ambo privi

hanno in odio la vita.

MORASTO

E come d'ambo?

ELPINA

Osmin, ch'era il maggiore,

vago fanciullo, e per comun volere

a la mia suora destinato, a Lemno,

dov'eran iti pe' solenni giochi,

da' soldati di Tracia lor fu tolto.

MORASTO

O fiera, a me pur troppo nota istoria.

ELPINA

L'altro bambino ancor, segnando appena

d'incerta orma l'arena,

portato via dai lupi

si tien che fosse, poiché incustodito

non si trovò di lui se non fra 'l sangue

una lacera spoglia,

dove la selva si congiunge al lito.

MORASTO

O prosapia infelice! io più non posso

il pianto trattener; forz'è ch'io parta.

Scena settima

Elpina.

Egli se n' va senza pur dirmi addio.

Ma dov'è il pastor mio?

Esser lieta non so lungi da lui,

né ragionar vorrei mai con altrui.

Aure lievi, che spirate,

il mio ben deh ricercate,

e poi ditemi dov'è.

Ravvisarlo è agevol cosa,

ha la guancia come rosa,

biondo ha 'l crin, leggiadro il piè.

Scena ottava

Osmino e Licori.

OSMINO

Troppo disconverrebbe

a volto sì gentil sì austero core.

S'amata esser non vuoi,

nascondi gli occhi tuoi:

e se a fallo, ed a colpa

vien per te amor con nuova legge ascritto,

te, che lo desti, e 'l tuo sembiante incolpa,

e non punire altrui del tuo delitto.

LICORI

Tu non m'intendi ancor? fin da' prim'anni

amore in odio ho preso: al fier destino

piacque così; t'accheta,

e d'altro parla, o lungi porta il piede.

OSMINO

Ma io non son sì ardito,

che amor ti chiegga; un ragionar cortese,

un conversar gentile

indifferenza non offende.

Scena nona

Elpina e detti.

ELPINA

Or ecco

ch'egli è pur qui; ma che discorre?

LICORI

Or come

in sì misero stato

di vaneggiare hai cor? se vanti senno,

pensa di libertà, pensa di scampo.

ELPINA

Mio pastorel gentile,

dimmi, di che favelli con Licori?

OSMINO

O bella ninfa, lasciami, ti prego,

ch'altra cura or mi stringe. E credi forse,

che la comun salvezza

poco a cuore mi sia? sappi ch'io molta

col ministro d'Oralto

vo stringendo amistà; sappi che a forza

egli serve al corsaro: io di tentarlo

non lascerò.

LICORI

O questa sì d'uom saggio

opra sarà.

ELPINA

M'ascolta, io non vorrei

che tu parlassi con Licori; io sento

certo affanno nel sen che mi contrista.

Non so che sia, ma parmi

ch'una gelida mano

mi stringa il cor; meco te n' vieni altrove.

OSMINO

Vanne ch'or or ti seguirò: ma dimmi,

quand'altri a sé non manca,

l'accostarsi che giova? uom franco, e lieto

in gran parte delude il suo destino,

e pronto è sempre ad afferrar ventura.

Lascia però, che miglior sorte io speri,

già che sol per virtù de' tuoi begli occhi

mi tornarono in sen dolci pensieri.

ELPINA

Così mi bada? è un tristo, e un traditore,

ora il conosco: il lascio, e me ne vado,

e quand'ei di parlarmi avrà desire,

farò vendetta, e no 'l vorrò più udire.

(parte)

LICORI

A sì vani pensier dà bando omai.

OSMINO

Non siam, non siam, Licori,

mi credi, àrbitri noi de' nostri cuori.

LICORI

Alma oppressa da sorte crudele

pensa invan mitigar il dolore

con amore, ch'è un altro dolor.

Deh raccogli al pensiero le vele,

e se folle non sei, ti dia pena

la catena del piè non del cor.

Scena decima

Oralto e Morasto.

ORALTO

Odi, Morasto, a colei vanne, e dille

che alla clemenza mia

troppo mal corrisponde.

Dille ch'assai m'offende

quel suo da me fuggir; che muti stile,

né faccia ch'in mio danno usi il suo piè

la libertà, ch'egli pur ha da me.

Dille che pensi, ch'io soffrir non soglio,

e che sempre alla fine

con chi può ciò che vuol, vano è l'orgoglio.

MORASTO

Ubbidirò, signor, ma intanto scusa

di rozza pastorella aspro costume,

e stupor non ti dia,

ch'usa alle selve ognor selvaggia sia.

ORALTO

Se fera è fatta, io la terrò qual fera.

MORASTO

Per mansuefarla usar si vuol dolcezza.

ORALTO

Ma se questa non può, potrà la forza.

MORASTO

Crudeltà diverrebbe allor l'amore.

ORALTO

Crudeltà che di poi le sarà cara.

MORASTO

La trarrebbero a morte ira, e dolore,

onde quel ben, di cui goder vorresti,

tu stesso a te torresti.

ORALTO

Or non richiesto tuo consiglio cessi,

ch'io te a servir, non a garrire elessi.

Cor ritroso, che non consente,

ben sovente

è capriccio, non onestà.

Niega all'uno poi dona all'altro,

che più scaltro

senza chiedere ottener sa.

Scena undicesima

Morasto.

In cor villano amore

non amor, è furore.

Ma lode al ciel, che dopo tal comando,

senza dare ad Oralto alcun sospetto,

io ragionar potrò con la mia ninfa,

e scoprir se più in lei vive l'affetto.

Già no 'l debbo sperar; ben so che al vento

se n' van gli affetti de' prim'anni acerbi;

troppo di rado avvien, che adulta donna

d'un fanciullesco amor memoria serbi.

Dimmi Amore:

in quel core

vive il mio nome ancor? ahi troppo spero.

Delle dure

mie sventure

fora troppa mercede un suo pensiero.

Scena dodicesima

Narete, Licori ed Elpina.

NARETE

Vieni, gran meraviglia

debbo narrarti, o figlia:

nel folto di quel bosco alcune piante

ho vedute pur or di note impresse,

ed ho veduto in esse

di Licori, e d'Osmino

scolti, ed intrecciati in mille guise i nomi.

LICORI

O che mi narri tu!

ELPINA

Com'esser puote?

LICORI

Qual mai ferro gl'incise?

ELPINA

Qual mano segnò mai sì fatte note?

NARETE

E di più Sciro, Sciro in cento tronchi

agli occhi si presenta.

ELPINA

Alcun altro infelice

forse da nostre spiagge

in schiavitù fu tratto a questi lidi?

LICORI

Forse l'istesso Osmino,

dai traci involator condotto intorno,

fece anche qui soggiorno?

NARETE

O dell'eccelso, annoso, intatto bosco

driadi pietose, amabil geni amici,

adempiere a voi tocca i fausti auspici.

LICORI

Amor, che forse co' be' dardi tuoi

quelle note segnasti,

deh se i nomi accoppiasti,

le salme accoppia ancor tu che lo puoi.

NARETE

Itene, o figlie, ed a Giunon regina,

la qual di noi fu tutelar mai sempre,

perch'a nostri desiri omai si pieghi,

fate l'are avvampar, volare i prieghi.

S'egli è ver che la sua rota

giri, e volga la fortuna,

fissa ancor ne' nostri danni

rimaner più non potrà.

Tempo è ben che si riscuota

quel destin, che ad una ad una

le sventure per tant'anni

contra noi vibrando va.

Ballo di Pastori, e Ninfe, che scendono dalla rupe.

Atto secondo
Scena prima

Porto di mare.
Morasto e Licori.

MORASTO

Leggiadra ninfa, Oralto il mio signore,

che tu con tua beltà servo ti festi,

forte si duol di te; perché se seco

ei gode ragionar, tu dispettosa

il fuggi sì? ben se' schiva, e ritrosa.

LICORI

Tal per natura io sono, e se non fossi,

tal qui farmi vorrei.

MORASTO

Ma tu non pensi

che in sua mano ora sei? ch'egli qui regna?

LICORI

Sopra i voler non si dà regno: al primo

cenno di ferità, ch'io scorga in lui,

in mar mi getto, e sua

più non son, né d'altrui.

MORASTO

O generoso cor! o mia speranza!

Ma dimmi; s'altri di men fiero aspetto

premio dell'amor suo

chiedesse l'amor tuo?

LICORI

Perderia il tempo, e l'opra.

Prima faran gli augei nell'onde il nido,

e prima i pesci lo faran ne' boschi,

che si vegga Licori

vaneggiar fra gli amori.

MORASTO

Perché si fiera voglia? amasti mai?

LICORI

Nella tenera etade amor provai,

ma il caro amato oggetto

appena mi mostrar gl'invidi dèi,

e pria di possederlo io lo perdei.

MORASTO

(O me felice a pieno!

Che più bramar poss'io?

Ma il gran giubilo mio

forza per ora m'è chiuder nel seno.)

LICORI

Il mio core a chi la diede

serva fede,

né già mai si cangerà.

Sia costanza, o sia follia

questa mia,

e sia fede, o vanità.

Scena seconda

Osmino ed Elpina.

OSMINO

Sì di leggér t'adiri?

ELPINA

Vattene pur; de' brevi miei deliri

picciol vanto fia 'l tuo.

Tu cangiasti desio,

e l'ho cangiato anch'io.

OSMINO

Io pur t'amo qual pria, tu temi invano.

ELPINA

Forse ch'io no 'l conosco! e ch'io non leggo

nel tuo volto l'inganno!

OSMINO

Elpina, il giuro:

io son lo stesso ancora,

e gli affetti pur son quai prima furo.

ELPINA

Egli è vano il dirmi ognora

ch'il tuo core è ancor qual fu;

che se 'l labro il dice ancora,

gli occhi tuoi no 'l dicon più.

Ma una parola che t'uscì pur dianzi,

assai m'ha reso di saper bramosa,

chi tu sia e di qual gente.

OSMINO

O in questo, Elpina,

appagarti non posso,

perch'io stesso no 'l so.

ELPINA

Come no 'l sai?

Curi dunque sì poco i prieghi miei?

Tacendo anche il dicesti;

qualche barbaro sei.

OSMINO

Questo non già, mentre di Sciro io sono,

ch'ora intesi a te ancor desse la culla.

ELPINA

Tu della patria mia?

Ma come altro non sai?

OSMINO

Perché a' miei tolto sì fanciullo io fui,

che a penar pria che a vivere imparai.

ELPINA

Ma né pure il tuo nome,

e né pur quel del genitor t'è noto?

OSMINO

Il mio nome fu Osmino, e perché seppi

dai rapitor più volte

ch'allor piangendo io chiamai Silvia, ho sempre

sospetto avuto, che tal fosse della

mia genitrice il nome; e il padre tuo

me n' giva appunto a interrogar, se a Sciro

ninfa si trovi di tal nome, a cui

fosse un figlio rapito,

come rapito io fui.

ELPINA

Che sento? Osmin di Silvia! ora comprendo,

perché d'Osmino, e di Licori i nomi

veggansi qui sopra le scorze incisi.

Volo a recar sì gran novella.

(parte)

OSMINO

E dove,

dove se 'n va costei?

La vo' seguir, ché dietro l'orme sue

m'avverrà forse di trovar colei,

per cui perdo me stesso.

Dall'idea di quel volto

divellere il pensier mi sforzo invano,

talché miser m'avveggio,

che ben tosto io vaneggio.

Ah ch'io non posso lasciar d'amare

quel dolce foco, che 'l cor m'accende.

Son troppo belle, son troppo care

l'accese luci del mio bel sole,

e sento trarmi dov'egli vuole

son certa forza, che non s'intende.

Scena terza

Oralto e Narete.

NARETE

Deh s'egli è vero, Oralto,

ch'un valoroso cor sempre è gentile,

con fronte men severa

ascolta mia preghiera.

ORALTO

Di' ciò che vuoi.

NARETE

Tu hai nelle tue mani

me vecchio vil con due fanciulle imbelli.

Che vuoi tu far di così inutil preda?

Alle ardite tue navi

noi possiam dare incarco, e non soccorso.

Odi però ciò ch'io propongo. A Sciro

di lieti campi, e di fecondi armenti

mi fe' ricco fortuna; io se 'l consenti,

farò che d'ogni cosa oro si tragga,

e per nostro riscatto a te si dia

tutta quant'è l'ampia sostanza mia.

ORALTO

O quanto io mi compiaccio

in udir tua sciocchezza, insano vecchio!

Tu di mandre, e di greggi,

tu di paschi, e di piante

vo' che mi parli, ma la generosa

arte di correr mari

non fia che da un bifolco Oralto impari.

NARETE

Deh ti piega, deh consenti,

mira il pianto, odi i lamenti,

e ti muova oro, o pietà.

In sciagure sì infelici,

in disastri sì funesti

anche tu cader potresti.

Anche noi fummo felici,

ma sua sorte uomo non sa.

Scena quarta

Osmino e Licori.

LICORI

O fortunata schiavitù!

OSMINO

O felice

esilio mio!

LICORI

Parmi pur anco un sogno.

Come pria non m'avvidi,

quanto Alceo rassomiglia

il volto tuo negli occhi e nelle ciglia!

Ora intendo, perché dei nostri nomi

sien qui le piante impresse.

Ma dimmi il ver, servasti entro al tuo petto

la memoria, e l'affetto?

OSMINO

Per te son tutto amore.

LICORI

Or ti prepara

a tutti raccontarmi i casi tuoi,

fin da quando cadesti in man de' traci.

OSMINO

Che gran venture a un tratto! intera trovo

dei genitor contezza,

e di sì cara ninfa acquisto io faccio.

LICORI

Acquisti ciò ch'è tuo,

e ciò, che d'altri esser non volle mai.

Ma ohimè questa impensata

nostra immensa allegrezza

troppo vien compensata

da mortale amarezza.

Che sarà mai di tutti noi? ricusa

il corsaro crudel ogni partito.

OSMINO

Prima però ch'io porga

di nuovo a' lacci il piede, io certo penso,

penso far prova almen di ciò che possa

un'alma disperata.

LICORI

Empia fortuna,

tu mi rendesti adesso

l'amato mio pastore,

per farmi un'altra volta ancor sentire

di perderlo il dolore.

Amor mio, la cruda sorte

mi ti rende per mia morte,

e non già per sua pietà.

Se tu ancor sei fra catene,

or le tue con le mie pene

il mio cor pianger dovrà.

Scena quinta

Osmino.

Che nuova scena è questa? e che ricorda

costei d'antichi amori?

Che di traci favella? Io non comprendo,

e qualche error per certo

la sua mente confonde:

ma con ninfa sì bella

per non perder favor, con ogni cura

scaltro seconderò tanta ventura.

Scena sesta

Oralto e Morasto.

ORALTO

Io pensar ben potea, che inutil fosse

con così rozza gente esser cortese:

nati, e nutriti in selve

son poco men che belve.

Ma costei che indomabile si mostra,

che d'un sol guardo farmi lieto sdegna,

e che né pur vuoi farmi

onor con ingannarmi,

io farò che si penta,

e che il suo stato meglio intenda e senta.

MORASTO

Non durerà, signor, tanta alterezza:

sii certo, che in brev'ora

noi la vedrem cangiar pensieri, e voglie,

qual serpe, che ad april cangi sue spoglie.

ORALTO

Al lor destin condurle assai fia meglio,

e volgendo al sultan tosto le prore,

assicurarmi con sì nobil dono

questo piccolo regno: io già mi pento

del mio debile spirto: esca dal petto

ogni tenera cura,

né cangi Oralto in questo dì natura.

Ami la donna imbelle,

cui non dieder le stelle

alma capace d'altro che d'amor:

ma l'uom nato a gran cose

sdegni cure amorose,

ed abbia sol nel seno ira, e valor.

Scena settima

Morasto, poi Licori.

MORASTO

Mio cor non è più tempo

di starsi neghittosi; a tutto rischio

tentar si vuol di por Licori in salvo

da la costui fierezza, e dall'orgoglio.

Ma non vien ella da questa parte? Amore

m'assisti tu, ch'or palesarmi io voglio.

Ninfa, leggiadra ninfa, al fin non posso

tener più chiusa la mia fiamma in seno;

sappi dunque, ch'io t'amo, e che il mio ardore

sol con la vita mia può venir meno.

LICORI

Così dunque degg'io,

d'ogni parte infestata,

aver perpetua noia?

MORASTO

Anzi diletto, e gioia

recarti intendo.

LICORI

Ciò non altrimenti

tu conseguir potrai,

che lasciandomi in pace.

MORASTO

Ferma se' forse, non mi amar già mai?

LICORI

Ferma qual quercia antica in alto monte.

MORASTO

E pur tu m'amerai fra pochi istanti.

LICORI

Forse in animo hai tu d'usar gl'incanti?

MORASTO

Ma che dico amerai, se già tu m'ami!

LICORI

Or veggo che sei folle, e che deliri.

MORASTO

E m'ami allora più, che più t'adiri;

e se mi scacci, è sol perché mi brami.

LICORI

Colgami la saetta, s'io ti bramo.

Aborron l'agne il lupo, i lupi il veltro,

ma più 'l mio cor chi d'amor parla aborre.

MORASTO

Dolci lusinghe, e teneri sorrisi

non fur già mai si cari ad alma amante,

come a me son le tue ripulse, e sdegni:

questi certo mi fan che tu se' mia.

LICORI

Folle son io, che ancor ti bado.

MORASTO

O dèi,

non reggo più: deh, mia Licori amata,

tanto svanì...

Scena ottava

Osmino e detti.

OSMINO

Mio ben, godi tu forse

di star lungi da me? sai tu ch'errando,

e di te ricercando in van m'aggiro?

Tutti gli affanni miei, quand'io son teco

al mio destin perdóno,

e 'l mio stato obliando, altro non chieggio.

MORASTO

Che veggio ohimè, che veggio!

LICORI

Da te non parte questo cor già mai,

e sol per te dentro quest'aspro scoglio

mi può giungere al cor gioia, e contento.

MORASTO

Che sento ohimè, che sento!

LICORI

Ma por gran cura ci convien che Oralto

non ci colga mai qui: miseri noi,

s'egli del nostro amor punto s'avvede.

Lascia però ch'io parta, e tu ben sai,

che farà il cor cammin contrario al piede.

Scena nona

Morasto e Osmino.

MORASTO

Qual freddo gelo il sen m'opprime, e tutti

m'instupidisce i sensi!

Forse alcun genio infausto

m'offuscò sì, che a un tratto

e travedere, e trasentir m'ha fatto?

OSMINO

Amico, o qual dolcezza

porta nell'alme amore!

Questo possente affetto

scaccia ogn'altro pensiero; esser signore

ei vuol di tutto il core.

MORASTO

Già 'l so, già 'l so.

OSMINO

Ma tu non sai, qual piena

di contentezze or tutto il sen m'inondi.

MORASTO

M'allegro assai di tue venture, or vanne.

OSMINO

Forse tu mi deridi,

ma se provassi mai...

MORASTO

Il credo dissi, or qui mi lascia omai.

OSMINO

Qual serpe tortuosa

s'avvolge a tronco, e stringe,

così lega, e ricinge

amore i nostri cor.

Ma quanto è dolce cosa

esserne avvinto, e stretto!

Non sa che sia diletto

chi non intende amor.

Scena decima

Morasto.

Destin nemico sei tu sazio ancora?

Puoi tu per istraziarmi

vie trovar più crudeli?

Ma che dunque dicea

d'aver in odio amore, e quella fede

servare ancor, che da fanciulla diede?

Qual si prendon di me funesto gioco

ella, e fortuna? deh trovata mai

non l'avess'io! ch'anzi la perdo or solo,

se non più me la toglie il cielo, o 'l fato,

ma un rival fortunato.

Destino avaro!

Perché costei

lasso io perdei,

lungo, ed amaro

pianto versai.

Or senza fine

deggio dai lumi

versarlo a fiumi,

sol perché al fine

la ritrovai.

Scena undicesima

Narete.

Addio, mia bella Sciro, addio per sempre

verdi colli, erbe fresche, aure soavi.

Intesi al fin la nostra sorte: Oralto

fra due giorni in Egitto

tutti ci condurrà: più non avanza

lampo alcun di speranza.

O ben morta Leucippe,

benché morta in verd'anni,

prima di questi affanni.

Non tempesta, che gli alberi sfronda,

e percuote la messe, e flagella,

portò mai nel mio sen tal dolor;

né torrente, che vinca la sponda,

né saetta, che avvampi, o procella

al mio spirto diêr mai tal timor.

Scena dodicesima

Osmino, Licori, Elpina e Morasto.

OSMINO

Mira, o Morasto, queste afflitte ninfe,

che implorano da te soccorso, e aita;

non sa che sia pietà,

chi per esse non l'ha.

MORASTO

Mal può prestar soccorso

chi negli stessi mali involto giace.

LICORI

Sarai tu sì crudel Morasto?

MORASTO

Io dunque

sono il crudel?

OSMINO

Licori,

lascia che il preghiam noi;

ei ti rimira in modo,

che mi reca sospetto: fa' più tosto

che ci raddoppi Elpina i caldi prieghi,

ed il soave suo parlar c'impieghi.

ELPINA

(a Morasto)

Dunque t'occupa sì Licori il core,

che parlarmi anco sdegni,

e a lei ti volgi, che mi parli?

OSMINO

Elpina,

ancor dubitar puoi,

quanto cari mi sian gli accenti tuoi?

LICORI

Che favellare è questo!

Parmi con essa ancora

aver tu filo d'amorosi intrichi:

ché lei non lasci, e d'esortar Morasto

perché non t'affatichi?

MORASTO

A tal segno aborrito

da te son io, che condannar mi vuoi

a sentir dal tuo amante i sensi tuoi?

LICORI

(a Osmino)

Così sugli occhi miei?

OSMINO

(a Licori)

Ninfa, che mai fec'io?

MORASTO

Soffrir più non potrei.

ELPINA

(a Osmino)

Del tutto io già t'oblio.

LICORI, ELPINA, OSMINO E MORASTO

Chi non provò nel sen gran gelosia

non sa che sia

dolor.

MORASTO E LICORI

E pur vien di lègger

in cor ch'ama da ver.

OSMINO E ELPINA

E poi si fa talor

di sdegno, odio, furor.

Ballo di Marinari, ch'escono dalle navi.

Atto terzo
Scena prima

Deliziosa fiorita.
Narete, Licori ed Elpina.

ELPINA

Or vedi tu Licori,

s'anche qui ci son fiori?

LICORI

Elpina, in questo

empio scoglio, e funesto, anche un bel fiore

a me sol spira orrore.

I nostri verdi colli,

e 'l chiaro ruscelletto

che gorgogliando ne discende, ognora

mi stanno innanzi, e gli occhi lagrimosi

non chiudo al sonno mai, che non mi sembri

ne' vaghi prati, o ne' boschetti ombrosi

tra le mie bianche agnelle

tesser ghirlande, ed intrecciar fiscelle.

ELPINA

Ma dì, non vogliam noi sederci alquanto

su questo cespo erboso,

e i dolor nostri raddolcir col canto?

NARETE

Ripugna il nostro stato al bel desiro:

o figlia i nostri canti

a Sciro dénsi, deh serbiamgli a Sciro.

ELPINA

Cerva che al monte

lieta se n' corre,

cerca del fonte,

salta, e trascorre;

pago sì fa il suo cor libertà.

Ma piaggia fiorita,

ameno boschetto,

erbetta gradita,

canoro augelletto

rallegrar chi n'è privo non sa.

Scena seconda

Oralto e detti.

ORALTO

O là fra voi raccolti

che macchinate? ognun si parta, e sola

resti Licori.

ELPINA

Ahi che sarà!

NARETE

Signore,

sovvienti...

ORALTO

Ancor non parti?

Morto se' tu, s'un'altra volta il dico.

NARETE

Numi voi custodite un sen pudico.

Scena terza

Oralto e Licori.

ORALTO

Ninfa, ben dir poss'io,

che quando in questa terra io te condussi,

condussi il foco nell'albergo mio.

Ben talor meco mi adiro,

e discaccio il molle affetto

dal feroce cor severo:

ma che val? nell'alma mia

(non saprei dir per qual via)

torna tosto quel desiro;

e qualora io ci rifletto,

mal mio grado, e a mio dispetto

trovo te nel mio pensiero.

Però se a tua ventura

sai gir incontro, essa ti porge il crine;

ché dove gli altri in barbaro, e lontano

suolo saran condotti,

tu se a gradire, ed a riamar t'appresti,

meco qui rimarrai,

e mia donna sarai.

LICORI

Tolgalo il ciel; del padre mio infelice,

della sorella il fier destino anch'io

vo' più tosto seguir; mi tenti invano.

ORALTO

Tu certo indegna sei

d'aver gli affetti miei;

certo fa grand'errore

chi far ti cerca onore.

Tu non t'accorgi ancor d'esser mia schiava,

tu non pensi, che intero

ho sovra te l'impero,

e ch'è sol cortesia

il chieder ciò, ch'io posso

prendermi a voglia mia.

LICORI

Erri di molto; in serve membra io l'alma

sempre libera avrò; de le tue mani

può sempre uscir chi può del mondo uscire;

sappi, che già fermato ho nel mio core,

tosto ch'oltraggio meditar ti vegga,

di lanciarmi nel mare,

ove più cupo appare.

ORALTO

Tanto funesto, ed odioso oggetto

io dunque, o iniqua ti rassembro?

Scena quarta

Morasto e detto.

MORASTO

A tempo

per certo giunsi; in gran periglio i' veggo

Licori, ed opportuno

ben è l'avviso che al corsaro io reco.

E che fa a sì grand'uopo

quel suo pastor, ch'era pur ora seco?

ORALTO

Or vien, ch'io voglio trarti

in parte ove insegnarti...

MORASTO

Signore, in sottil legno

un messagger d'Alconte

pur ora è giunto.

ORALTO

In breve

tu vedrai...

MORASTO

Ricca, e non usata preda

offre la sorte, ma il messaggio anela

che si tronchi ogn'indugio.

ORALTO

Ov'è egli? seco

fa' ch'io parli, son pronto, eccomi teco.

Scena quinta

Licori, Elpina e Narete.

ELPINA

Pur ti lasciò colui

che più del lupo, e più dell'orso io temo.

In quella fratta ascosa

rimirando mi stetti, e ad ogni moto

mi palpitava il core.

LICORI

In così estremo,

padre, crudel periglio,

qual mai

mi dài,

qual prenderò consiglio?

NARETE

Fuggi, figlia, ed in quella occulta grotta,

ch'io ti mostrai colà dentro lo scoglio,

ad appiattarti corri:

va' seco Elpina; io rimaner qui voglio.

LICORI

Vado sì, dove a te piace,

ma non spero aver mai pace.

Corro sì, ma in ogni loco

di fortuna sarà gioco;

poiché meco ognor verrà

ira, amor, spavento, e duol.

Ov'io vada, o padre amato,

il mio fato

ritrovar ben mi saprà,

benché ascosa ai rai del sol.

Scena sesta

Morasto.

MORASTO

Dal tiranno di Patmo

chiamato, Oralto or or si parte: cieli,

questo s'io qui rimango, è pur quel punto,

che bramai sì. Ma se in mia man qui resta

Licori, e qual mai deggio

aspra pensar vendetta?

Ah ben lo so: dentro munita nave

lei co' suoi porre, e col suo vago, e a Sciro

mandarla tosto, e dove il vento gira

girmene io solo in strana opposta parte,

a viver sempre di dolore, e d'ira.

Vanne ingrata, e per vendetta

a me basti,

che a conoscer sii costretta,

di qual uomo ti privasti,

e che intenda a tuo sconforto,

quanto è il torto

ch'or mi fai.

Nel mio cor sì generoso,

nel mio petto sì amoroso

quanto errasti,

troppo tardi allor vedrai.

Scena settima

Osmino e Narete.

OSMINO

Questo clamor di marinari, questo

affrettar di soldati

con presagio funesto

mi feriscono il cor: l'ora fatale

s'appressa forse, che quai vili armenti

a vender tutti ci trarrà l'avaro

crudel corsaro?

NARETE

A questo egli ci serba.

OSMINO

All'antro, ov'è Licori

n'andrò, pria che sia presa

spirerò in sua difesa.

NARETE

Pan, ch'ognun venera

qual dio possente,

quell'alma tenera

soccorri tu.

OSMINO

Pietà ti stringa

d'un'innocente,

che di Siringa

leggiadra è più.

Scena ottava

Elpina e detti.

ELPINA

Padre, nel tenebroso orrido speco

Licori è già nascosta:

io da prima v'entrai

tremante, e paurosa,

e lagrimava io già, quando Licori

mi fe' scoppiare in riso;

perché seder credendo

sovra un macigno, in fresca onda, che quivi

chetamente zampilla,

tutta s'immerse: il velo suo rimira,

quant'è ancor molle, e come ancora stilla.

NARETE

Età felice, che in ogni tempo

a rallegrarsi le voglie ha pronte.

Scena nona

Oralto, Morasto e detti.

ORALTO

Morasto, io parto; il collegato Alconte

a lui ratto m'appella. Il mio ritorno

oltre al secondo, o forse al terzo giorno

non tarderà. Tu veglia intanto, e attento

l'isola custodisci: anzi tutt'altro

costor rimetti in ceppi.

Ma la ninfa dov'è, ch'io di condurmi

t'imposi?

MORASTO

In van signore

l'ho ricercata in ogni parte, in vano

ho trascorso più volte

il bosco, il colle, il piano.

ORALTO

Narete, o là, fa' tu che senza indugio

sia qui Licori; io meco

condur la voglio.

OSMINO E ELPINA

O dèi!

NARETE

Ahi signor, che chiedesti!

A' sommi dèi piacesse,

che tua far si potesse.

Pur or quando giungesti,

o acerbo caso! io distemprava in pianto

i miseri occhi miei.

O sventurata figlia!

Mira, ecco quanto mi riman di lei.

ORALTO

Questo è 'l suo velo.

NARETE

Insano impeto, e cieco

occupò l'infelice,

che d'improvviso ascesa

de l'alto scoglio in cima,

dove nereggia il più profondo flutto,

disperata lanciossi.

Accorremmo con strida,

ma ohimè che sol la spoglia sua trovossi

galleggiar sovra l'onde;

mira com'è stillante.

OSMINO

Al cupo fondo

nelle sue veste involta

la misera fu tratta.

ELPINA

O sfortunata!

ORALTO

O stolta!

OSMINO

Ad avvisarla io corro.

(parte)

ORALTO

Dunque adempié costei con pazze voglie

la sua fiera minaccia? in cor di donna

tanto furor s'accoglie?

Perdo ninfa, ch'era una dèa,

e 'l suo prezzo, ch'era un tesor.

Vendicarmi,

disfogarmi

turba rea

al ritorno ben saprò;

voi malnati allor farò

scopo, e segno al mio furor.

Scena decima

Morasto, Narete ed Elpina.

MORASTO

Dite Elpina, Narete,

l'amaro caso è vero?

O pur finto l'avete?

NARETE

Donde mai tanto ardore?

Qual interesse ha in ciò costui?

ELPINA

Scoprire

dobbiamogli il fatto o pur celare?

MORASTO

Ancora

sì crudeli mi siete?

Ancor mi sospendete?

Dite, ohimè, ditelo al fine,

deggio vivere o morir?

Sta mia vita in sul confine,

pronta è già l'alma ad uscir.

Scena undicesima

Licori, Osmino e detti.

LICORI

Grazie, o padre, agli dèi.

OSMINO

Già sale in nave

il fier corsaro, ei già discioglie, e muove.

MORASTO

Ahi misero! per me morta è Licori,

ma per altrui brillante è più che mai.

ELPINA

Ora l'armi e 'l comando

si restano a Morasto.

OSMINO

Ei nobil alma ha in seno,

e cor gentile.

ELPINA

Il porci in libertade

è in suo potere; pietà signor, pietade.

NARETE

Fuggi quest'aspro scoglio,

lascia il crudo ladrone. e vienne a Sciro.

Quivi di campi, e di fecondi armenti

dovizia io ti prometto, e se a tua patria

girne di poi vorrai,

ricco, e lieto v'andrai.

ELPINA

Non fu con tanta gioia accolto Alcide,

poiché di mostri, e belve

purgate avea le selve,

con quanta esser tu puoi

venendo a Sciro, e conducendo noi.

Cento donzelle

festose e belle

t'incontreranno

con fronde, e fiori.

Con suoni, e canti

lieti, e brillanti

a te verranno

cento pastori.

LICORI

Deh fa' che tu ti pieghi,

se alcuna cosa ponno,

o le lagrime, o i prieghi.

MORASTO

Tu ancor mi prieghi? tu? spietata ninfa?

Esser debb'io di tanto don cortese

a chi sì indegnamente

mi dileggiò, m'offese?

Dritto non fora in me l'andar pensoso

su la più fiera, e più crudel vendetta?

Ma non temer Licori,

avanti l'alba in libertà sarai,

e teco il tuo pastor, che tanto adori.

N'andrai contenta a Sciro sì; ma sappi,

sappi infedel, che chi ciò ti concede

non è Morasto, è Osmino:

quell'Osmino, o crudel, a cui la fede

per romperla tu desti;

quegli, ingrata, cui tanto amar fingesti

al dolce tempo dell'età primiera.

ELPINA

O numi qual portento!

LICORI

Padre che fia? che sento?

MORASTO

Or vanne pur; né ti dia forse noia

il timore d'avermi ognor presente,

qual perpetuo rimprovero: la bella,

e si da me già sospirata Sciro,

in tant'odio or mi cade,

ch'anzi che ad essa, io trar prometto il piede

all'iperboree estreme aspre contrade.

Fra inospite rupi

co' serpi, e co' lupi

a viver me n' vo.

Pur ch'io più non veggia

un'alma sì ingrata,

che infida, e spietata

tradisce, e dileggia,

contento io sarò.

LICORI

Ciel, tu m'assisti: al solo Osmino io sempre

nutrii fede, ed amore;

né per altro segu'io questo pastore,

se non perch'ei pur or creder mi feo,

esser Osmin d'Alceo.

MORASTO

Che intendo? o scellerato!

Dunque così mentire il nome ardisci?

Così inganni, e tradisci? io nel tuo sangue

farò...

NARETE

Ferma, e t'accheta;

pongasi tutto in chiaro, udiamlo prima.

OSMINO

Io tutti chiamo in testimonio i dèi,

che nulla finsi, e ch'il mio nome è Osmino

e che quanto allor dissi Elpina, a te,

tanto dissero a me

quegli stessi corsar, che appunto a Sciro

bambino mi rapiro.

NARETE

Dunque rapito a Sciro

tu fosti, e fur corsar che ti rapiro?

Ma quanto avrà che ciò segui?

OSMINO

Ben tosto

del quarto lustro il second'anno appressa.

NARETE

O provvidenza eterna,

ch'ogni cosa governa! Osmin d'Alceo,

parlare io posso appena,

Osmin d'Alceo, e di Silvia

è questi sì, ma non il tuo, Licori;

quei non fu da corsari, e non a Sciro,

fu tolto a Lemno, e dai traci, e fu tolto

forse tre anni innanzi.

MORASTO

E che fingi tu mai?

Non ebbe Alceo più d'un Osmino.

NARETE

È vero,

ma i genitori tuoi,

dopo aver te perduto,

a Tirsi in fasce ancor nome cangiaro,

ed Osmin il chiamaro.

ELPINA

Fia questi adunque il fanciullin smarrito,

di cui la veste in molto sangue intrisa

nel bosco si trovò vicina al lito.

OSMINO

Forse quel sangue era d'un fido veltro,

del quale udii, che a gran fatica ucciso

fu poi gettato in mar.

NARETE

Il tutto è chiaro;

ma non vedete voi

che l'un negli occhi, e nella fronte ha il padre,

l'altro nel labro tutta

ci ricorda la madre?

MORASTO

O sommi dèi,

per quali occulte vie

conducete i mortali!

LICORI

E a quanta gioia

serbaste i giorni miei!

Dalla gioia, e dall'amore

il mio seno è quasi oppresso.

Questo è Osmino: io sento il core

farmi fede ch'egli è desso.

MORASTO

Così da morte a vita

in un punto risorgo?

OSMINO

A me germano

dunque amico tu sei?

ELPINA

Licori, il cielo

ti ristorò dalle sventure tue;

un Osmino perdesti,

e ne ritrovi due.

MORASTO

Al mio furore

deh perdona cor mio;

tu vedi, ch'ei non era altro che amore.

LICORI

E per voler te solo, io te sprezzai,

talché odiar mi facea lo stesso amore;

e se pur altri amai,

infedel mi facea la sola fede.

NARETE

Certo più fida ninfa il sol non vede.

LICORI

Ma perché porti tu quel fiero nome?

MORASTO

Posto mi fu dai traci.

ELPINA

O quanta a Sciro

porterem gioia e meraviglia, e come

saranci tutti intorno!

NARETE

Al buon Alceo

parmi veder giù per le crespe guance

di sua letizia in segno

le lagrime cader senza ritegno.

LICORI

Ma che indugiar? Diansi ben tosto a' venti

inclementi le vele,

ché periglioso è più del flutto infido

questo lido crudele.

MORASTO

Sì, in questa notte istessa,

già che i numi alla fine il varco apriro,

questo scoglio si fugga

torni Sciro a Sciro.

(s'incamminano tutti per partire, e al parlar d'Elpina s'arrestano)

ELPINA

Ma non vegg'io nubi raccorsi e al cielo

parte velar della serena faccia?

LICORI

Pur troppo è ver, minaccia

tempesta e nembi d'improvviso velo.

OSMINO

Non però mai questo timor prevaglia

a quel d'Oralto che tornar potria.

MORASTO

Di questo a fronte leggér' cosa sia

e d'Euro e d'Aquilon l'aspra battaglia.

NARETE

No no, non tardiam già; sperar ci giova

ne l'alma dèa, che al cielo e all'aria impera;

e perché suo valor per noi si muova,

fervida a lui facciam volar preghiera.

Te invochiamo, o Giunone; a te nel tempio

arderan l'are, penderanno i voti;

tu frena i venti insani e fa' che scempio

non osin minacciare a' tuoi devoti.

Partono e la scena si muta in orrida e tenebrosa montagna con bocca chiusa di grandissima spelonca. Segue sinfonia, dopo la quale comparisce da una parte Giunone sopra nuvole con corteggio d'Aure, che così parla:

GIUNONE

Da gli egri mortali

per schermo de' mali

al cielo preghiera

non mandasi in van.

A' patrii lor nidi

n'andranno i miei fidi,

ché d'aria sì nera

indarno si teme,

e invano ora freme

lo strepito insan.

Però ad Eolo ne vengo

c'ha in questo mondo ampio e superbo albergo,

perché a mio senno io voglio

ch'oggi de' venti suoi freni l'orgoglio.

Qui precipita la gran porta della grotta ed apparisce la reggia d'Eolo, lavorata nelle viscere del monte con ricchi ornamenti di natura e d'arte.

Ei si vede nell'ultimo fondo con gran turba di Venti, altri d'orrido, altri di grazioso aspetto. Segue bizzarra sinfonia, e fra tanto egli viene avanzando col suo accompagnamento.

GIUNONE

Amico nume, che se ben sotterra

incavernato stai,

in mare, in aria, in terra

sommo poter pur hai,

talché in questi tre regni

dir si può che tu regni,

da l'eterea magione

a te se n' vien Giunone.

EOLO

O del supremo Giove

consorte eccelsa, o arbitra del mondo,

qual mai cagion ti muove

a scender dalle stelle in questo fondo?

Leggér per certo non sarà disio,

ché qui non ti vid'io per fin da quando

fiero venisti ad intimar comando

contro l'Iliaca gente a te rubella

di scatenar procella.

GIUNONE

Mente diversa or qua mi tragge; stuolo

sacro al mio nonne solo ed a me caro

di feroce corsaro i ceppi sciolse,

e in ver la patria volse ardita prora.

Tu puoi far che in brev'ora i desiati

porti afferri, se a' fiati procellosi

tanto d'uscir bramosi argin tu metti,

e i tieni avvinti e stretti.

EOLO

Pronto eseguisco, al popol mio feroce

legge sarà tua voce.

Spirti indomabili,

qual nuovo fremito?

Vano è l'orgoglio,

in queste orribili

due grotte rapidi

inabissatevi.

Sbucar non sperisi

per lungo spazio.

I ceppi ferrei

che giova mordere?

Sotto 'l mio imperio

qui convien fremere,

spirti indomabili.

Fa entrare i cattivi e tempestosi Venti in due gran caverne, che sono da l'una parte e da l'altra; poi ripiglia.

E perché lieti a la bramata riva

giungan tuoi fidi, o diva,

eccoti in libertà leggiadri e snelli

i miti venticelli.

Qui si fanno avanti gli altri Venti che, salendo su le nuvole, ciascun di essi dà mano a una de l'Aure e, condottele in terra, formano insieme un ballo.

GIUNONE

Molto ti debbo, o re;

ma nuova grazia io bramo ancor da te.

Volgendo gli anni, nell'Italia bella

sappi che fian di questi miei pastori

su nobil scena armonica e novella

favoleggiati un giorno i casti amori.

Per udir sì bei casi

in via porransi a stuolo

l'alme d'amor devote.

Non osino in que' di spiegare il volo

maligno Austro piovoso,

o Borea impetuoso;

ma Zeffiro d'amore anch'ei ripieno

l'aria renda soave e 'l ciel sereno.

EOLO

Non temer che splenderà

sovra l'uso in cielo il sol,

e per tutto riderà

d'erbe e fiori adorno il suol.

(si ripete dal coro)

GIUNONE

Ma giovar ciò non potrà

al meschin servo d'Amor,

perch'ei seco porterà

le procelle dentro il cor.

(si ripete dal coro)

Segue altro ballo, ora a tenor del suono, ora del canto di queste ariette.

Fine del libretto.

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