www.librettidopera.it

La finta pazza

LA FINTA PAZZA

Dramma.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

Da qui accedi alla versione estesa del libretto.
Da qui accedi alla versione in PDF del libretto.

Codice QR per arrivare a questa pagina:
QR code

Libretto di Giulio STROZZI.
Musica di Francesco SACRATI.

Prima esecuzione: 14 febbraio 1641, Venezia.


Personaggi:

Prologo: IL CONSIGLIO IMPROVVISO

soprano

ULISSE re d'Itaca, ambasciatore della Grecia

contralto

DIOMEDE re d'Etolia, ambasciatore della Grecia

tenore

CAPITANO della guardia

basso

GIUNONE

soprano

MINERVA

soprano

TETIDE madre d'Achille

tenore

ACHILLE

contralto

DEIDAMIA figliola di Licomede, finta pazza

soprano

La VITTORIA

soprano

GIOVE

basso

VENERE

soprano

AMORE

altro

LICOMEDE re di Sciro

basso

EUNUCO musico di corte

tenore

VULCANO

basso

NUTRICE di Deidamia con Pirro

tenore

CARONTE

altro

AURORA

altro

FLORA

altro


Coro d'Isolani. Coro degli Dèi. Coro di Damigelle di corte. Coro di Pazzerelli buffoni, parte muta. Caronte. Coro di Menti celesti.

La scena è nell'isoletta di Sciro nell'arcipelago.

All'illustrissimo...

All'illustrissimo

sig. e padron mio colendissimo

il sig. Gio. Paolo Vidmano

conte d'Ortemburgo,

barone di Paterniano, e di Summerech, nella Carinthia Superiore

Illustrissimo signor compare,

dono a v. s. illustrissima la mia Finta Pazza, ma dubito, che questa volta sarò io il pazzo vero, col sottopormi sì vogliosamente al rigoroso esame de' teatri, e della stampa, non considerando, che oggidì bene spesso merita più d'esser legato l'autore, ch'il libro.

Non sarò almeno tenuto stolto in eleggere un curatore alle mie leggerezze, ed in ricorrere alla protezione di v. s. illustrissima, che è il vero ritratto della prudenza civile, e 'l modesto primogenito della buona fortuna; nato per accrescere i progressi riguardevoli della sua felicissima casa, ed uso, con la molta sua autorità, a sollevar gli amici a gradi, e comodi non volgari; onde ella, compatendo le debolezze di quest'opera, non mi sarà scarsa della sua grazia, e le bacio riverente le mani.

In Venezia li 14 gennaio 1641

Di v. s. illustrissima

devotiss. ed obbligatiss. servitore

Giulio Strozzi

Al lettore

Questa è l'ottava fatica rappresentativa, che mi trovo aver fatta; cinque delle quali hanno di già più volte passeggiate le scene, e 'n questa m'è riuscito assai felicemente lo sciorre più d'un nodo di lei senza magia, e senza ricorrere a gli aiuti sopranaturali, e divini.

Non ti ridere dell'umiltà del nome, né della qualità della materia, imperciocché ho voluto tenermi basso con l'iscrizione, e stretto con l'invito, per corrispondere senza altisonanza di titoli nel rimanente molto meglio alla poca aspettazione dell'opera; e ricordati, che molti uomini grandi con simulata pazzia hanno effettuato i lor prudentissimi consigli in gran beneficio della patria. Questo sia detto per iscusa, poscia che il saper far bene da pazzo, tu sai, o lettore, che non è impresa da tutti gl'ingegni, e molto maggiormente il voler con eleganza spiegare i capricci degli stolti non è maneggio da tutte le penne; per questo mi condonerai alcuna cosa, che non fosse interamente di tuo soddisfacimento.

Supplice alla povertà de' miei concetti il tesoro della musica del sig. Francesco Sacrati parmigiano, il quale meravigliosamente ha saputo con le sue armonie adornar i miei versi, e con la stessa meraviglia ha potuto ancor metter insieme un nobilissimo coro di tanti esquisitissimi cigni d'Italia. E fin dal Tebro nel maggior rigor d'un orrida stagione ha condotta su l'Adria una soavissima sirena, che dolcemente rapisce gli animi, ed alletta gli occhi, e l'orecchie degli ascoltatori. Dalla diligenza del sig. Sacrati deve riconoscere la città di Venezia il favore della virtuosissima signora Anna Renzi.

Sonetti del sig. Francesco Melosi

Alla signora Anna Renzi celebre cantatrice di Roma, rappresentante in Venezia La finta pazza.

Ben del Tebro a ragion lasci l'arene,

per bear d'Adria le famose sponde,

che sol del mar, e non de' fiumi a l'onde

è dato in sorte il ricettar sirene.

Ecco il tuo piè fa insuperbir le scene,

nettare a' detti tuoi l'aria diffonde,

e tolte al crin le trasformate fronde

a tributarti il biondo arcier se n' viene.

Tacciansi, e cetre argive, e plettri achei,

e si copran d'oblio gli alti stupori,

ch'oprar co' i mostri i favolosi orfei:

che son del cantar tuo glorie maggiori,

ove han libero scettro i semidèi,

farsi tiranno, e depredare i cori.

Fonte ha colà nel più cocente regno,

cui se appressa mortal all'arida bocca

dal fugace liquor non prima è tocca,

che di pazzo furor s'empie l'ingegno.

Forse quest'onde a miserabil segno

trasser costei, ch'in folle oblio trabocca,

e d'accenti canori i dardi scocca,

omicida, e ne' vezzi, e nello sdegno?

Langue ogni saggio a questa pazza avante,

e desia per aver suon più giocondo

l'armonia delle sfere esser baccante.

Stolto, chi vago di saper profondo

sui fogli a impallidir stassi anelante,

s'oggi una pazza idolatrar fa il mondo.

L'inventore de' gl'apparati a' lettori (Parigi, 1645)

Sarebbe stata temerità la mia se in una città così gloriosa, ove l'architettura tiene il suo trono per l'abbondanza de' sublimi ingegni io avessi voluto mostrare con le presenti feste teatrali la mia imbecillità, e pretendere di render soddisfatti tanti virtuosi, senza l'ordine di chi ha potuto comandarmi. Ti prego qualunque tu sia a credere, che fuor di tali comandi meno avrei osato pensarvi, come in virtù de' medesimi ringrazio la mia sorte, che m'ha destinato tant'onore, conosco le mie azioni di poco merito se la tua cortesia non l'amplifica, la brevità del tempo ha estenuata la mia operazione; ma non già la fatica per desiderio di ben servire: questi piuttosto abbozzati, che reali disegni, siccome come sono parti notturni così sariano da me stati donati alle tenebre se non sapessi, che il lume del tuo cortesissimo affetto, è bastante a trar anco l'ombre da' sepolcri. L'intagliatore è bravissimo, ma in pochi giorni poco si può, oltre che stanzando egli assai lontano dal teatro, e quivi essendo necessaria la mia continua assistenza non ho potuto presenzialmente somministrargli molte particolarità, che ne' miei abbozzi erano più proprie: altre volte ho fatto vedere al mondo qualche mia fatica con soddisfazione dell'universale, e spererei se venisse l'occasione, di poterlo confermare con gl'effetti, quand'avessi, con maggior forza più tempo, e sito più proporzionato, che forse conosceresti d'avantaggio quanto io sia ambizioso di compiacerti. Vivi felice.

Prologo
Scena unica

Il consiglio improvviso.

Io non ho benda, o face;

non ho faretra, o dardi;

né segno altro volgar, che mi palesi;

mi chiamano il Consiglio,

ma non quel grave figlio

di molti e molti padri a cui son l'ore

dotte nutrici, e precettore il tempo

io nacqui in fretta, in fretta

di genitor mendico.

Su l'arene d'Olimpo in mezzo ai giochi

il bisogno è mio padre,

fecondo genitor di molti figli,

bisognevoli tutti: e io son ricco

d'oro non già, ma di partiti industri.

Voi, belle donne illustri,

ben lo sapete, a cui

ne' mendicati amori

dispenso i miei tesori,

e d'aver godo un degno

trono nel vostro ingegno:

che tra le sfere lucide, e beate

m'aggiro de' vostr'occhi, e invito ognora

voi tutte al godimento. A me, che sono

il suo figlio minor, diè la prudenza,

questo serpe volante,

ma l'altro mio fratello

tardo, lungo, increscioso,

tutto duol, tutto gel, tutto dubbioso,

ebbe da lei (come di me più dotto)

di piombo i piedi, e di lumaca il trotto.

Ov'io senza dimora

attivo, e pettoruto

venni, vidi, operai,

egli costuma ognora,

satrapo irrisoluto,

di pensar molto, e non conchiuder mai.

Mercé de' miei ricordi, oggi vedrete

in donna consigliata

la pazzia simulata.

Su, su, volgete gli occhi, e un bel furore

sia vostro insegnamento:

per saper agli amanti

spiegar varie dal core

e le voci, e i sembianti,

rivòlo intanto alla più bella in seno:

e chi sarà di voi,

che non mi voglia in grembo! Or ecco tutte

contender fra di lor della più bella:

io, che le gare femminili intendo,

nuovo consiglio prendo;

e vado a insegnar guardi furtivi

a donna poco esperta,

che non sa raggirar l'occhio spedito

all'amante, e al marito.

Variante del prologo (1645)

Prologo della rappresentazione di Parigi.

AURORA

Zeffiretti innamorati

che volate mattutini

precorrendo i raggi aurati;

aure molli, aure odorate.

Sospirate

con aneliti divini;

ch'oggi prescrive il fato

al ritrovo d'Achille

mille trionfi, e mille.

Ancellette luminose

che diurne trascorrete

le febee rote focose

ore chiare, ore serene

per l'amene

vie del ciel lume spargete

ch'oggi prescrive il fato,

al ritrovo d'Achille,

mille trionfi e mille.

Preceda il carro mio

d'un giorno luminoso il sol più chiaro,

seminate di fiori

sien queste piagge amene,

e con note serene.

Veggan l'età future

sul zaffiro del ciel l'alte venture.

FLORA

Sciolta da un molle sonno erami desta

sul consueto stile

a coronar de' miei tributi il die

ed or, ch'il fato appresta

materia d'onorare l'opere mie

lucidissima scorta al sol, ch'adoro

de' colorati odori

spargerò a voglia tua corone, e fiori;

ma poi, che deve Achille

sparger d'intorno il Simoenta, e 'l Xanto

dalle sparse faville

vedrem ver l'occidente

con fortuna migliore

sorger città potente

di quante n'ebbe mai l'Asia, maggiore

onde sia con tua pace;

altro serto altro monile,

che pe 'l monte di Paride gentile

non tesserà più Flora

sia con tua pace Aurora.

AURORA

Poich'in grembo al futuro

la tua mente penetra,

sento ch'al petto mio

ispira il biondo dio

gl'arcani più reconditi dell'Etra;

se la città famosa

sorger dée per la man del pellegrino

franco; onde in rimembranza

di Paride troiano il gran Parigi

si nomerà nel secolo futuro,

vuole il fato divino,

ch'un principe feroce, e generoso

de' guerrieri Franconi

esca re formidabile, e famoso

e con serie di figli, e di nipoti

regni là fra le palme, e fra gl'allori,

alle cui felici ombre

crescano poi fra i mirti

l'amenità civili, e i lieti amori;

e perché il vel si sgombre

d'ogni occulto successo i sacri spirti

mostrino al mondo intorno

sotto quai forme nove

adorar dovrà il mondo il franco Giove.

FLORA

Felicissimo giorno

in cui non sol d'Achille i fatti egregi

ma di monarchi, e regi

svelarsi al mondo alti successi io veggio;

ma chi può con superni

gareggiar di stupori,

l'industrie de' miei fiori

son vili in paragone

de' tuoi fiori celesti a' bei splendori;

deh tu pria, che te n' passi

sul sentiero di luce al mondo ignoto

delle glorie future a me rivela

ciò, che ne' grandi abissi il fato cela.

AURORA

Vedrà dopo il girar di molti lustri

il mondo ammirator de' fatti egregi

il retaggio immortal de' franchi regi

render le guerre, indi le paci illustri.

De' popoli soggetti il fren leggero

reggerà poi con maestà clemente

dell'esperido re figlia innocente

Anna di quell'età vanto primiero.

Eroe del suol latin gloria superna

al consiglio sarà per fede avvinto,

che sovra i fogli d'un gran duce estinto

volgerà a volia sua la rota eterna.

Nell'infanzia del tenero Luigi

saran le glorie, e le vittorie adulte;

ma in più robusta età forz'è chi esulte

l'oriente in mirar la fiordiligi.

AURORA E FLORA

Cresca dunque il regio pegno

alla gloria immortale,

e fatale

della fede, e del regno.

Finito il prologo sparve velocemente la scena con diletto universale, ed ugual lode d'artificiosa, e di vaga: ma ne apparve un'altra, che superò (così confessato da tutti) di gran lunga la prima: questa esprimeva il porto della città di Sciro, che a mano destra stendeva le sue lunghe, e fortissime mura lungo la riva d'un fiume, che camminando sotto diversi ponti venia a correre alla destra, dove stavano fra due torri, come in una darsena forti quantità di navigli sulla sboccatura del mare: in faccia per diletto de' signori parigini l'inventore avea così al vivo imitato il ponte novo con l'isola di Nostra Dama, che a ciascheduno parea essere a diporto sulla riva della Senna verso il Lovere, onde perciò fu molto lodato ancorché da qualche critico potesse essere tassato come cosa impropria (a lui però nota) ma per la meraviglia, e singolarità della macchina può concedersi, che volesse trasportarlo in quest'isola per nobilitar le sua scene. Le navi erano fabbricate all'antica con somma diligenza, e gl'edifizii, e torrioni della città alzati di diverse architetture mostravano piuttosto una vera, che finta città: da una parte fra le navi ne uscì una non meno aggiustata dell'altre la quale venne ad abbassare il suo ponte sul lido: portava questa due Ambasciatori greci con moltitudine di Seguaci, che volendo metter piede a terra vennero impediti da un coro d'Isolani armati, che stavano alla guardia del porto, ma interrogati de' nomi, paesi, e affari loro, e ritrovateli amici li concessero lo sbarco, ed al re Licomede li condussero, la nave fu rimessa da' Marinai al suo posto conforme lo stile de' porti: questa gente consisteva in otto Isolani con loro Capo, otto Soldati con gl'Ambasciatori, ed Sei paggi onde in numero di ventiquattro superbamente vestiti con grandissima pompa entrarono nella città: questa scena fu recitata senza musica; ma sì bene che quasi fece scordare la soavità della preceduta armonia.

Protesi

ovvero azione prima.

Scena prima

Ulisse, Diomede e Coro d'Isolani.

ULISSE

Il porto è qui di Sciro,

ove, mercé d'un zeffiro soave

entra la nostra nave.

DIOMEDE

Qui, dopo un lungo giro

di ricercate invan cittadi, e ville,

ritroveremo alfine, o stanco Ulisse,

il contenduto Achille.

ULISSE

Solo spero, che queste

arie dolci, e tranquille

ci conduce Giunone,

ella, che vuol che sia

per ubbidir al fato,

questo Achille trovato.

DIOMEDE

O quanto volentieri

in Sciro oggi discendo,

non sol, perch'io qui speri

di ritrovar il sospirato Achille,

ma per quel regno rivedere, ov'io

vissi negli anni belli

discepolo di Marte, e più d'amore.

Qui mi ferì (mentre a servigi io vivo

di re nell'armi esperto)

della figlia di lui l'arcier di Cnido.

Il padre a guerreggiare,

la figliola ad amare

m'invitava ad un tempo.

ULISSE

Ben m'avveggio, ch'a questi

scogli, più dell'usato oggi festoso,

amoroso Diomede alfin giungesti.

DIOMEDE

O quanto qui godei, quando la bella

Deidamia adorai!

Iniqua sorte ria,

che da lei mi disgiunse,

lontano ognor mi punse.

Ma non è tempo di parlar d'amori:

che veder parmi fuori

un gran drappello d'isolani in armi.

ULISSE

Guardano i liti suoi:

benché picciola sia

la patria, esser però deve di lei

grande la gelosia.

CORO

Chi siete, o naviganti, olà, chi siete?

A che porto prendete?

Nome, patria, cagione

del viaggio scoprite:

che bramate? Ove gite?

ULISSE

Siam greci ambasciatori,

al vostro re mandati.

DIOMEDE

Ecco di pace, e d'amicizia in segno

portovi il ramo degno:

prendete, amici, il riverito ulivo:

acciò del vostro porto

non resti Ulisse, e Diomede or privo.

CORO

Scendete, o dio, scendete

gloriosi campioni ospiti grati:

il nostro re v'attende, e noi già tutti

pronti per vendicar di Grecia il torto

vogliam Paride morto.

ULISSE

Scorgeteci voi dunque

al buon re Licomede, a cui c'invia

l'irata Grecia tutta,

che vuol arso Ilion, Troia distrutta.

Scena seconda

Giunone, Minerva, e Tetide.

GIUNONE

Or, che son giunti al destinato affare

se benigno rendemmo

già loro il cielo, e 'l mare,

resta, Minerva, resta,

che d'uopo in terra avran de' tuoi favori

gli argivi esploratori.

MINERVA

Saran gli affari loro affari miei.

TETIDE

Femmine non sareste,

se d'internarvi negli affari altrui,

non foste oggi ancor vui, dive sì preste,

femmine non sareste.

O ben, le mie madonne, avete pochi

ne' superni vostri ozi,

domestici negozi?

Torna moglie gelosa

del tuo consorte al fianco,

che per trovar Achille,

tu non smarrisca Giove

vago di mogli nuove.

GIUNONE

Senti quanta ruina,

di sue glorie dolente,

muove questa fremente

linguacciuta marina.

TETIDE

A ragion mi querelo:

e sottraggo a ragione

da' perigli di morte

innocente garzone.

GIUNONE

Tetide, a te non tocca

negli ordini del fato

metter la bella bocca:

non può Troia cadere,

se non per man del tuo figliuolo armato.

MINERVA

Perché gl'invidi sì beata sorte?

Tu se' pur greca, e temi

di donar alla patria oggi colui,

che della patria a vendicar i torti

sceglie il ciel fra' più forti?

TETIDE

Non è voler del fato è furto vostro;

non me 'l chiede la patria;

me lo rapite voi.

MINERVA

E dove siete, o balsami sabei

che non correte a Tetide, che vuole

profumar la sua prole?

TETIDE

Tu, nata dal cervello

d'un Giove stranutante,

nella pietà materna

mi vorresti incostante.

GIUNONE

Voi, tra le salse spume

nate d'un crudo mar, algose ninfe,

così di pietà prive oggi volete

far le celesti dive?

TETIDE

E tiranna pietà, son grazie ladre

torre il figlio alla madre

non è la prima insidia,

ch'a nipoti di Giove

della moglie di lui tesse l'invidia.

GIUNONE

Non regna invidia in cielo:

che bestemmie son queste?

TETIDE

Son storie funeste;

mentre vuoi fare Achille,

gran nipote d'Egina,

la diletta di Giove e tua rivale,

vuoi fare Achille dico,

vittima del tuo sdegno,

vuol la tua santa mano

castigar in un tempo

con l'odiato greco

il nemico troiano.

GIUNONE

Ubbidisci alle stelle.

TETIDE

Son vostre scuse belle.

MINERVA

Non contrastar col fato.

TETIDE

Il fato sarà dunque

fatto sol per mio danno?

GIUNONE

Non mormorar del cielo.

TETIDE

Non schernisca i mortali.

MINERVA

Indegna d'esser greca, d'esser diva

oggi Tetide sei,

mentre il tuo gran livore

priva di difensore

l'offesa Grecia, e gli oltraggiati dèi.

TETIDE

Troppo mi costa Achille:

ben son d'eroi mendiche

le miniere d'Atene?

Provvedi altro campione

all'esercito argivo,

ch'io voglio Achille vivo.

Scena terza

Achille, e Deidamia.

ACHILLE

Ombra di timore,

non mi turba il petto:

nembo di sospetto

non mi scuote il core.

Non può vero valor perder sue tempre,

in ogni abito Achille, Achille è sempre.

DEIDAMIA

Sempre, sempre tu sogni

guerre, battaglie, e morte

d'uomini a mille, a mille

entro a donnesche spoglie

mortificato Achille.

ACHILLE

Di spirto guerriero

l'ardor non si smorza;

ho grande la forza,

sublime il pensiero.

Non può vero valor perder sue tempre,

in ogni abito Achille, Achille è sempre.

DEIDAMIA

Oh dio, mio bene, oh dio

dove va quel sospiro?

ACHILLE

Che nuovi messaggeri

approdarono a Sciro?

DEIDAMIA

Son due greci guerrieri.

ACHILLE

Guerrieri?

DEIDAMIA

Sì, guerrieri.

ACHILLE

Amata Deidamia;

sarem noi dunque di saper indegni,

donde vengano? A chi? Per quali affari

varcano questi mari?

DEIDAMIA

Già piena di furore

suona d'intorno, suona

la fiera tromba del troiano Marte;

e Licomede, il mio

buon genitore, a parte

della guerriera impresa,

sé stesso prima, e seco

da questo picciol regno

più d'un armato legno al suono appresta

dell'amica richiesta.

ACHILLE

E resterem qui noi

selvaggi abitator di scirie ville?

Il vecchio Licomede, e questi fauni

si copriran di ferro?

Andran di glorie onusti?

E in questi scogli angusti

rimarrà chiuso, e disarmato, Achille?

DEIDAMIA

Nettare mio soave, anima pura,

Tetide tua gran madre,

per tener lungi te, sua nobil prole,

dalle guerriere squadre,

qui celato ti vuole;

ti cangiò veste, e nome,

e Fillide chiamotti, onde fra noi

d'Achille di Tessaglia

tu sei Filli di Sciro oggi creduta,

perch'ella intimorita

dall'oracol santissimo di Themi,

vuol, ch'i perigli estremi

schivi su questa effeminata vita.

ACHILLE

Donnesche gelosie, vani riguardi,

che già sotto la sferza

d'un musico, e filosofo centauro;

or dentro a questa gonna

mi fecer divenir imbelle, e quasi,

ch'io non dissi, una donna.

Ma sai tu, qual io sono?

DEIDAMIA

So ben'io, qual tu sei

progenie degli dèi:

che discoperti a me gli occulti inganni,

che celan questi panni,

t'accolsi in letto per ischerzo, e tale

lo scherzo fu, che ti raccolsi in seno:

e fecondata alfin madre divenni,

tu genitor del vezzosetto Pirro:

ch'altro non resta omai,

che tu deposte le donnesche spoglie,

se madre mi facesti,

mi dichiari tua moglie.

ACHILLE

Egli è ben giusto,

ma poco al nostro affetto,

e se posso ancor più, più ti prometto.

DEIDAMIA

Se ti minaccia la nemica sorte

e tradigioni, e morte,

statti, statti qui meco, e godi e taci;

che tra gli amplessi, e baci,

non ti sovrasta, Achille, altro periglio,

che d'esser genitore, io genitrice

d'un altro amato figlio.

ACHILLE

No, no, ch'ei si disdice

la rosa de' Leoni alla cervice:

e non vorrai tu meco

l'armi vestir, s'io vesto

questa gonnella or teco?

DEIDAMIA

Ti seguirò compagna

dell'armi, e degli affanni,

se vissi teco del gioir a parte;

e chi congiunse amor, non sciolga Marte.

ACHILLE

Felicissimo giorno,

le nubi squarciate

di queste spoglie ingrate

faccia Achille ad Achille il suo ritorno.

DEIDAMIA E ACHILLE

Felicissimi amori,

se quel laccio che dentro il cor c'annoda,

ci stringa anco di fuori,

e senza tema io t'amoreggi, e goda.

DEIDAMIA

Onde un santo imeneo faccia ch'io sia,

ch'io sia sempre di te.

ACHILLE

Tu sempre mia.

Scena quarta

La Vittoria, Giove, Venere, Coro degli Dèi, e Amore.

VITTORIA

Ove comandi, o padre?

Ove bramate, o dèi,

ch'io spieghi i mie' trofei?

Che sulle greche squadre,

o sul troiano stuolo

rapido stenda la Vittoria il volo?

GIOVE

Vergine, un lungo affare

questi esser deve: onde a grand'agio puoi

pensar a' voli tuoi.

Non si può così tosto

fra duo popoli arditi

ultimar fiere liti.

VENERE

Tu meco esser dovrai, Vittoria illustre,

ch'io dèa della bellezza

contro le prime dive

sulle dardane rive,

oggi mai sono alle vittorie avvezza.

CORO

Col brando fulminante,

IIº

cinti di piastra, e maglia,

IIIº

con l'usbergo pesante,

IVº

armati d'elmo, e scudo,

VENERE E GIOVE

usciremo a battaglia:

CORO

e non con la beltà d'un corpo ignudo.

VENERE

Voi di voce gagliardi

ma non atterrirete,

che ben sapete, quanto

fulmini con gli sguardi il volto amato

d'una Venere inerme un Marte armato.

GIOVE

Diva, per te già venne

la ria discordia a scompigliarmi il cielo.

Io non voglio qui fisse

cagioni ognor di risse. O menti irate,

scendete in terra al gran litigio, e fate

che senza ombre di sdegno

splenda il celeste regno.

CORO

Scenderem, scenderemo

alla fiera tenzone:

la spada impugneremo:

arbitre saran l'armi

della nostra ragione;

andrem co' greci a trionfar sul Xanto

trovisi Achille intanto.

VENERE

E trovato, che sarà

cento Achilli io sosterrò:

ben di forze ha povertà

diva, che contr'un uomo uscir non può.

Tutta avvampo di furor,

scendo in terra a guerreggiar,

se ben madre io son d'Amor,

mi voglio in una furia trasformar.

Figlio non sarai meco,

contro lo stuolo greco?

AMORE

Madre tu mi perdona,

ch'esser non posso teco:

ch'io devo indifferente

tra l'una e l'altra gente oggi mostrarmi.

A te non mancan armi:

ma prendi il mio consiglio,

credi, credi al tuo figlio,

lascia a Marte la guerra,

non esser gioco de' mortali in terra.

Sei dal fato sospinta,

hai nemico il destino,

ch'alfin rimarrai vinta,

e vedrai Troia tua cader in cenere,

non può cozzar col fulmine divino

la tua potenza, o Venere.

VENERE

So, ch'il fato d'Asia vuol,

ch'io rimanga vinta alfin,

ma ristora il grave duol

delle perdite mie anco il destin.

VENERE E AMORE

Deve il veneto, e 'l roman

non d'Achille greco uscir,

ma dal buon sangue troian.

Insieme

VENERE

Onde ho giusta cagion d'insuperbir.

AMORE

Onde hai giusta cagion d'insuperbir.

Scena quinta

Licomede, Ulisse, e Diomede.

LICOMEDE

Mi vedete già tutto

alle vostre richieste,

navi, genti, e me stesso

apprestato all'imbarco:

ha le grandezze, ha Licomede, a cuore

della patria l'onore,

e nutre in petto angusto un zelo immenso:

non è d'oro, o di gemme

quest'isola feconda;

re di nude maremme,

re di povero censo,

re di scarsi tributi

non può dar ricchi aiuti.

ULISSE

Del tuo sommo valor la Grecia molto

a ragion si promette,

che nel guerriero volto

contro il frigio ladron spiri vendette.

DIOMEDE

Tutte d'Asia le belle

non furono bastanti

a satollar un Paride lascivo,

che nell'Europa l'arrogante offese

l'ospite suo cortese.

Non regni in te di noi dubbio simile

Licomede gentile:

e non privar intanto

tu degli usati onori

gli ospiti ambasciatori.

LICOMEDE

Nulla negar dev'io

d'ossequio, a chi riempie

di glorie il regno mio.

E che si trascurò? Che non s'adempie?

DIOMEDE

Nostro devoto uffizio

non è signor di riverir te solo,

ma di prestar nel fortunato ospizio

segni di riverenza

delle scirie matrone al regio stuolo.

Se ti privò l'invidiosa morte

della real consorte,

privo non sei di generosa prole.

E 'l buon costume vuole,

che l'ospite onorato

dagli occhi sia delle più chiuse, e belle

domestiche donzelle.

ULISSE

Amor facondo il rende:

s'arma dell'armi amore,

che gli porge l'onore;

onor l'esca prepara, Amor l'accende.

LICOMEDE

Questo de' Greci, o Diomede è l'uso,

e tu nutrito in Sciro,

e tu meco vissuto,

sai, se costante osservator io sia

di greca cortesia?

Ma, se tardai sinora,

della mia negligenza è sol cagione

vostra armata presenza.

Timide donzellette,

non avvezze a mirar dell'armi il lampo,

sfuggono d'apparire

in sì lucido campo.

DIOMEDE

Paride non è qui, che le sgomenti.

LICOMEDE

Oh dio, che disusata, e che fatale

repugnanza m'assale?

Femminelle son tutte

armate d'aghi, e di conocchia instrutte.

DIOMEDE

Non sarò del lor bello

ammirator novello.

ULISSE

A veder io son uso

nelle vigilie di noiose notti

le Penelopi mie torcer il fuso.

LICOMEDE

E non ti sazia ancor ceffo di donna?

Qual man mi risospinge?

Qual voce entro mi dice

un esito infelice?

ULISSE

Conformeremo al tuo desir tenace

nostre indiscrete voglie:

la donna ancor mi piace,

e non m'infetta ancor fiato di moglie.

DIOMEDE

Vedi, che dinegando

i consueti onori

a greci ambasciatori,

non siam creduti noi,

o poco amici tuoi,

o tu troppo geloso

del tuo tesoro ascoso.

LICOMEDE

Togliete le cortine;

che non credesser questi

ospiti desiosi,

ch'io qui celassi veneri divine.

Scena sesta

Ulisse, Diomede, Licomede, Deidamia, Eunuco, Coro di Donzelle, ed Achille.

ULISSE

O formano gli dèi

questi teatri in terra,

o innalzano i mortali

questi apparati in cielo.

DIOMEDE

0 bellissima scena, o nobil coro

di donzelle gentili:

specchiatevi qui tutti

begli occhi femminili.

ULISSE

Si goda pria lontano

il prospetto amoroso,

che sembra poi più grato

da vicino mirato.

LICOMEDE

Non s'avvider pur anco

d'esser preda gentil degli occhi vostri.

Hanno il piacevol loro

trattenitor al fianco, onde di lui,

con la pratica amica

le romitelle chiuse

a consolar son use

la donnesca fatica.

Uditel già, ch'ei s'apparecchia al canto.

DEIDAMIA

E quanto ancora, e quanto

di lunga aspettativa

resta all'orecchio nostro?

Quando sprigionerai quel canto grato,

musico addormentato?

EUNUCO

Sia maledetto il dì, ch'io ti conobbi,

musica, eterna morte,

di chi t'adopra in corte.

Come scoppian le corde

che non mi scoppia il petto?

Servo tiranna ria

dell'altrui libertà,

che mercenaria fa

la libera armonia.

DEIDAMIA

Che mormori, mezz'uomo, io non ho sorde

l'orecchie; a tuo dispetto

vogliam teco dir quella,

che ci sembra sì bella.

ULISSE

Che musico rubesto?

DIOMEDE

Poche volte s'accorda

nel musico incostante

voce, volere, e corda,

e quando abbonda l'un, l'altro è mancante.

Canzonetta a tre voci.

EUNUCO, DEIDAMIA E ACHILLE

Il canto m'alletta:

la gioia m'abbonda:

il suon mi diletta:

il ben mi circonda:

ceno, gioco, amoreggio;

e 'l mal c'ho da provar, non sia mai peggio.

DIOMEDE

Deh seguite, che questa

vezzosa canzonetta

ogni nota molesta

dolcemente saetta.

EUNUCO, DEIDAMIA E ACHILLE

Qui scherzo, qui rido,

amor non mi offende:

gli credo, mi fido,

timor non mi prende.

Se non ho senno, ho sorte:

e sol del mio gioir l'ore son corte.

DIOMEDE

O come dolcemente

all'arti san dell'ingegnose mani

accompagnar ancora

l'artifizio del canto?

E la voce, e la man quanto innamora?

LICOMEDE

Uscite a riverir, donzelle, uscite,

gli ospiti cavalieri.

E sia di riverenza

dimostranza palese

vostro inchino cortese.

Mentre le Donzelle vanno prima a raffazzonarsi, e poi escono a riverir gli Ambasciatori, l'Eunuco canta solo questa canzonetta.

Belle rose, che regine

siete pur degli altri fiori,

la natura fra le spine

chiuse invan vostri tesori:

già d'un maggio ornavi il seno,

or di rose l'anno è pieno.

Belle donne, voi, che nate

per bear gli uomini siete,

più racchiuse, più peccate,

più guardinghe, più cadete.

Foste un tempo un sol secondo,

or di donne è pieno il mondo.

Sembra rosa la bellezza:

quando spunta si gradisce:

sul mattino ella s'apprezza:

sulla sera si schernisce.

Se donzella non si sposa,

presto langue, come rosa.

DIOMEDE

Gradita lontananza,

se dopo le tue pene,

rendi migliore il bene,

quanto col desir vecchio, e l'occhio nuovo

la sospirata amante,

più bella alfin ritrovo?

ULISSE

Questi poveri doni

porge l'itaco Ulisse.

DIOMEDE

E l'etolo Diomede.

ULISSE E DIOMEDE

A voi di Licomede

canore inclite figlie.

CORO

Che vaghe meraviglie?

Che pregiati tesori?

Onde a noi tanti onori?

EUNUCO

Render grate pariglie,

come potrete, come

s'altro oro non avete, aride figlie

che l'oro delle chiome?

CORO DI DONZELLE

Sorelle dividiamo.

Il ricco nastro è il mio.

Io prendo il velo d'oro.

I coturni vogl'io.

Che sanguigno amaranto?

Che papavero acceso?

Che tulipan di foco?

EUNUCO

O ben sei qui natura in ogni parte

discepola dell'arte?

DEIDAMIA

La rosa a me, la rosa.

EUNUCO

Alla tua purità si deve il giglio.

DEIDAMIA

No; no voglio un giacinto

di porpora offuscata.

EUNUCO

Perché dica il colore,

che forse avvampi di segreto amore?

DIOMEDE

Quanto segreto più, tanto più caro.

ULISSE

Vaga terrena stella

d'aureo doppio narciso

abbia questa donzella,

che sembra di pensier maschia, e di viso.

ACHILLE

Questo, questo riceve

volentier la mia destra.

EUNUCO

Ohimè, tra gigli e rose

per far a tutti noi torbido il sangue,

chi quel serpaccio ascose?

ACHILLE

O povere di spirto:

è ben altro il mio fior, che rosa, o mirto.

ULISSE

Ferma, ferma o fanciulla,

ch'al tuo buon genitor questo rechiamo

ferro pungente in dono.

ACHILLE

Ei sarà mio.

DIOMEDE

Di Licomede alla guerriera destra

questo pugnal si deve.

ACHILLE

Ma la mia lo riceve,

né paventa a nudarlo.

LICOMEDE

Vanarella, si crede

questa Filli di Sciro,

d'esser nuova Bellona,

armi sempre, armi chiede,

sempre d'armi ragiona.

ULISSE

Ha di guerriero il cor, di donna il volto.

DIOMEDE

O saggio Ulisse, questi

è l'Achille sepolto.

ULISSE

Questi è il fatal garzone,

ch'andiamo ricercando.

ULISSE E DIOMEDE

Questi è di Peleo il generoso figlio.

LICOMEDE

Stanno a stretto consiglio.

DEIDAMIA

Achille è discoperto.

LICOMEDE

Tetide, io più non posso

sostener il torrente;

tutta la greca gente

per te non voglio furibonda addosso.

ULISSE

Di Grecia tutta i più sopiti eroi

desta il rumor della troiana tromba.

Te sol pelide, da' letarghi tuoi,

non risveglia quel suon, ch'alto rimbomba?

Lascia quegli ornamenti, e dove a mille

vanno i guerrier, non sia l'ultimo Achille.

DIOMEDE

Tu richiesto dal ciel, dovuto a' preghi

della tua Grecia, resti anco celato?

Fra coro di donzelle a noi ti neghi,

alla gloria rubi? E sprezzi il fato?

T'incresca omai dell'incresciosa sorte,

e vola a Marte, e non temer di morte.

ACHILLE

O Licomede, o mio signor, tu senti,

ch'io son chiamato alle troiane imprese.

Né Filli io sarò più, fra chiuse genti,

agli occhi di costor fatto palese.

Assai mi celò qui timida madre:

abbian l'Achille suo le greche squadre.

LICOMEDE

Io del pubblico bene ognor fui vago;

e se l'oracol vostro Achille chiede,

nelle voglie del ciel mie voglie appago,

né contender col ciel può Licomede.

Dovrà Tetide tua saggia scusarmi:

su, su squarcia la gonna, e vesti l'armi.

EUNUCO

O nuove meraviglie,

che gran tesoro ascoso

voi godevate, o figlie?

Chissà di quante ei divenuto è sposo.

DEIDAMIA

O sospirato dì tu pur sei giunto?

Andrò pur io di tante glorie a parte,

se chi congiunse Amor non sciorrà Marte?

Scena settima

Minerva, e Giunone guidano il ballo della sofferenza.

MINERVA

A soffrire, a soffrire

o devoti di Minerva;

troppo vostra mortal carne è proterva;

usatela al patire

a soffrire, a soffrire

usatevi a buonora

in bella fresca età;

ch'altre sferzate dà

amor poscia a colui, che s'innamora.

GIUNONE

Si cominci la danza,

fortissimi garzoni.

MINERVA

Si cominci, sì, sì, la greca usanza,

e mentre salta il piè, la sferza suoni.

Altri colpi la fortuna

porge a' miseri mortali,

sofferenza, sofferenza;

che di pene, che di mali

l'uomo mai, mai non va senza,

sofferenza, sofferenza.

Fiera, lunga e mortal guerra

grande chiede l'apparecchio;

sempre fu la sciria terra

di fortezza illustre specchio:

questi greci esploratori,

c'hanno qui trovato Achille,

vedranno anco a mille mille

nascer qui gli eroi migliori.

MINERVA E GIUNONE

Sofferenza, sofferenza.

GIUNONE

Di Giunone...

MINERVA

Di Minerva.

MINERVA E GIUNONE

Oggi siete alla presenza

sofferenza, sofferenza.

Coro di Giovanetti isolani col ballo della sofferenza.

1

Che fate in questi chiostri

nascose frodi, e mascherati inganni?

Qual nembo vi sospinge

a' turbar il seren dei petti nostri?

S'amor a' nostri danni

v'arma la destra, e vi nasconde il volto,

egli è ben cieco, e stolto.

Qui bugia non si finge;

ma sull'aperta fronte abbiamo il core,

quel che dentro si pensa, appar di fuore.

2

Il nemico è nemico,

e quando ama, o disama altri il dimostra:

qui la destra, e la lingua

sempre la stessa egual scorge l'amico.

Se l'un l'altro si giostra

con percossa mortal, non è per tanto

che l'odio c'entri, o 'l pianto.

Vorrò, ch'altri m'estingua,

pria ch'io scopra viltà, dolore, o tema;

né per gara d'onore, Amor si scema.

3

Nasce dal duolo il riso,

e l'allegrezza dal soffrir s'acquista.

Duole il colpo, no 'l niego,

ma no 'l dimostra la parola, o 'l viso.

Il dolor non m'attrista,

e sembra inganno il mio, ma qui la frode

degnissima è di lode.

Egli è fregio ogni frego,

ogni livido è lampo: ha sol la palma

il corpo sofferente intrepid'alma.

4

Dell'ardor bellicoso

mantice è questo suono, all'armi io sento

per l'orecchie rapirmi,

d'indugio impaziente, e di riposo.

Tu, tu quest'ardimento

gradisci, o dea de' boschi, a te davanti

spargo sangue, e non pianti.

Può ben altri ferirmi,

ma vera sofferenza oggi m'insegna,

ch'un magnanimo cor la morte sdegna.

5

Dal tuo verace esempio

sofferenza s'apprende, o dea triforme.

Né qui senza ragione

Sciro ti consacrò l'altare, e 'l tempio,

tu delle fiere l'orme

con passo infaticabile seguisti.

Tu l'inferno t'apristi.

Tu nell'alta magione

facella velocissima t'appresti,

né per macchie, o mancanze il corso arresti.

Epitasi

ovvero azione seconda.

Scena prima

Diomede, Ulisse.

DIOMEDE

L'amante modesto,

che serve, che brama

bellissima dama,

non deve sì presto,

con termine ingordo,

conchiuder accordo.

ULISSE

Ti credo, ti scuso:

perché tu non puoi,

conchiuder non vuoi.

Schernito, deluso,

del ben, che non hai,

modesto ti fai.

DIOMEDE

Ha più dell'umano,

ha manco disagio,

l'amar a bell'agio.

Il poco è più sano;

la flemma è sicura;

il trotto non dura.

ULISSE

Hai pigro cavallo,

e credi, potere

far lunghe carriere?

Lentezza è gran fallo,

se chiede il periglio

furor, non consiglio.

DIOMEDE

Già pronto bevea,

or provo più grate

bevande stentate:

l'indugio ricrea:

di gioia, che vola,

tardanza consola.

ULISSE

Dell'ore perdute

si penton poi tardi

gli amanti infingardi,

appena ho vedute

le donne, ch'ardito

conchiudo il partito.

DIOMEDE

Ambire, sperare,

desio d'ottenere

e un lungo piacere

col presto ultimare,

si scema l'affetto,

finisce il diletto.

ULISSE

E tu, come egualmente

distingui le stagioni?

Come d'armi, e d'amori

sei maestro eccellente?

Dianzi tutto guerriero, or tutto amante;

ma se la lontananza oggi ti ha resa

la vergine più bella,

mi sembra la donzella

poco, o nulla per te d'amore accesa.

Non veggo, che ti miri,

ch'amor è questo vostro?

Non sento, che sospiri? Eppur si dice,

che l'adorata all'adorato avante

a mille segni si discopre amante?

DIOMEDE

Le donzellette oneste

han temenza del padre,

vergogna del vicino,

dubbiezza dell'amica,

e d'ogni ombra sospetto:

e se negan l'inchino,

tutto, tutto è rispetto.

ULISSE

Il proverbio non erra:

tu sei re dell'Etolia, onde ancor hai

dell'Etolia i costumi;

molto chiedi e presumi.

Queste guance adombrate

da pelo abbarbicato, ohimè, che sono

mal volentieri amate:

dubito, che tu sia

del numeroso stuolo,

che s'usa tuttavia,

di innamorarsi solo:

e ch'ella adocchi, io credo

con più giusta ragione

un guerriero garzone,

quell'Achille celato

fra coro di donzelle,

or baciante, or baciato,

or preso per la mano,

or annoiato al fianco,

gelosia non ti dice

ch'è di te più felice?

DIOMEDE

Quell'audace, quel fiero

sempre a dar morte pensa,

e non a tesser vite:

vuol disfar, non rifare;

vuol ferir, non amare:

ed ecco l'orgoglioso;

vedi, s'egli ha sembiante

di soldato, o di sposo?

Scena seconda

Achille, Ulisse, Diomede, e coro d'Isolani.

ACHILLE

Dolce cambio di natura,

donna in uomo trasformarsi,

uomo in donna tramutarsi,

variar nome e figura.

Non son più Fillide bella,

son Achille oggi tornato:

quanti invidiano il mio stato,

per far l'uomo, e la donzella?

Io per me non vedea l'ora,

di tornar maschio guerriere;

molti son d'altro parere,

resterian femmine ogn'ora.

ULISSE

T'abbiam al fin pur rinnovato, Achille?

ACHILLE

Lieto giorno, e festoso esser dev'anco,

in cui rinasco, amici,

pigre a scherzi guerrieri

non sian le destre forti:

nell'arringo d'onore oggi si sudi.

ULISSE

Nobilissimo impiego.

DIOMEDE

Pregiatissimi studi.

ACHILLE

Nell'arene del porto

correte ad apprestar le schiere vostre

per le pirriche giostre.

Attendetemi là, campione, e venga

chi di voi contraddire oggi desia

alla querela mia.

CORO DI ISOLANI

Qual mai querela è questa,

che sostener Achille

in tua nobil barriera ardito intendi?

ACHILLE

Che possa, a suo piacere

un giovine amatore

cangiar affetto, e variar amore.

ULISSE

Questo no, no 'l dirò mai,

in amor io son costante,

fede eterna le giurai,

e morrò fedele amante.

ACHILLE

Di Venere la stella,

in ciel non è tra l'impiombate, e fisse:

amor è figlio d'un pianeta errante:

ma troppo sei troppo ammogliato Ulisse.

ULISSE

Orgoglioso garzone,

sei di moglie inesperto;

non adoro la donna, adoro il merto.

CORO DI ISOLANI

Noi ce n'andiam volando

al teatro del porto,

vedrassi ivi con l'asta, indi col brando

chi segua il vero, e chi sostenga il torto.

Scena terza

Vulcano, ed Achille.

VULCANO

Ferma, o fatal guerriero

ferma onor della terra, amor del cielo,

il piè snello e leggero,

che seguirti non può con questo incarco

il zoppo dio del foco:

fermati Achille, un poco.

ACHILLE

Di buona voglia, o padre.

VULCANO

Il noderoso legno,

che di sua man Minerva

scelse, scorzò, drizzollo,

d'un sol Achille è degno.

Il mio saper armollo

di ferro pungentissimo, e gli infuse

questa nuova virtute,

che potrai con quest'asta a tuo piacere

recar morte, e salute.

ACHILLE

Pregiatissimo dono,

privilegio inaudito.

VULCANO

Non han le selve un cerro

più nodoso, o pesante,

non ha Vulcano un ferro

più terso, o penetrante.

ACHILLE

Grazie per me le rendi,

e grazie a te sian rese

dell'affetto cortese.

Per Minerva io l'impugno,

e chi m'arma di speme,

chi la mia destra onora,

forte la renda ancora.

VULCANO

Vendica tu l'ingiurie

d'un Menelao tradito;

castiga questi adulteri scortesi

ch'io ben con molti offesi,

son a un simil partito.

Scena quarta

Venere e Vulcano.

VENERE

Ah, marito, marito,

in quell'orride grotte

credo che tuo diletto

sia pensar giorno e notte

a farmi alcun dispetto.

Invece di saette

per la destra di Giove,

son oggi le tue prove

il drizzar lance e 'l macchinar vendette.

VULCANO

Ah, consorte, consorte,

mentr'io drizzo le lance

tu, ripiena di ciance,

mi fai le fusa torte.

Quanto meglio faresti

a starti in pace meco

di Lenno entro lo speco,

e lasciar i pensieri

di battaglie e di morte

ai numi più guerrieri!

VENERE

Dunque, dunque vorresti

(oh dio, quanto presumi!)

vedermi riformata

entro gli eterni fumi

d'una fucina ingrata?

Arsiccia, nubilosa,

Venere scorucciosa,

lugubre, addolorata,

in mezzo alla caligine fetente

con un vecchio impotente?

Va', trovati un'arpia,

trovati un mostro nel più negro Egitto!

O macchinista afflitto,

non son fatte le veneri a tuo dosso.

Che nobil cortesia,

che bella carità!

Perché, marito mio, tu non patisca,

vuoi che s'irruginisca

nella spelonca tua la mia beltà,

e non vedi ch'a Venere lasciva

predichi l'onestà!

VULCANO

Creder Venere casta è creder vano.

Chi Venere la moglie aver desia,

è forza alfin che sia

anch'egli un bel Vulcano.

VENERE

Forse ch'io ti pregai

che mi fossi marito?

Tu sai quanto, tu sai,

mi richiedesti a Giove!

Giove alfin mi ti diede,

patteggiando fra noi

che tu dovessi in terra

viver negli antri tuoi,

ed io regger del cielo il terzo giro.

Non ti doler, s'io sono

in un ciel sì volante,

una moglie vagante,

se senza me tu resti:

sai ch'i patti fra noi furono questi.

Oggi Troia mi chiama;

a Paride io mi sento

dovuta, e non ti sembra

che la difesa mia merti un pastore

che mi fé tanto onore?

VULCANO

Credo, credo ch'ogn'uomo

che nuda ti vedesse

ti daria, bella diva, altro ch'un pomo.

VENERE

Non pensar a vendette, e soffri e prendi

in pace il tutto. E poi,

se d'armar mi prometti

d'una cotta fatata

il più sublime de' troiani eroi,

anch'io ti sarò grata,

anch'io nuovi diletti

ti porgerò, Vulcano.

Su, su, per me, gran fabro,

affatica la mano!

VULCANO

Beltà che non impetra! In Lenno io torno;

l'armi richieste avrai,

se tu, diva, verrai

a star meco un sol giorno.

VENERE

Sì, sì, ch'egli è ben giusto!

Consolato è partito,

con questa ombra di gusto,

il credulo marito.

Alla donna ch'è brutta, ch'è sciocca,

soggiogare i mariti non tocca;

se le belle e le sagge non sanno

comandare al marito, lor danno.

Scena quinta

Nutrice, e Deidamia.

NUTRICE

È giustissimo il duolo:

di te si scorda Achille,

vuol partir egli solo;

ma tu nel grave torto,

se smarrisci il consorte,

non perdere il conforto.

DEIDAMIA

Io mi veggo schernita;

lasciata in abbandono;

e tu mi neghi o dio,

un diluvio di pianti, e di querele

contro sposo infedele?

Che di me trionfante

pria, che del frigio amante

Achille parta e Deidamia qui resti?

E provi altri funesti

incendi al cor, che non apporta Achille

alle troiane ville?

E senza fallo mio

che pria di Troia incenerir dev'io?

D'una donna rapita,

d'un violato ospizio,

l'ingiurie Achille a vendicar se n' vola

e lascia offesa me, che non l'offesi?

Che lo raccolsi in seno?

Che feconda restai?

Che il suo furto celai? L'ora aspettando

dopo i furtivi amplessi

degli imenei promessi?

NUTRICE

Ben l'intend'io, cui tocca

faticoso disturbo

di nutrir il tuo Pirro

celato, e a chiusa bocca:

ma mi sovviene ancora

che forzato egli parte, e parte, tace

per tuo onor, per tua pace;

or ch'egli è discoperto

maschio di tanto merto,

vuoi, che fra coro di donzelle ei resti?

Vuoi tu scoprire al genitor le colpe?

Silenzio dunque, e senno

fanciulla adopra, e spera

sorte miglior, che non dovranno eterne

esser le lontananze, e trova il fato

spesso il sentier negato.

DEIDAMIA

Io mi sento alla morte in pensar solo

ch'oggi debba partir l'Achille mio,

senza più dirmi un frettoloso addio.

Non vedi tu non senti

alle trombe stridenti,

allo strepito d'arme,

al nitrir dei corsieri,

ch'egli è rivolto tutto

di Marte alle fatiche, e della moglie

cangiò l'amor con le cangiate spoglie?

NUTRICE

La giovanil licenza

quel frutto, che permette, unqua non porge,

t'amò necessitato, or ch'egli è reso

del suo voler signore,

non conforma i pensieri

agli affari primieri.

Al pettine dovea

giungere il nodo al fine:

contentati, che rea

di lacerato onore,

vergine rimarrai

nel concetto comune;

o tornerà lo sposo, o tu sarai

d'altro voler ben presto.

Non mancano mariti

alle regine mai. So pur, ch'un tempo

amasti Diomede,

s'egli al padre ti chiede,

avratti di bell'oggi, e a me non manca

frode, sapere, ed arte,

benché madre d'un figlio, oggi tu sia,

di vergine tornarte.

DEIDAMIA

Ohimè Nutrice, ohimè tu vuoi che bocca

usa al nettare, prenda,

per l'onestà salvare,

queste bevande amare?

NUTRICE

Tutti gli uomini son stelle per noi

d'un medesimo cielo

e s'un raggio ci offende

l'altro sane ci rende:

sgombra la tema vana,

e ripiglia l'ingegno.

DEIDAMIA

Ohimè ch'il senno,

chi davvero si duole,

smarrisce: e resta alfine

senza sensi, e parole,

in preda alle ruine.

Anderebbe qui una ricchissima comparsa di barriera, ma studiosi della brevità, abbiamo finto, ch'ella sia di già seguita al porto.

Scena sesta

Achille, Diomede, ed Ulisse.

ACHILLE

Cedi cedi, e ormai confessa

al discreto vincitore,

che cangiar si deve amore.

DIOMEDE

Vaga la giostra fu, ch'agli occhi espose

nel teatro del porto

il tuo guerriero ardire,

ma poco ella fu grata

alle regie donzelle,

mentre niuna, ohimè di queste belle

l'onorò d'un sguardo.

ULISSE

Son in amar costanti,

e sdegnan di veder le donne sagge

volubili gli amanti.

ACHILLE

Tu non conosci l'uso

delle donne di Sciro,

son femminelle intente

a stancar gli aghi e 'l fuso.

Né donne qui di bellicosa gente

aman gli scherzi fieri;

odian'arme, e guerrieri.

Ma noi troppo scherzammo, il tempo chiede,

ch'agli uffici dovuti

volgiam la mente, e 'l piede, acciò la presta

partenza apporti i dimandati aiuti.

Scena settima

Deidamia sola.

Ardisci, animo, ardisci;

osa, mio cor, che temi?

Temi quel che di grande,

di grande, e d'impensato,

ne' tuoi perigli estremi,

ti suggerisce un consiglier fidato?

S'il precipizio miri,

se la ruina aspetti,

sgombra, sgombra i rispetti,

adempì i tuo' desiri;

vergogna non t'arresti

troppo udisti, e vedesti.

Su, su senno ingegnoso,

rendimi il caro sposo.

Arti, industrie, discorsi, oh d io, che spero,

fissativi qui meco,

per destar a pietade, un crudo, un fiero,

un fuggitivo greco,

che d'un troiano ingiurioso, ed empio

Achille oggi saresti assai peggiore

d'infedeltate, e d'arroganza esempio.

Scena ottava

Giove sull'aquila, con la Vittoria volante; e Giunone in terra.

GIOVE

Consorte non t'incresca,

se dal ciel ancor io

m'allontano talora;

e non son nel tuo letto

marito sì perfetto.

Perché tanta dimora

tra mortali tu fai?

Devi forse di nuovo

non ben contenta del giudizio primo

al giudice d'appello

mostrar il corpo bello?

GIUNONE

Molto di me geloso

ad essere incominci:

onde queste doglianze?

GIOVE

Onde queste licenze?

GIUNONE

In terra questa volta

io dovrò rimanere, insin, che resti

arsa Troia, e sepolta:

l'Achille è ritrovato:

altro non manca più, se non, che tosto

tu ti dichiari meco,

se sei troiano, o greco.

GIOVE

Io son Giove, e son padre

a tutti universale.

GIUNONE

Statti dunque lassù con la tua pace.

VITTORIA

Lontananza di moglie ah non è mai

al marito discara?

Mentre l'armi Giunone,

Giove gli amor prepara.

GIUNONE

E che fa teco la Vittoria in cielo?

Che non la mandi, o pronto

esecutor del fato,

ov'egli ha decretato?

GIOVE

Non andrà così presta

all'esercito argivo

la vittoria richiesta.

Deve scendere in prima, ove a contrasto

sarà saggia donzella

con quel forte d'Achille animo vasto.

Vola, Vittoria, vola,

favore alla pazzia

porgi di Deidamia.

Vinca il suo vincitore, onde si sappia

che tante usa la donna in contro l'uomo

grida, astuzie, rumor, frodi, e ruine,

che della donna è la vittoria alfine.

VITTORIA

Senno contro stoltezza invan contrasta

Achille miscredente,

vedrà la tua grand'asta,

che d'una donna il crine è più pungente.

O come in cieca inevitabil fossa

questi ritrosi scaltri

anco per lieve scossa,

vanno a precipitar prima degl'altri.

Scena nona

Capitano del coro degli Isolani armati, e Deidamia, l'ode furtivamente, e lo rapisce seco.

CAPITANO

Spalancatevi abissi,

inghiottitemi voi tombe d'inferno,

che d'un rossore eterno

porto macchiato il furibondo volto.

Perduto l'onore,

guerriero amatore,

sta meglio sepolto.

Chi crederia, che quell'Achille, dianzi,

fra coro di donzelle

effemminato, imbelle,

m'avesse oggi atterrato

nel giocoso steccato?

Fu da scherzo la giostra,

ma codardia sovente

appresso invida gente

da scherzo anco si mostra.

Io, che d'invitto ho il nome,

io, che di tante, e tante

ornai palme, e trofei

gli altari degli dèi,

com'esser può ch'alla mia donna avante

ritorni oggi abbattuto,

e vilipeso amante?

O voi della mia dèa

occhi belli e ridenti,

ahi lasso, io non credea,

che tanto esser dovesse il vostro riso

per vinto rimirarmi

in questo gioco d'armi:

e sai se la mia donna

scherzosa oggi ridea

in veder quel bellissimo garzone

meco a stretta tenzone!

Oh dio, che scoppio di gelosa rabbia,

temo, ch'ella non l'abbia,

cangiando il primo affetto,

per mio rivale, e suo campione eletto.

Ma questo mi consola,

che porta il crudo il satollato Achille

un gran odio alla gonna, e volto all'armi

non lo travaglia più pensier di donna.

Io me ne riedo in corte;

che dirò per mia scusa,

se la mia donna di viltà m'accusa?

Che Marte io l'ho creduto,

in sembianza d'Achille

ch'io non gli avrei ceduto.

Scena decima

Diomede, ed Eunuco.

DIOMEDE

Oh, dio, che sento? Oh dio,

che narri d'impensato?

Ha Deidamia sì presto,

per un pensier molesto,

il senno abbandonato?

Dunque del suo furore

cagion credi, che sia

la partenza d'Achille?

EUNUCO

Anzi, ch'io n'ho certezza:

dal suon conosco maculato il vaso.

DIOMEDE

Dunque la credi amante? Ohimè rispondi,

ch'il tuo silenzio insino,

che risposta io non senta,

m'accora, e mi tormenta.

EUNUCO

Dillo tu stesso, dillo,

ch'avresti oprato tu, forte garzone,

fra coro di donzelle?

Non sol la stanza stessa, il letto stesso

era loro comune, e pensi, e vuoi,

che scoperti gli inganni

non fussero a costei

di que' donneschi panni?

Achille, e Deidamia

era in due corpi un'alma;

ed or, che svelle Achille

dal coltivato seno

un fulmine improvviso, e tolto a Sciro

ad Ilion lo spinge,

or ch'egli nutre altri pensieri, avvolto

ne' maneggi dell'armi, e non vuol moglie,

da tante amare doglie

sopraffatta la giovine dolente

languì, tremò, sudò,

inferocì, girò

gli occhi insieme, e la mente,

e con sgorgata di querele atroci,

versò l'affanno, e vomitò l'ingegno.

Uscita fuor dalle paterne stanze,

per le piazze di Sciro

del suo furor intorno

fa scena lacrimevole, e funesta.

Il di lei padre intento

ad arredar l'armata,

del furor di sua figlia

non ebbe, al creder mio, contezza ancora.

DIOMEDE

E voi, ditemi, e voi

servi senza pietà, privi d'affetto;

perché non l'arrestaste?

EUNUCO

Anco non sai l'offesa,

ch'a Venere si fa, quand'altri tenta

di manometter chi d'amor folleggia,

ch'il malor se gli attacca?

L'aver pietà delle sciocchezze altrui

non voglio che mi costi oggi quel poco

di cervel, ch'io mi trovo.

DIOMEDE

Non è malor, ch'infetti il mal del pazzo,

Amor pietoso almeno,

se saggia me l'ha tolta,

me la conceda stolta:

che stringendola al seno,

o ch'io la sanerei,

o seco impazzirei.

EUNUCO

Ed ecco appunto a noi

la baccante novella?

EUNUCO E DIOMEDE

A noi la pazza, a noi,

la pazza, affé, la pazza.

Scena undicesima

Deidamia, Eunuco, Diomede, coro d'Isolani e Nutrice.

DEIDAMIA

Guerrieri, all'armi, all'armi;

all'armi, dico, all'armi.

Ove stolti fuggite?

EUNUCO

Io ben fuggir volea: ma tu più snello

il piede hai del cervello.

DEIDAMIA

La fiera d'Erimanto,

l'erinne Acarontea,

il piton di Tessaglia,

la vipera Lernea,

ci sfidano a battaglia.

CORO

Bellicosa pazzia.

DEIDAMIA

Mugge il toro di Pindo,

rugge il Nemeo leone,

udite, udite Cerbero, che latra.

EUNUCO

Io temo anco a mirarla.

DEIDAMIA

Volete, che v'insegni,

ingegnosi discepoli di Marte,

a brandir l'asta, a maneggiar lo scudo?

A ferir, a vibrar, di punta, in giro,

di dritto, e di rovescio,

questa fulminea spada?

A farsi piazza, e strada

sovra i corpi nemici? Ecco un fendente

come in testa si dona.

CORO

Lontano, ah, più lontano:

ch'ove è legger l'ingegno,

è pesante la mano.

DIOMEDE

Specie non è più ria

degli stolti maneschi;

e col pazzo, che dà, savio non treschi.

DEIDAMIA

Su stringete le file,

formate lo squadrone,

abbassate le picche.

Soldato dormiglione,

camerata d'Achille,

destati, ch'il nemico

di qui poco è lontano.

Armi, armi, armi alla mano.

EUNUCO

Mi finsi addormentato:

ma contro un pazzo desto

poco val finto sonno;

che se vegli, o se dormi, ei t'è molesto.

DEIDAMIA

Fermate, olà, fermate,

oh dio, silenzio, oh dio,

tacete, omai, tacete,

chetatevi, chetatevi, che chiede

il traditor perdono

della schernita fede.

Elena bella io sono,

tu Paride troiano,

su rapiscimi, su, ladro melenso,

stendi, stendi la mano.

Ti picchi? Ti rannicchi? T'incrocicchi?

Giacer io volea teco,

e lasciar il mio Giove,

ch'ogni notte sta meco;

ma stanco del lunghissimo cammino,

ch'ei fa dal ciel in terra,

mi riesce sovente il gran tonante

un sonnacchioso amante.

DIOMEDE

Ah, donne, donne,

dove vi va la mente?

CORO

Che miscuglio d'amori?

Che grottesche di gente?

DEIDAMIA

Deh dimmi, dimmi il vero,

se lo dicesti mai,

che fissa pecoraggine ti assale?

Di che ti meravigli?

Cutrettola, fringuello, oca, frusone,

barbagianni, babbusso:

non so, per quale influsso,

ne' miei segreti amori,

urto ogn'ora in soggetti

più stolidi, e peggiori?

Non si può più parlare,

ognun, a quel ch'io sento,

oggi mi vuol glossare,

mi vuol fare il commento.

A stride, quiete, dunque,

ad intendersi a cenni,

alla muta, alla muta,

pronta man, occhio presto,

quel che diria la lingua, esprima il gesto.

EUNUCO

Fra tanti linguacciuti,

saremo amanti muti?

DIOMEDE

No per certo, che troppo

il silenzio fa male

a canoro animale.

DEIDAMIA

Canta tu, dunque, canta,

ch'io ti presto l'orecchio.

EUNUCO

Non posso senza musici istromenti

accompagnar la parte.

DEIDAMIA

In questo, amante mio,

non posso aiuto darte.

DIOMEDE

Non senti anco, non senti

que' cembali lontani

alla canzon chiamarte.

Se de' padroni insani

non servi alle richieste,

paventa almen le mani

che l'hanno i pazzi risolute, e preste.

EUNUCO

Serva, serva chi vuole,

ch'io non ho voglie ignobili, ed ancelle:

fuggono infin le stelle

per non servire il sole.

O che gentil sollazzo

aver poco salario, e 'l padron pazzo.

DEIDAMIA

Segui.

EUNUCO

Non è più lunga.

DEIDAMIA

Inutil tronco umano

disutil manigoldo, ancora vuoi,

per far le tue vendette,

castrar le canzonette?

CORO

Eccoti l'altra appresso: e che fia mai

non sarem dunque buoni

a dar delle canzoni? Ah fusser tutte

le donne del tuo senso, e del tuo senno.

DIOMEDE

Il diletto è qui tutto

al canzonar rivolto:

d'un secolo cantante

è forza secondare

il lieto umor peccante.

CORO

Nella musica del mondo

mala cosa è fare il basso.

Che s'io salto, o vo di passo

mi ritrovo ogn'ora in fondo,

sopportar, oh dio, non posso,

ch'ognun mi faccia il contrappunto addosso.

Sembro un Tantalo d'inferno,

quando calò al Gammautte,

che rimango a labbra asciutte

di fortuna un scherzo eterno:

ma, s'intender mi volete,

ci vuol altro, che acqua, alla mia sete.

DEIDAMIA

Musico terremoto,

il tuo pensier mi piace,

e credo che tu sia

più di Bacco devoto

che di Febo seguace.

CORO

Quelle poma acerbe, e dure,

pazza mia, che tieni in seno,

mi sarien in parte almeno

refrigerio a tante arsure:

che s'in ciel sì bello io salto,

cangio il basso infernal tutto in contralto.

DEIDAMIA

Aita, aita, aita.

DIOMEDE

Oh dio, che sarà mai?

CORO

Dove ti duole, ah dove?

DEIDAMIA

Ohimè quest'onda, ohimè

è l'ultima per me.

Dunque pietade in voi non ha più luogo?

Non vedete, ch'affogo?

EUNUCO

E non ti bagni pure.

DEIDAMIA

Ah so ben io

qual di racchiuso pianto al mesto core

fa lago il mio dolore.

Verga tiranna ignobile

recide alti papaveri;

per questo io resto immobile,

fra voi sozzi cadaveri.

Il foco merto, ardetemi:

il sepolcro apprestatemi

donne care, piangetemi;

pace all'alma pregatemi.

EUNUCO

Or la stagion sarebbe

di stringerla, che sembra

fuor di sé stessa uscita.

DIOMEDE

Ch'io leghi quelle mani,

che mi legaro il core,

non lo consente amore.

EUNUCO

Ahi troppo ti dimostri,

coraggioso guerrier, timido amante.

NUTRICE

Imparate, imparate,

o donne, amor a pregar,

ch'in dolce nodo a legar

vi venga con chi bramate.

Alle credule amatrici,

per malvagio lor destin,

queste fasce dare al fin

son forzate le nutrici.

EUNUCO

Ma la nutrice io veggo

che furtiva se n' viene

per annodar la stolta

un gran numero seco ha di catene.

DIOMEDE

Il bisogno è qui grande.

DEIDAMIA

Son forzata, o vicini,

il mio onor è perduto;

aiuto, amici, aiuto,

così, così, così, di qua, di là,

amoretti cortesi, avanti avanti,

zeffiretti volanti.

Vittoria, amor, vittoria,

palme, allori, trofei,

grazie, onori agli dèi:

date, date, voi segno

della nostra allegrezza;

il piè segua l'ingegno,

e con festosa usanza

pesti i visi la mano,

e 'l piè triti la danza.

Dopo che gli Scemi hanno alquanto danzato, Deidamia così gl'interrompe:

Fermate, omai, fermate,

rapidi miei corsieri, il nobil trotto:

alle corde, alle corde:

no, no, non paventate:

alle corde, alle corde,

cromatiche, o diatoniche;

fate, ch'io vegga, fate,

s'i piedi avete, o più le mani armoniche.

Coro di pazzerelli Buffoni di corte.

I

Senza legge, senza metro

cieca voglia

a fanciul cieco va dietro.

Un desir pazzo m'invoglia

a seguir beltà crudele:

ad un incostante io son fedele.

II

Pazzo è il piè, ch'un pazzo segue,

pazzo duolo

non ha mai paci, né tregue.

Amor pazzo non è solo,

che con mille suoi seguaci

importuno a turbar vien le mie paci.

III

Pazzo core ha pazzo piede,

che leggero

quinci, e quindi errar si deve.

Pur ch'io resti un pazzo vero,

voli il piè, la gamba ondeggi,

e di un pazzo brillar l'alma festeggi.

IV

Pazzo suono, e questa accanto

pazza danza

accompagni il pazzo canto.

Pazzo ballo ha pazza usanza,

e noi pazzi, e saltellanti

per un pazzo desir siam pazzi amanti.

V

È più pazzo chi ci mira

chi c'ascolta

più di noi folle s'aggira.

Del cervel, che non si volta,

il più pazzo che si trova,

gran pazzo è chi non ha materia nova.

Catastrofè

ovvero azione terza.

Scena prima

Nutrice, Eunuco.

NUTRICE

Or va', saggio signore,

e la tua nobil corte

brama di pazzi piena.

Questi giullari scemi

buffoneggiano, e spesso

danno un malvagio eccesso.

EUNUCO

Che furie, e che demoni?

NUTRICE

Io mi credea tutto l'inferno addosso.

O come prestamente i pazzi uniti,

senza altre sottilissime dispute,

son l'ingiurie credute,

a vendicar usciti.

EUNUCO

Piace al mio re la loro

semplicità ridente.

Oh dio, quanto quell'oro

meglio s'impiegherebbe

in dotta alimentar arida gente.

Quest'isola di Sciro

d'uno scorpione ha forma,

ond'io misero fo le chiome bianche

d'un scorpion fra le branche.

Ma chi Sciro ti disse,

Iro dirti dovea,

isola d'erme arene, e nudi scogli,

cotanta in te mendicità raccogli.

E dal porto non riede

il genitor all'esecrabil nuova?

NUTRICE

Non può tardar ei molto.

EUNUCO

Or eccola di nuovo. Oh ben son io

di pazza inferocita

oggi la calamita.

Scena seconda

Deidamia, Nutrice, Eunuco.

DEIDAMIA

Non paventate, no, timidi agnelli,

che guerra io non v'apporto.

Sdegnan l'aquile altere

d'inimicizia avere

con animali imbelli:

sol voglio Achille, o mio prigione, o morto.

NUTRICE

Non partiamo, deh no, che sembra alquanto

più mansueta in volto.

DEIDAMIA

Che melodie son queste?

Ditemi? Che novissimi teatri,

che numerose scene

s'apparecchiano in Sciro?

Voglio esser ancor'io

del faticare a parte;

ch'a me non manca l'arte, ad un sol fischio

di cento variar scenici aspetti,

finger mari, erger monti, e mostre belle

far di cieli, e di stelle:

d'aprir l'inferno, e nel tartareo lito

formar Stige, e Cocito.

EUNUCO

Un facile passaggio

è da finte follie

a veraci pazzie.

DEIDAMIA

Oggi, che dalle stelle,

per tante opere ornar illustri, e nove,

l'architettura piove,

anch'io spiegar vorrei

macchine eccelse, e belle

da far romper il collo a cento orfei.

NUTRICE

Versi, macchine, e canto

son atti a render pazze

le più sagge sibille; e se v'aggiungi

un amoroso affetto,

meraviglia non è, se da costei

partito è l'intelletto.

DEIDAMIA

Alla prova, alla prova:

applicatemi l'ali,

strette, strette annodatele, ch'io voglio

con feroce ardimento

varcar le vie del vento.

Scena terza

Licomede, Deidamia, Nutrice.

LICOMEDE

Cingetela d'intorno

o miei fidi, e negate

il fuggire a costei.

DEIDAMIA

Alla caccia, alla caccia, al monte, al bosco,

Atheon, Atheon

la lepre se ne va:

e non sarai tu buon,

in questi orror sacrati,

con que' tuo' piedi alati

a dar de' calci all'altrui crudeltà?

Guarda come si fa.

LICOMEDE

Ai lacci, presto ai lacci.

NUTRICE

Non è pazza, che scherzi.

LICOMEDE

Annodatela stretta.

DEIDAMIA

Usa la forza

contro le frigie schiere,

spietato, e non volere

incrudelir contro innocente figlia.

NUTRICE

Padre lo riconosce,

ha lucidi intervalli.

DEIDAMIA

Invece d'erbe, e fiori, oggi mi dà

e stecchi, e spine, e lappole

vostra paternità?

Che padri ingannatori,

pieni d'insidie e trappole,

vivono in questa età?

LICOMEDE

Che voci, ohimè, son queste?

Che spoglie, che divise?

Chi t'ha così travolta,

ingegnosa donzella?

DEIDAMIA

Donzella? Ogn'altra cosa:

la stagione è passata:

chiedilo alla Nutrice,

che degli amori miei

fu ministra felice.

NUTRICE

Io? Dove? Quando? Come? O cieli, o Giove.

LICOMEDE

Non senti, che costei

follemente ragiona?

DEIDAMIA

Vuoi la rea castigar, scioglimi, e lega

in mia vece colei,

che questi lacci miei

meglio se le convengono, e, se forse

si riguardasse al merto;

tu non ne andresti senza

genitore inesperto.

LICOMEDE

Al pazzo, ed all'amante,

tutto se gli concede,

e nulla se gli crede.

DEIDAMIA

Sentimi, sordo padre, io per tua colpa

d'Achille mascherato

entro a donnesche spoglie,

io fui, dillo Nutrice, io fui la moglie.

NUTRICE

Senti quanto folleggia, e quanto mente.

DEIDAMIA

E moglie e fecondata

di maschia prole.

LICOMEDE

Al cielo

piacesse.

DEIDAMIA

Egli è piaciuto.

LICOMEDE

Piacesse, che tu degna

fussi d'un tal consorte. Un re sì grande

un germoglio del cielo,

un nipote di Giove

merta una dèa celeste.

DEIDAMIA

Io fui la dèa, ch'amore

fe' degna d'un Achille.

LICOMEDE

Pazzerella tu sogni

divinità, marito

non dovuto al tuo stato:

vergognati d'averlo

col pensier desiato.

Non sai, che non agguaglia

una capra di Sciro

un corsier di Tessaglia.

DEIDAMIA

Io mi pregio d'avere

questo corsier domato.

LICOMEDE

Ah fosse vero.

DEIDAMIA

Ah dunque tu me 'l concedi.

LICOMEDE

A piene mani.

DEIDAMIA

Achille, Achille è mio.

LICOMEDE

O cara nova.

DEIDAMIA

Nova? O che nova curiosa è giunta,

che le rose, e le stelle

sono alle pugnalate.

E sai per qual cagione?

Sol per contese nate

di chi venga più spesso,

o le stelle o le rose

in bocca de' poeti:

ma tu, per grazia, taci

questi avvisi segreti.

LICOMEDE

Pazza non mi rassembri alle dimande

in desiar Achille

mostri prudenza grande,

ma sdruccioli: e di nuove,

sei la mal avvisata:

ond'io son pazzo a duellar più teco.

Voi tra le pompe di quegli orti ameni

conducete la misera, che forse

in questi dì sereni

dell'anno rinascente

tranquillerà la mente.

Scena quarta

Caronte, e Tetide.

CARONTE

Se ben han volti angelici, e divini,

braman le belle ancor d'esser più belle.

Stancano il sol per indorarsi i crini,

tingonsi il labbro, illustransi la pelle:

rompon de' morti gli orridi confini,

per dispogliar queste cervici, e quelle.

Conciatura ridicola, e funesta;

portan di chiome un cimitero in testa.

TETIDE

Tu canti della moglie i lievi errori,

gondolier di Cocito,

e non quei del marito.

CARONTE

Che fai fra questi orrori,

o bella di Nereo timida figlia?

Qual pensier ti consiglia

a varcar di Acheronte i negri umori?

TETIDE

Cerco soccorso nuovo

contro l'ire del cielo;

voglio richieder Pluto

del suo cortese aiuto.

CARONTE

Gli eterni alti decreti

non può del fato intorbidar Plutone:

armati di ragione:

oprasti omai quanto d'oprar conviene

al gran materno affetto.

Io so, che in questa mia lacera barca

le forti membra ignude

dell'infante diletto

nella stigia palude

tuffasti, e rituffasti,

e non ti par, che basti

da qualunque gli sia strale avventato

a renderlo guardato?

Femmina incontentabile vo' dirti,

se dagli inferni spirti

dopo tanti sicuri

nuovo aiuto procuri.

TETIDE

Caronte; io gli son madre,

dalle voci atterrita

degli oracoli santi.

CARONTE

Riedi, riedi, alla luce,

e lascia che sia duce

omai del greco stuolo

il tuo nobil figliuolo.

Veggo Apolline stesso

temer la di lui destra:

e presto attendo all'infernal traghetto

Mennone, Ettore, e mille

uccisi eroi dal tuo fatato Achille.

TETIDE

Gradisco il tuo ricordo:

mortale il generai,

il consacro alla patria, il dono a' Greci:

ricevo il tuo consiglio

non vo' più che m'affanni

soverchio amor di figlio.

Resti libera, o Tetide,

da gravissimo tedio;

ch'a danno inevitabile

di fato inesorabile

è molto meglio il non cercar rimedio.

Non puoi, figlia di Nereo,

col tuo destin contendere.

Non trova il fato ostacoli,

né stuzzichi gli oracoli,

chi non vuol del suo mal novelle intendere.

I servi accorti, e docili

che d'onor si dilettano

da color, che comandano,

il bene, e 'l mal, che mandano,

con fronte ugual tranquillamente accettano.

Scena quinta

Ulisse, ed Eunuco.

ULISSE

Per ritardar l'imbarco,

potea venir il caso

d'intoppi oggi più carco?

Far pazza divenir donna sì saggia,

per inchiodar di Sciro

le navi in questa spiaggia?

Io veggo il caso ognor

d'impensati accidenti

esser novello autor,

ad onta sol delle sapute genti.

Non val l'antiveder,

che 'l caso ha miglior occhi

dell'umano saper,

e la buona fortuna ama i più sciocchi.

Creder non voglio già,

ch'il caso a caso sia,

alcun gli sovrasta,

ch'a noi le dette, e le disdette invia.

Ond'oggi mi dorrò

di voi numi divini,

se vagabondo io sto,

del mar invece, a passeggiar giardini.

Chi muove, e ferma il piè

a stelle erranti, e fisse,

egli sol può, di re

cangiar in ortolano, anco un Ulisse.

Ma dove in tanta fretta?

EUNUCO

Il re m'invia

a ritrovar elleboro, che presto

risani ogni pazzia.

Conosci tu la pianta?

La provasti tu mai?

ULISSE

Eccola appunto.

EUNUCO

Gradita brevità,

ma non vuol Licomede

incrudelir nella diletta figlia.

ULISSE

Il medico reale

quell'archiatro barbuto,

che propone, o consiglia?

EUNUCO

Il medico di corte,

quell'ingordo animale

per uccider gl'infermi ha, credo, un fermo

salario dalla morte. Egli propone

questi ellebori, e questi

inchiostri micidiali.

ULISSE

Delle femmine ai mali

un medico garzone

ha rimedi più lieti.

EUNUCO

Io non son buono

a ricordarlo al padre.

Ma s'altri, che m'ascolta,

in sé sperimentato,

o ne' congiunti suoi

avesse alcun segreto

di sanar la pazzia,

l'impresti a Deidamia.

Scena sesta

Deidamia, Achille, coro d'Isolani, Diomede.

DEIDAMIA

Come riveda Achille

quest'occhio innamorato,

molto gli sia più grato,

ch'in verdeggiante suolo aria di ville.

ACHILLE

0 dio, che veggio, o dio,

legate quelle mani,

che son degne di scettro?

Masnadieri inumani,

scioglietele quei lacci.

CORO

Gli ha comandati il padre:

tu gli sarai nemico.

ACHILLE

Scioglietegli, vi dico.

CORO

Che non divenga reo, fiero garzone,

d'offesa maestà?

ACHILLE

Anzi sarò campione

d'un'offesa beltà.

CORO

Guardati dall'indomito furore,

che la pazza in libertà,

senza punto di timore,

ove può, s'avventa, e dà.

DEIDAMIA

Concedetemi alquanto, or ch'io son sciolta,

amici di riposo;

in questo prato erboso

fresco, limpido rio m'invita al sonno:

e mentre ei saltellante

lambe i fior, bacia l'erbe, e morde il suolo,

sovra un guancial di mirto,

tacita cado, a licenziar il duolo.

DIOMEDE

Tanto oggi la dolente

corse, girò ch'alfine

vinta dalla stanchezza,

depose la fierezza.

ACHILLE

Saggio è stato sinora

il discorso di lei:

all'apparenza prima

per pazza io non l'avrei.

DIOMEDE

Ha la memoria offesa,

la fantasia turbata,

non ti conobbe ancora

la stolta imperversata.

CORO

Senti, deh senti, quale

in alitando forma

strepito roncheggiante, anco si deve

temer pazzo, che dorma.

ACHILLE

Lasciate, che riposi

colei, per cui travaglio.

Che spesso un sonno grato

gran male ha discacciato.

DEIDAMIA

Achille, dove te n' fuggi?

DIOMEDE

Senti, com'ella sogna, e sogna, e pensa

alla partenza tua dormendo ancora.

DEIDAMIA

Tu non rispondi Achille?

ACHILLE

Sento a pietà destarmi.

DEIDAMIA

0 somma crudeltà.

ACHILLE

M'udisse almeno.

DEIDAMIA

Io t'odo.

ACHILLE

Se tu m'udissi, io ti direi, che mentre

libero mi vid'io da' lacci indegni

della femminea gonna

Achille, e non più donna,

andai col piede, e col pensier vagando,

ove d'armi, e battaglie

natio pensier mi sprona.

Perdona tu, perdona

all'impeto guerriero,

che mi fece obliar, per breve istante,

il debito d'amante.

DIOMEDE

Or si dorme davvero, e non ti presta

ella udienza alcuna.

ACHILLE

M'ode il ciel se non m'ode

la mia stella, ch'io miro

sì mesta, e nubilosa. Amor m'intende,

e speranza mi porge,

e perdon mi promette. Occhi sinora

foste d'arida pomice, e superbi

non piangeste pur anco; ahi troppo duro

principio date a distemprarvi in pianto,

ma d'un Achille forse

avran forza maggiore

le lagrime, che l'ira,

perché si renda il senno,

a chi per lui delira.

DEIDAMIA

Tu piangi, e m'abbandoni.

ACHILLE

Ovunque io vada, o resti,

servo m'avrai fedele,

e s'il perduto ingegno

errasse a caso al tuo bel corpo intorno

per far in lui ritorno,

a lui parlo, a lui giuro

nuova fé, nuovo laccio, e nuovo ardore.

DEIDAMIA

Parla pietà.

ACHILLE

Ciò che le detta amore.

Ti giuro quel...

DEIDAMIA

Che spergiurato hai prima.

ACHILLE

Credo, ch'ella m'intenda; e 'l sonno finga.

DIOMEDE

Ma la pazzia non finge.

CORO

E se la finge

sa simularla al vivo.

ACHILLE

E qual medica mano

rendere mai ti potrebbe

il perduto discorso?

DEIDAMIA

La man sola d'Achille.

ACHILLE

Eccola pronta.

DEIDAMIA

Caro pegno di fede,

fido albergo d'amore,

io ti ristringo pure, e pur son desta;

sì, sì che non ho pazzo

che d'allegrezza il core.

ACHILLE

Tu dunque non vaneggi?

DEIDAMIA

Io sol vaneggio

quando di me ti scordi: or, che pietoso

mi ti dimostri, l'intelletto ho sano,

mercé della tua mano.

Il sonno finsi, e simulai stoltezza,

per renderti a pietà de' miei tormenti.

ACHILLE

Senti, Diomede, senti,

a che prezzo mi compra, e suo mi rende.

DIOMEDE

Ben il mio cor l'intende.

DEIDAMIA, ACHILLE E DIOMEDE

O meraviglie, o cieli: e questa volta

tanto saper avete

infuso in una stolta?

CORO

O prudenti bugie;

mancavan queste tresche,

all'astuzie donnesche,

di simular pazzie.

Già già veggo di voi donne, più d'una

cornacchietta vogliosa,

rubar questa invenzion con lode molta

di fingersi la stolta.

Che quel pazzo non essere, e parere,

è un accorto godere.

Scena settima

Diomede, Minerva.

DIOMEDE

Nell'isola di Sciro

ogni cosa mi sembra

cangiato aver natura. Insin le pietre

nuotano intere, e grandi,

e s'affondan poi trite, e minute:

le fanciulle impazziscono, e ritrovano

nel folleggiar salute.

Se questa bella amai,

con maritaggio ossequioso, e vero

d'affetto, e di ragione,

non fu barbaro amor, amor fu greco:

che quel bello adorai,

che la virtude ha seco.

Se ad un altro si sposa

l'amata donna, non mi dolgo, e credo

che mio non sia quel bene,

che dal ciel non mi viene.

MINERVA

Ben di poco t'appaghi,

schernito amante, e pretensor deluso.

DIOMEDE

Questo d'amor è l'uso,

ad un mostra le prede,

e all'altro le concede.

MINERVA

Odimi.

DIOMEDE

O fida scorta.

MINERVA

Odimi. È la vendetta

il sommo de' piaceri:

né te ne priva il cielo,

ma ti concede il fato,

che la tua destra invitta un dì colpire

fra le troiane squadre,

possa d'amor la madre.

Non puoi punir amor, potrai del sangue

tingerti di ciprigna, o mio bel fiore,

di quella dèa maligna

ch'omai volò sulle nemiche tende:

empio non è chi gli spietati offende.

DIOMEDE

Per onor della patria il ferro io cingo

saran di Diomede ognor nemici

i nemici di lei,

sieno mortali, o dèi.

Scena ottava

Licomede, Ulisse, Achille, Deidamia, Nutrice con Pirro, coro di Isolani.

LICOMEDE

La soverchia allegrezza

ogni colpa cancella

ogni offesa disprezza; il fallo è merto,

e l'ingiuria non è più quella.

Non si rimiri al modo,

pur che ne segua un desiato effetto.

Disavventure grate,

disgrazie fortunate.

Oggi trovaste voi, prudenti amici,

il mascherato Achille,

ed io conobbi dopo

finte stoltezze ignote,

il genero e 'l nipote.

ULISSE

Fallo non è di donna

bramar consorte un nerboruto Achille

l'amerebbero mille:

fallo sarebbe stato

non aver Deidamia Achille amato.

ACHILLE

O mia regina, e sposa,

gran tesoro di Sciro,

io t'adoro, e t'ammiro,

non resti più sì bella gemma ascosa.

T'amerò, se t'amai,

negl'amori, e nell'armi, in guerra, e in pace

e consorte, e seguace.

DEIDAMIA

Ho pur acquisto fatto

di quell'eroe sublime

di quel, che pregierebbonsi d'avere

talvolta in lor potere,

anco le dive prime.

LICOMEDE

Di prudenza mortai fallace è il raggio,

quanto più pazzo è amor, tanto è più saggio.

NUTRICE

Vieni, vieni, ah vieni fuori:

a conoscer, o vezzoso,

incomincia i genitori,

troppo, oh dio, vivesti ascoso.

DEIDAMIA

O soave, o fido pegno

porgi un bacio all'avo degno.

LICOMEDE

Occhi al ben, che voi mirate,

per dolcezze lagrimate.

ULISSE

Ne' begli occhi è tutto il padre,

e madreggia nella bocca.

NUTRICE

Corri in sen, corri alla madre,

o mia gioia, o mio contento

dopo un fiero avvenimento

miglior sorte oggi ti tocca.

CORO

Deh, vedetene le prove,

se d'Achille egli è figliuolo,

se nipote egli è di Giove,

benché d'armi il rumor senta,

ei non piange, e non paventa.

ULISSE

Ma fra tante dolcezze

non ci scordiam l'imbarco.

LICOMEDE

A Troia, amici, a Troia,

non più dimore, agli apprestati legni,

ospiti, figlia, genero, e nipote,

guerrieri è questo della gloria il varco,

all'imbarco, all'imbarco.

DEIDAMIA

Questi lacci al sacrato

altar di Cinzia io lascio

queste ambite catene,

trofei della mia fede,

di Cinzia al simulacro,

riverente io consacro.

CORO

Viva tra' Greci ognora,

la vittoria, e la gioia;

a Troia tutti a Troia,

mora Paride, mora.

Scena nona

Coro di tre Menti celesti.

CORO

Fortunate catene,

ch'annodaste laggiù membra sì belle,

a voi ben si conviene,

ornamento di stelle.

Che di stoltezza, e di prudenza un misto

può far del cielo acquisto.

IIº

Avventurati lacci, a sé v'invita

celeste calamita.

IIIº

Ecco all'amata pietra

ch'il vostro ferro si marita, e sale

a circondar quest'etra.

Cerchiaste dèa mortale,

zone del ciel sarete,

in ciel voi splenderete,

acciò di Deidamia,

l'amorosa stoltezza, e 'l furor degno,

eterno esempio sia

al femminile ingegno.

MENTI CELESTI

Fortunate catene,

ornamento di stelle,

a voi ben si conviene,

fortunate catene.

Fine del libretto.

Generazione pagina: 14/01/2016
Pagina: ridotto, rid
Versione H: 3.00.40 (W)

Locandina Prologo Scena unica Variante del prologo (1645) Protesi Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Epitasi Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Catastrofè Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona