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I

Deità di quest'acque

nel cui sen Venere nacque:

udite Amore

che per domar una beltà superba

che il suo gran nume offese

oggi s'accinge a memorande imprese.

II

La regina di Egitto,

che sprezzò mio dardo invitto,

impari, che amore

dà legge al mondo e all'universo impera,

e tra pianti, e sospiri

bersaglio di miei strali arda, e sospiri.

Questo strale

immortale

guerreggi, trionfi in questo dì.

Ferisca.

Colpisca

quell'alma fiera, che tanto ardì.

Io del protervo core

alle vittorie intento

lascio il polo,

e al par del vento

al regno de' mortali abbasso il volo;

ecco in terra

donne belle

un che guerra

fa alle stelle.

Ma de' vostri sembianti al puro ardore

resta ammirato, e innamorato Amore.

Più degl'astri del ciel,

che scintillano sì,

i veri occhi da me, belle, si onorano:

quelli al fin non m'innamorano

ed i veri occhi sì, sì, sì...

Superbo Amore

al mondo imperi,

ma nel mio core

regnar non speri,

un nume infante

d'alma regnante

non trionferà,

miei spirti reali,

miei spirti immortali

libertà, libertà.

Un cieco, un nudo

folle tiranno!

Spietato, e crudo

pieno d'inganno.

Non mi tormenta,

non mi spaventa

con sua ferita,

miei spirti reali

miei spirti immortali

libertà, libertà.

I nodi d'Imeneo sol stringe Amore.

Io ch'amore in sen non ho,

al marito non ambisco,

e a ragion m'insuperbisco

perch'amante esser non so.

Non si può superar genio fatale.

Non temon le regine.

De le nozze mi sdegno.

Filosofo indiscreto.

Non amerò no no.

Libertà, libertà.

Hai provato assassino

la spada di Tibrino.

Tibrino, olà?

Ben ti giovò il fuggire

per sottrarti al mio sdegno, a i colpi, a l'ire.

Non odi ancor?

Chi è?

Perdonami signora,

io non ti vidi a fé

or ch'il furor mi accieca, e mi divora.

Qual novitade apporti?

Affronti, offese, e poco men che morti.

Giovinetto gentile,

ch'ha 'l sol ne' lumi,

e nelle guance aprile,

passeggero innocente,

vidi assalir poc'anzi

da traditor fellone,

da ladron insolente

restò (oh dio) restò

dal primo colpo il bel garzon ferito:

io con il brando ardito

di quel sicario indegno

al sen m'avvento, e dell'infame spada

lo ritolsi allo sdegno;

ma vedi l'infelice,

che mentre in qua ne viene

appoggiato alle braccia

d'una femmina annosa

(non so, se di lui madre, o pur compagna)

di sanguinose stille il terren bagna.

Bella pietà m'insegna

a sollevar gl'oppressi.

Il duol di voce il priva,

deh miralo signora,

e di' se così bello

in grembo a Citerea Adon languiva.

Sostienilo Tibrino:

dimmi, chi t'assalì?

Figlia del re fenice?

Entro al real palazzo

conducete il languente,

e medica virtute

ivi al trafitto sen doni salute.

Non temer languidetto,

nelle mani real sta la tua vita.

Un impero,

che mi tira

a colui, che illanguidì,

un pensiero

che s'adira

contro il reo, che lo ferì,

un affetto,

un dispetto,

ch'improvviso nasce in me,

è pietade, o che cos'è?

III

Come l'alma m'invaghì

il bell'oro d'un crin,

come un guardo divin

i miei spirti ferì,

e se dolce è il suo ferir

quant'è più dolce nel suo sen gioir.

Sorge il sol nell'alta mole,

io qui venni a riverir

nel sol del tuo bel volto un più bel sole.

Corindo io non ho vita,

amor morte mi diè,

e vuol, che viva la mia morte in te.

Mio desio.

Tutto mio.

Maledetto ritorno.

Mi ritiro alle stanze.

Fu lieve la ferita,

in salvo è la tua vita.

Palesami chi sei.

Amasti forse Arnea?

Alidoro non schiavo,

ma nella reggia mia

libero cavalier vivi, e respira.

Ch'io ben saprò dell'adirata Arnea

sottrarti all'empietade, all'onte, all'ira.

Dove vieni?

Non dée servirmi, un ch'a li scettri è nato.

Perde la maestà chi ti rimira.

Non adoran gli dèi, son adorati.

Fa' ciò che vuoi pur che da me non parta.

Vieni... resta... no, sì; oh dio son morta.

Qual nuova luce in questa reggia ammirasi,

e quai splendor di alta beltà pompeggiono?

Quai stupor quai miracoli si veggiono?

Forse un nume del ciel in terra aggirasi?

Un ferito pittor le dame onorano,

il nome di Alidoro umili adorano.

Chi m'insegna

dove egli è?

Deh chi sa

dove sta

tanta beltà?

Per pietà

lo dica a me.

Ohimè, che miro?

Io giunsi al cielo, e non me n'ero accorta.

Tosto ti condurrò dove tu chiedi,

pur che...

Oh dio...

Pur che tu...

Volessi...

Ohimè, dir non lo so.

Sentimi dunque.

Idolatra son io del tuo bel volto.

Qual idolo d'amor t'inchino, e apprezzo.

Non occorre aspirar dove s'è giunto.

Amore in un istante

mi nacque in seno, e diventò gigante.

II

Non schernisco

riverisco

le celesti deità;

s'io t'adoro

Alidoro,

il mio cor trafitto il sa.

IV

Altri rai

adorai

quando amor mi ti celò,

or ti guardo,

e tutt'ardo,

a quel sol, che m'infiammò.

Stringi pur.

Pur ti ritrovo al fine.

La regina di te con fretta chiede,

su tosto verso lei moviamo il piede.

Che balli? Che follie? Ah non m'intendi?

Nella sala vicina

ti attende la regina.

Sei fuor del senno, o fingi?

Orontea ti chiama.

O gentil consigliero:

non è, ne fa da stolto,

ma nel vino è sepolto,

non m'intendi Gelone?

Al fin in terra ei cadde;

Gelon Gelone ascoltami,

vuoi tu gire a dormire?

Che sofferenza senti?

La regina.

La regina sì.

Non parlo.

Non affé.

O pensiero leggiadro,

vieni, vieni.

Vieni a bere.

Dammi la man.

O che gusto.

A dormir a ber a ber.

Qual soave veleno,

qual incognito foco

per le vene mi scorre a poco a poco?

S'io non vedo Alidoro,

par, che manchin li spirti,

e lungi dal suo bel quasi mi moro;

s'io lo miro, respiro,

il fulgor de' suoi sguardi il cor ricrea,

e sento dirmi in tacita favella

adoralo Orontea.

Amor, ah ti conosco

dalla facella tua vien questo ardore,

so chi tu sei, t'ho conosciuto Amore,

Amore? Amore? Dunque

amo un vil peregrino,

io che dianzi sprezzai più d'un regnante,

ov'è il fasto real, ov'è il decoro?

O dio non posso più, vinta son io,

odami il mondo tutto, amo Alidoro.

Signora un forestiero audienza chiede.

Ti disse il nome?

No: mi disse solo,

ch'altra volta inchinò la tua grandezza.

Digli, che venga.

Il tuo comando adempio.

(parte)

Ogn'aspetto m'affanna, e mi sconforta,

senza Alidoro mio lassa son morta.

Eccomi a' piedi tuoi

riverita signora:

la tua schiava fedele

umile alfin s'inchina, umil t'adora.

Qual schiava? Chi sei?

Se le spoglie virili,

se le recise chiome

non ti lasciano forse

riconoscer colei,

che dal re di Cirene

già tuo nemico fu rapita in guerra,

rimira il volto mio

ti torni in mente di mia voce il suono,

la tua schiava fedel Giacinta io sono.

Giacinta, o cara, o cara;

o quanto volentieri

in Pafo or ti rivedo.

E con qual gioia, o dio

ti stringo, o mia fedel al seno mio.

Io tua serva adorante

bacio con labbro umile

il terren, che calcar le regie piante.

Non più, di tue sventure

narra l'istoria intera.

Fui fatta prigioniera

da quelli di Cirene. Al duce Evandro

fui consegnata, egli di me s'accese,

di speme io lo nutrii, ei m'adorava,

quest'affetto mi pose

in stato tal, che con leggiadro inganno

mi liberai da servitù sì dura,

e in abito guerriero

volsi al regno fenice il piè fugace;

colà creduta Ismero

m'accolse in corte la regina Arnea,

ch'alla mia fedeltade

fidò del core i più riposti arcani,

e sdegnatasi un giorno

contro un pittor, che dimorava in corte

m'impose il seguitarlo, e dargli morte;

lo seguii, l'osservai: inverso Pafo

egli se n' venne: io nel vicino bosco

con volto mascherato,

l'assalgo, lo ferisco,

ma un valletto bizzarro,

mi sopraggiunse, e all'ira mia lo tolse.

Poscia per rassegnarti

alta regina l'immortal mia fede

rivolse a questa reggia il core, e 'l piede.

Un pittor seguitasti?

E ben vezzoso.

Il suo nome?

Alidoro.

E lo feristi?

E lo ferii.

Oh scellerato.

(mette mano allo stile)

Oh dio.

Come ardisci frenar le mie vendette?

Offese la giustizia, è traditore.

Mi confessò le colpe, e il suo delitto.

Questo mi confessò, di morte è degno.

Taci, taci non più,

da me partiti tu.

Parto per obbedire,

ma se morta mi vuoi, torno a morire.

Così arrogante sei?

Chi mi pubblica amante è mentitore.

Non amo, non amai, non amerò.

Non è indegno di me chi a me par bello.

Sì ch'io l'amo, e l'adoro,

odami il mondo tutto, amo Alidoro.

Dove infelice me,

per sottrarmi allo sdegno

dell'irata Orontea rivolgo il piè?

Non ho chi mi consiglia,

e parmi ad ogni passo

inciampar nella morte, e ne' perigli.

Non ti dissi poc'anzi,

che sono infruttuosi i preghi miei;

e qual pietà da me ricerchi, e vuoi?

Ben intendo Aristea

l'occulto senso delle tue parole;

ma per condurti in porto

altra perizia, altro nocchier ci vuole:

se il mar d'amor ti turba

disperato è per noi ogni conforto,

e nel marino orgoglio,

(credimi) tutti dui daremmo in scoglio.

Inefficace, e vana

sarebbe ogni esperienza

non può far prove buone

un debole nocchier senza timone.

Il poco non appaga

un ardente desio, né men trastulla,

e so ch'il poco mio

nelle tue man diventerebbe un nulla.

Indiscreti ma veri.

T'amo e gradisco.

Piango il tuo male.

Potess'io.

La forza ch'io non ho.

Nulla poss'io.

Altro non sforzerei, che la natura.

Aristea poco accorta.

Non voglio udir tuoi guai.

Saria peggio per te,

Aristea datti pace,

né ti rassembri grave

s'io non prendo a guidare questa tua nave.

Addio naviglio ingordo.

Addio Corindo, addio, più non affisso

in te il pensier, né più per te sospiro.

Dove stassi Alidoro, un ciel rimiro.

E dove egli non è, parmi un abisso.

In questo loco attendo

il mio caro, il mio bene.

Vieni adorato mio,

giungi pietoso a consolar mie pene.

Chi mi chiama, che chiedi?

Né per pensiero.

Una nuova beltà, che mi invaghì.

Io non scherzo Corindo,

e se troppo stai qui, te n'avvedrai.

Io più non t'amo.

Un che sembrò più bello agl'occhi miei.

Taci, che per variar natura è bella.

O Corindo arrogante.

Chi te 'l contende?

In petto? Sì? Fuori.

Fuori del petto mio cor di Corindo,

ritorna al tuo signore

fuori, fuori dich'io,

sta, sta, eccolo affé,

ecco il tuo cor, prendi, siam pari, addio.

Ecco il telaro; ecco la tela.

Vivi pur per Silandra, e non per me:

ma vedila Alidor, che viene qua:

resta, e dipingi l'immortal beltà.

Eccomi vita mia,

perché da' tuoi colori

questo mio volto immortalato sia.

Immobile mi vedi.

Perché?

Eh tu mi burli o mio core.

Sia pur come vuoi tu.

Or se dir mi convien la verità

e dipinger una donna

del pittor uopo non è,

che non pria porta la gonna,

ch'ei la impara a dipingersi da sé.

Insomma oggidì,

sian belle

sian brutte

le femmine tutte

la voglion così,

perché star celata, e stretta

aborrisce per natura

ha trovato la donna una ricetta

d'esporsi almeno al pubblico in figura

or m'assalti la paura

cosa ch'esser mai non può,

se di brocco non conclude

l'argomento ch'io ne so,

dona il ritratto suo la tale al tale,

ergo dar gli vorria l'originale.

Di Campaspe vorrei

posseder le sembianze uniche, e belle

per esser degna del mio nuovo Apelle.

Se vuoi, ch'a me somigli

l'alta pittura, mostra in quei colori,

che l'artefice suo devota adori.

Vorrei...

E che vorresti? E che si vuole?

Con sì sfrenato ardire,

con sì sfacciata brama

nei real gabinetti

tratta un vil peregrino, una mia dama?

Qual pittura si forma?

Qual natura s'imita?

Ah ah, v'ho discoperti

immodesta Silandra,

temerario Alidoro:

tu sei l'original, quest'è il pittore

lascivo indegno amore,

vi contamina il cor, l'alme v'infetta.

O coppia maledetta.

Maledetto ritratto

portentosi pennelli,

mostruosi colori,

empi ministri di lasciva guerra,

già vi sbrano, vi rompo,

già vi squarcio, vi spezzo, a terra, a terra.

Tu poc'onesta amante

d'Alidoro aborrisci

le memorie, e 'l sembiante;

tu da l'alma disgombra,

di Silandra per sempre

non sol l'aspetto, ma il suo nome, e l'ombra,

e se novelle colpe

vi renderanno inobbedienti, e rei,

cadrete ambi cadrete

vittime del mio sdegno a' piedi miei.

La regina, Alidoro

tutto ciò che si fa tacita ascolta:

ti serva per avviso un'altra volta.

E che si fa?

Ove fosti sin ora?

S'obbedisce così?

Parti, fuggi di qua.

I

Intorno all'idol mio

spirate pur spirate

aure soavi, e grate,

e nelle guance elette

baciatelo per me cortesi aurette.

II

Al mio ben che riposa

su l'ali della quiete

grati sogni assistete

e 'l mio racchiuso ardore

svelategli per me, larve d'amore.

Ohimè non son più mia,

son di questo dormiente,

moro di gelosia,

ohimè non son più mia.

Adorato mio tesoro

non amar Silandra, no,

son regina e per te moro,

senza te spirti non ho.

Questo diadema d'oro,

ch'io ti poso sul crine

questo scettro real nacque per te,

tu sei l'anima mia, tu sei mio re.

Oh dio chi vide mai

più bella maestà, più bel regnante?

Divino è quel sembiante,

innamorano il ciel quei chiusi rai:

più bella maestà chi vide mai?

Ohimè non son più mia,

son di questo dormiente,

moro di gelosia,

ma nel mio cor sepolto

non vo' tener lo stral, che mi ferì;

una regina amante

non vuol penat, non vuol morir così,

leggi, leggi, o mio caro

in negre note i miei sinceri amori,

in brevi accenti immensità di ardori.

Dormi, dormi ben mio,

non mi ingelosir più, riposa, addio.

Mortali, non ridete

se amor cangiato in medico vedete.

Pudicizia, e Superbia a me nemiche

han pugnato fra loro,

ma dal superno seggio

precipitò percossa

la Pudicizia, e se n'andò col peggio.

Questo mendico nume a me rivale

vogl'ir a visitar all'ospitale,

e gli darò in un tratto

un beveron che la rovini a fatto.

Amanti non ridete

se amor cangiato in medico vedete.

I

Amor, e medicina,

medicina, e amore

con simpatia divina

dan salute alle membra, e gioia al core.

II

Se alla dottrina io dedico

mio nume potentissimo,

or ch'io son fatto medico

il titol mi si dia d'eccellentissimo.

Rigorosa Orontea

genitrice crudel del mio dolore,

mi stacca il cor dal sen, l'alma del core

Alidoro mia vita (ah fiera sorte)

tu diviso da me, per me sospiri,

ed io lungi da te, presto ho la morte;

ma vedi il vago mio:

a me già s'avvicina,

mi sveni la regina

riverir la vogl'io

sospirato Alidoro umil t'inchino.

A te mio bene...

Ferma, ascoltami ingrato.

In che ti offesi mai?

Perché dunque mi spregi?

Soccorso alle mie pene!

Ferma, ascoltami, oh dio.

La corte è sottosopra.

La cittade è in scompiglio.

I

Amore attendi a te.

Lassami star, sai, che non vo' tua pratica,

faresti impazzir me

come Orontea che diventò lunatica:

no, non so chi tu sei, non me lo scordo.

Ch'io segua amor cu, cu

qualche balordo.

Soldato son io.

La spada è il cor mio.

Picciol Marte io sono in terra.

Alla guerra, alla guerra.

Ferma il passo o Creonte.

Amor legge non ha.

O dio se tu potessi

Alidoro vedere con gl'occhi miei.

Farò forza a me stessa.

Ch'io m'uccida?

E che far deggio?

Non più al tuo consiglio

mi soscrivo, e m'appiglio.

Maledette grandezze,

ti bestemmio o politica reale

cagion d'ogni mio male;

lassa, e pur mi conviene

su base immaginata

il colosso innalzar delle mie pene?

Non vi smarrite, o spirti,

dimmi: dell'amor mio chi t'assicura?

Perché la lacerasti?

Così mi fu detto.

Dunque ancor la conservi?

Dove, dov'è?

Temerario arrogante

tu re, tu mio consorte ancor non sai

che per troppo innalzarsi Icaro cadde

e che d'un vano ardir premio è la morte?

Vilissimo vagante

nel mar d'eterno oblio

spegni il foco mal nato

e dall'aspetto mio

in cui l'istessa maestà s'adorna,

ti dilegua per sempre, e più non torna.

(straccia la carta in minuti pezzi, e parte)

A me?

Indietro o temerario

temerario superbo, e arrogante.

E se servir mi vuoi

servimi come vil non come amante.

Ancor mi tenti?

Io non so, chi mi tiene.

Flemma, flemma, pian piano

men rabbia, e men furore

signor ammazzatore,

son qui per Alidoro, e chi presume

oltraggiarlo, affrontarlo, e sia chi vuole

rivolga a me la spada, e le parole.

Io ben udii.

Adagio, adagio,

minacciasti Alidoro io ben t'intesi,

e per lui me n'offesi.

Voglio saper l'intero,

e se mi lasci in fallo una parola

ti vo' scannar, ti vo' segar la gola.

Di' tosto.

Dunque Corindo vuole...

Così giurò.

Io? Io? Ohibò guardami il cielo:

codardo impertinente

temerario imbriaco, se mai più

d'Alidoro ragioni

se pur lo guardi, o tocchi

giuro sbranarti il cor, cavarti gli occhi.

Infelice cor mio.

Ora, che d'Alidoro

il costume osservai, vidi il sembiante

son di sicario, divenuta amante.

Vorrei scoprirmi, o dio

ma l'anima macchiata

dall'indegno delitto

le voci affrena, e nelle fibre immonde.

Mi sequestra gl'affetti, ed il desio

infelice cor mio.

Son disperato.

Ogni più rio dolore

mi contamina il core.

L'impossibil tenti o Aristea.

Oro non ho, amor sperar non devo.

Aristea tu mi burli.

In fin che vuoi da me?

Quanto ti posso dar, io ti prometto...

Così ti giuro...

Troppo è grande il tuo dono.

Ma se lo prendo, che vorrai da me?

Se altro non vuoi te ne darò ben cento.

Io parto, ove comandi: ai baci intanto

e le guance, e i labbri m'apparecchia

pur mi sbrigai da questa insana vecchia.

Nel real gabinetto

signor trovai per te questo biglietto.

In risentito stile

leggerà ch'Alidoro

ha generoso il cor, l'alma gentile.

Pietosissimo dono

ma degli ardori miei

non averai pietatde anima mia?

Perché tu veda

che ben, che schiava, generosa io sono,

senti: la madre tua

che maschio mi credé, di me s'accese,

e pensando da me comprar gl'affetti

donommi questo impronto

tutto recinto di diamanti eletti;

io con giusto consiglio

se la madre me 'l diè, lo rendo al figlio.

In che t'offese?

E ben?

Alidoro è plebeo? E chi te 'l disse?

Non più, io d'Alidoro

il nome renderò illustre, e chiaro:

cavaliero lo pubblico, e dichiaro.

Chi? Chi fu ladro? Chi?

La tua real medaglia

Alidoro possiede, ei la rapì.

E come ciò sapesti?

Alidoro dov'è?

Da' tuoi soldati vien condotto a te:

signora s'egli è reo

del rapito tesoro

fa' pur che muora appeso a un laccio d'oro;

ma se 'l trovi innocente

assolvilo clemente, e fa' che sia

punito il rio Gelon infame spia.

Se gli tragga dal sen quella medaglia.

È dessa, è dessa

dimmi come possiedi

quell'impronto reale?

Confermo i detti suoi: ei disse il vero.

E tu come l'avesti?

La sua madre Aristea me 'l diede in dono...

Aristea venga a me.

Non più; rispondi a me,

che donasti ad Ismero?

La riconosceresti?

Mira s'è questa?

Come in man ti pervenne?

Vanne,

vedi s'entro al mio stipo

trovi simil medaglia, e a me la porta.

E come l'ebbe Ipparco?

Narrami il tutto.

Ecco l'altra medaglia, ecco la chiave.

Innocente è Alidoro.

E che t'affanna?

Ciò pur m'è noto.

E ben?

Il tutto è ver.

Disciolgasi

dai lacci indegni

la destra nobile

nata per sostener, e scettri, e regni.

Innocente mio tesoro

rasserena il tuo bel volto,

se legato fu Alidoro

Floridan resta disciolto.

Silandra, di Corindo io ti fo moglie.

Corindo a te mi dono.

Così dall'alma mia

parta la gelosia.

Tu re.

Tu re.

Non erra

un'anima imperante,

un pittore adorai, ch'era un regnante

Floridano mio bene

gl'eccelsi tuoi natali

son delle gioie mie

paraninfi fatali;

con amoroso invito

ti supplico in marito.

Fuggite tormenti.

Sparite lamenti.