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Il Paride

IL PARIDE

Opera musicale.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto e musica di Giovanni Andrea Angelini BONTEMPI.
Prima esecuzione: 3 gennaio 1662, Dresda.


Personaggi:

DISCORDIA

soprano

GIOVE

basso

APOLLO

baritono

MERCURIO

tenore

GIUNONE

soprano

PALLADE

soprano

VENERE

soprano

SILVIO pastore

tenore

LUCANO pastore

tenore

EURILLA ninfa

soprano

ENONE

soprano

PARIDE

tenore

LIPPO pastore

tenore

CERISPO fanciullo cacciatore

tenore

NINFEO fanciullo cacciatore

tenore

CORIMBO fanciullo cacciatore

tenore

MELINDO cacciatore

tenore

ELENA

soprano

ARGENIA damigella di corte

soprano

LUPINO staffiero di corte

contralto

ANCROCCO spazzatore di corte

soprano

DRASPO giardiniero di corte

tenore

AMORE

soprano

ORONTE messaggero di Paride

tenore

ERGAURO servo di Medoro

tenore

MEDORO precettore

sconosciuto

IRSENO paggio

tenore

ERMILLO paggio

tenore

PRIAMO

basso

ECUBA

contralto

FILINDA

soprano


Cori
di Dèi più inferiori, d'Amori, di Damigelle, di Troiani, di Greci,
di Alabardieri, di Principi, di Principesse.

Atto primo:
il giardino d'Hesperia, e la sommità del monte Pelio.

Atto secondo:
il monte Ida.

Atto terzo:
il monte Ida.

Atto quarto:
il lito e la reggia di Sparta, l'isola di Citera col tempio di Venere.

Atto quinto:
la campagna e la reggia di Troia.


Serenissime altezze

Nacque il mio Paride, accompagnato da quell'ombre d'imperizia, che per esser individuali del mio ingegno, non sanno allontanarsi dalla mia penna. Ma necessitato di comparire in campo, ed esporre il contenuto delle sue tenebre, alla notizia della pubblica luce; benché intimidito dal riconoscimento de' propri demeriti, assicurato dalla speranza di goder non meritate stille di gloria, sotto l'ombra de' vostri serenissimi allori, ardisce d'innalzare il mio nome, col sottoporlo, ed umiliarlo a piè de' titoli vostri, per esser da quello consacrato, all'immortalità de' vostri gloriosissimi nomi.

Ed era convenevole appunto, che, s'egli, per esser un'allegorica espressione, de' vostri dolcissimi contenti, altro non è, ch'un raggio tolto alla vostra luce, per illuminarmi l'ingegno, ritornasse, sopra l'ale della sua umilissima osservanza, al convesso della sua sfera; acciocché asceso all'altissimo Olimpo delle vostre glorie, potess'esser superiore ai fulmini dell'invidia, e sovrastare ai tuoni della maledicenza.

Eccolo adunque, sotto la maestà degl'occhi vostri, a contribuir con tratti d'umilissima devozione, gl'ossequi divotissimi del mio ingegno. E sarebbe anche debito della mia osservanza, l'intessere fregi alla grandezza de' vostri meriti, celebrando l'ordinario costume di tributare encomi: e dir quai siano gli splendori, o serenissimo principe, del vostro felicissimo ingegno, che mirabile nella singolarità delle più recondite scienze, corre a trionfar de' secoli e della morte; superiore a quanti ingegni d'eroi, seppero mai, con apparato di peregrina eloquenzia, occupar le greche, o le latine carte. E maggior della maraviglia, non contento de' circumvicini stupori, per esser consapevole del proprio merito; sforza tutti gl'applausi della fama, a formar voci di voi, che ripercosse da' più rimoti confini del mondo, formano un'eco gloriosa, che vi dichiara inimitabile, ed immortale. E scrivendo di voi, serenissima principessa, mostrar qual sia l'altezza delle vostre prerogative, che per esser impareggiabili, obbligano il cielo, e la fortuna ad assister alle vostre grandezze; e quanto sia degna impresa del vostro merito ineffabile, che nell'avvicinarmi, con l'armonia della cetra, alla sublimità delle sfere, venga così bel sole, a sommerger i raggi della sua luce, nel mar delle vostre bellezze; e che le stelle, appreso il moto dalla misura de' vostri concenti, non sappiano sparger sopra l'eminenza di sì canoro ingegno, altri influssi, che di felicità. Ma troppo ardita, o serenissime altezze, sarebbe l'opera della mia penna, se prendesse a formar panegirici, sopra queste qualità immortali, che arrestati i più rapidi voli del tempo, formano un Campidoglio d'eternità, per ricevere i vostri gloriosi trionfi: poiché arricchite di tutte quell'ampiezze di lodi, che possino scaturir giammai, dell'eloquenzia de' più sublimi ingegni, ricusano la debolezza de quegl'encomi, che con caratteri d'impotenza, mi farebbero conoscer, troppo inerudito Omero, a descriver gl'Achilli, troppo imperito Apelle, a figurar gl'Alessandri.

Tacerò dunque, per non prender, nel valicar l'onde delle vostre lodi, ad annoverar le stille di un oceano. Tacerò, poiché sì come all'eminenza de' vostri meriti, non si può giunger, che colla maraviglia, così all'umiltà della mia osservanza, non si conviene che un divotissimo silenzio, per non offender con una lode imperfetta, la sublimità di quelle glorie, che non ancora mature, hanno forza d'impoverire il mondo d'encomi. E finalmente tacerò, per non saper dar principio, a quel che (sic: secondo me è cui) non saprei dar fine. E supplicando l'altezze vostre serenissime a dar merito, con un magnanimo aggradimento, a gl'ossequi divoti del mio ingegno, ed a felicitar, con um benigno sguardo, i tributi ossequiosi della mia penna, con umilissima, e profondissima riverenza, e l'uno, e l'altra inchino

Di Dresda li 3 di novembre 1662

di vostre altezze serenissime

umilissimo e divotissimo servitore

Giovanni Andrea Bontempi

A chi legge

Non ti persuadere, o amico lettore, di poter ammirar nell'imperfezion di questo mio parto, i voli d'una penna sublime, poiché lo studio della poesia, sì come quello, che richiede la cognizione delle scienze più gravi, è troppo alto oggetto all'imbecillità del mio basso ingegno; né sentendo in me punto di quel poetico furore, e di quel divino spirito, che vuol Platone, esser tanto necessario a chi desidera d'oltrarsi negl'affari poetici, non ardisco né meno di picchiar all'uscio delle Muse, sapendo di non portar meco, né il merito, né la fortuna da poterne ottener l'ingresso.

Il mio poetare non si stende più oltre, che nel formar qualche soggetto appartenente alla musica, e ciò più per uso de' miei propri componimenti, che de gl'altrui, più per mancanza de' poeti, che per professione. E se i sovrani comandi de' serenissimi padroni, non mi avessero mosso l'ingegno, sarebbe rimasto in questa opportunità, sì come in molt'altre, nella contemplazion de' suoi soliti silenzi; poiché, dove non può incamminarsi col merito, non è dovere ch'aspiri, né men col desiderio, non che procuri di giunger col volo, mentre incapace dell'ale di Dedalo, s'accerta di dover precipitar con Icaro, nel mar delle proprie debolezze.

La materia di quest'opera, che comprende parte dell'istorie troiane, ed è divisa in cinque atti, il primode' quali contiene le nozze di Teti, con la contesa delle tre dee, il secondo, il giudicio di Paride, il terzo, la partenza di Paride da Enone, il quarto, l'arrivo di Paride nella corte di Elena, l'innamoramento e la rapina, il quinto l'ingresso di Elena, nella corte di Priamo, con Paride; quantunque, in diverse maniere, sia stata tante, e tante volte rappresentata su le scene, non ti faccia maraviglia, se per fare acquisto di nuovi splendori, dalla presenza di tanta luce, e fra le pompe ammirabili di sì famosi spettacoli, sia nata anche dalle tenebre del mio ingegno: poiché aggirandosi tutti i miei pensieri, nella sola soddisfazione de' serenissimi padroni, ho impresso l'orme della mia devozione in que' sentieri, che mi furon prescritti dall'osservanza de' loro comandi, per contribuire con gl'ossequi della penna, i debiti del cuore.

Alcuni lisci poetici, (se pur tali sono) da' quali, con lunga serie di versi, si cagiona la prolissità de' recitativi, che mi costituisce parziale, più della poesia, che della musica, son nati e dalla brevità della tessitura, per la disunione degl'atti, e perché, avendo dovuta esser tradotta in lingua tedesca, per intendimento di quei, che non hanno cognizione della favella italiana, è da credere, che la lettura abbia da essere il principale oggetto: massimamente dove simili componimenti, non hanno fatto ancora spettacolo di sé stessi, fra i luminosi splendori del teatro. Onde ne viene in conseguenza, che quest'opera, non avrà tessiture artificiose, accidenti improvvisi, varietà di metri, frequenza d'invenzioni, brevità di recitativi, spessezza di canzonette, inganni, viluppi, discioglimenti, sottigliezze, capricci, motti, allegorie, metafore, sentenze, traslati, e finalmente tutti quegli abbellimenti, che debbono avere i drammi musicali, composti per allettare ed adulare il genio del secolo; non avrà ne meno spettatori nauseati, come altrove, dalla frequenza di tante, e tante opere che s'ascoltino.

Ma rivolgendo nella mente la materia, e la forma di quest'opera, differente da quante mai n'abbia, o ascoltate, o lette, o praticate, sotto il cielo de' più famosi teatri d'Italia: ed impiegando tutta la forza del mio debole intelletto, per trovar qualche differenza, o generica, o specifica, che la riduca sotto un nome, non dissentaneo dalla qualità che contiene: temo, non abbia la mia penna partorito il mostro d'Orazio, poiché, considerandola, dividendola, sottalternandola a parte, a parte, non so ridurla né a genere, né a specie alcuna.

È divisa in cinque atti: ma il primo non comincia, né la materia, né l'argomento, il secondo, non riduce le cose in atto, il terzo, non porta gl'impedimenti, il quarto, non mostra la via di risolvere, il quinto, non risolve artificiosamente.

Non v'ha prologo, che faccia la solita orazione a gli spettatori. Non v'ha protasi, che narri la somma delle cose. Non v'ha epitasi, che cominci a confonder la tessitura. Non v'ha catastasi, che dimostri il colmo più confuso di quella. Né v'ha catastrofe, che finalmente la riduca in tranquillità non aspettata.

Non è commedia; poiché la materia, che contiene, non è tratta da azioni civili, e private. Non è tragedia; poiché non esprime, né conclude casi atroci, e miserabili. Non è tragicommedia; poiché non partecipa, né della commedia, né della tragedia. Dovrebbe esser dramma; ma la qualità del soggetto, e della tessitura, non ammette ragionevolmente l'imposizion di questo nome.

Sarei per nominarla erotopegnio musicale (ερωτοπαίγνιον musicum; quod est ludus de Amore, ad musicam pertinens) ma per esser nome inusitato, quantunque fondato su la ragione; non so se sia (lettore) per soddisfarti.

Se ti par convenevole; concorro anch'io a riconoscerla, benché fuori d'usanza, con questo nome. Se non ti pare; già che non è, né dramma, né tragicommedia, né tragedia, né commedia: eccoti dunque l'argomento, il quale, mostrandoti gl'oggetti della sua quiddità, ti porgerà occasione d'attribuirle, e quel titolo, e quel nome, che più ti parrà proporzionato. Ed io, già che la capacità del mio debole ingegno, non è bastevole ad esprimer l'essenza de' suoi propri parti, nascondendo i difetti della mia penna, sotto l'eloquenza del tuo giudizio, mi chiamerò contento, d'aderire alla tua opinione, e di sottoscrivermi alla tua sentenza. Vivi lieto.

Atto primo
Scena prima

Giardino d'Esperia.
Esce la Discordia dall'Inferno, entra nel giardino, si lamenta di non esser chiamata alle nozze di Teti, risolve di vendicarsene, rapisce il pomo d'oro, e poi volando si parte.
Discordia.

Qual già mai dentro al seno,

di sdegno, e di veleno,

tormentoso flagello il cor mi spezza!

Io, che gl'imperi a debellar avvezza,

sovra scettri, e corone,

trionfante passeggio,

vilipesa, e schernita alfin mi veggio.

Già che Teti incostante,

tutta (o forza d'amor!) d'amor s'accende,

et or che fatta di nemica, amante,

fra dolci amplessi a ben amare apprende:

col suo vago Peleo colma d'ardore,

in nodo marital la stringe Amore.

Et oggi appunto è il giorno,

che con mio grave, e doloroso affanno,

colà di Pelio in sulle cime ombrose,

a celebrare andranno,

i bramati imenei,

del ciel, del mare, e della terra, i dèi.

Io sola resto (o crude stelle!) io sola,

con sentenza severa,

esclusa fuor della divina schiera.

Il ciel, la terra, e 'l mare,

par che 'l poter dell'opre mie paventi,

e pur non sempre appare,

ch'a suscitare i mali,

abbia i pensieri intenti.

Quante volte si vede,

sorger dagl'odii ancor, benché mortali,

vero amor, vera fede?

E acciò prodotta sia,

per iterata via,

la generazion, son pur ogn'ora,

discordi i cieli, e gl'elementi ancora!

Ma che tardo infelice,

a vendicar tutti gl'oltraggi miei?

La Discordia son io, tutto mi lice.

De' perversi imenei,

già corre il giorno, e già vicina è l'ora,

no no, non più dimora,

che s'io sanar presumo,

dell'ingiuria il dolor, col mio lamento,

zappo l'aria, aro il mar, semino al vento.

A che dunque s'aspetta?

Vendetta omai, vendetta!

Questo, a cui do di piglio,

aureo pomo, e vermiglio,

che di scrittura omai

sedizïosa adorno,

sarà possente a vendicar lo scorno.

Andronne, andronne anch'io,

e a dispetto del cielo,

fra quelle piante ascosa,

attenderò sdegnosa,

tempo opportuno a sì mirabil opra,

che in un momento istesso,

le nozze volgerà tutte sossopra.

Armar la destra, e 'l core,

vo' di mortal furore;

e con rigido sdegno,

fin che l'alta vendetta,

non sia nel cor di tutti i numi impressa,

odiar non sol: ma lacerar me stessa.

Scena seconda

Sommità del monte Pelio.
Ragiona Silvio dell'incostanza amorosa, riconosce il luogo degl'amorosi godimenti con Eurilla; la vede, e si ritira per ascoltarla.
Silvio.

1

Il desio d'un core amante,

nasce sempre in un baleno:

ma in un punto ancor vien meno,

se l'ardor non è costante.

2

Par che pianga, e che sospiri,

nel mirar beltà che splende:

ma se lungi il piè distende,

cessan tutti i suoi martiri.

Ma quivi appunto è il loco,

ove Eurilla gentile,

alteramente umile,

arse anch'ella all'ardor del mio bel foco.

Amor, tu che in un punto

m'avventasti. Ma taci; eccola appunto.

Scena terza

Esprime Eurilla, che non vi sia maggior contento, che l'esser innamorato. Silvio le si fa incontro, la richiede del tempo nel qual debba consolar le sue pene, e le conferma la sua costanza.
Eurilla, Silvio.

EURILLA

1

Chi d'amor gli strali sprezza,

donne mie gioir non può;

se dian pianto oppur dolcezza,

dica sol chi gli provò.

O fortunato ardore!

Le ferite d'amor dan vita al core.

2

Gode sol chi vive amante,

altro ben quaggiù non v'è;

sia leggero, o sia costante,

chi non ama è stolto a fé.

Amor tutto è dolcezza;

non ha senso colui, ch'amor non prezza.

SILVIO

1

Quando mai dentro al tuo seno,

ove alloggian mille amori,

avran pace i miei dolori,

de' conforti al bel sereno?

2

Loderò gli astri, e la sorte,

s'io potrò fra i tuoi sospiri,

coi tormenti, e coi martiri,

far beata ancor la morte.

Scena quarta

Eurilla assicura Silvio della sua corrispondenza in Amore, e lo consola colla speranza. Lucano, ascoltati i ragionamenti loro, rimprovera ad Eurilla la rotta fede. Eurilla gli conferma le sue promesse. Silvio se ne lamenta, e vien consolato da Eurilla, che scoprendosi innamorata di ambedue, dichiara il modo col qual debbono egualmente amarla. Lucano, e Silvio si lamentano della sentenza d'Eurilla. Lucano ricorre all'inganno: ma accorgendosi, esser dai dèi più inferiori, apparecchiato il convito, per le nozze di Teti, separatamente si partono.
Eurilla, Silvio, Lucano.

EURILLA

Quell'acceso desio,

che ti distrugge il core, e 'l sen t'infiamma,

con disusata fiamma,

distrugge anco il cor mio.

Tu sol sarai dell'alma mia sostegno;

sia che in breve il tuo legno,

che nel mar del desio languisce assorto,

giunga d'Amore a ristorarsi in porto.

LUCANO

Ohimè, sogno, o vaneggio?

Eurilla è questa; o crudo amor, che veggio!

SILVIO

O speranza felice!

O mio destin beato!

No no, troppo infelice!

Che di sperar, non di goder m'è dato;

poiché sperando entro sì dubbia sorte,

ogni momento alla speranza è morte.

LUCANO

Questa è quella mercede,

che si deve a un'amante?

Questa dunque è la fede,

che tante volte m'hai promessa, e tante?

EURILLA

Lascia, deh lascia omai,

adorato Lucan, l'ire e 'l furore.

Ciò che con lingua amante,

ti promisi, e giurai,

sarà sempre costante,

a mantenerlo il core.

Tutte le stelle in testimonio io chiamo;

ho promesso d'amarti, e pure io t'amo.

SILVIO

Eurilla anima mia,

se tu adori Lucan, di me che fia?

EURILLA

Taci, taci mio bene,

che tu per prova il sai,

s'io per te vivo, e per te moro in pene.

LUCANO

Strano eccesso d'Amore!

Come potrà giammai

amar Lucan, se dona ad altri il core?

EURILLA

Amo te mio Lucano;

adoro te mio Silvio.

Per te provo i martiri,

per te spargo i sospiri.

Così languendo, e l'uno, e l'altro adoro,

et adorando innamorata io moro.

SILVIO

Un amoroso ardore,

quando ad amar l'alma sospinge, o chiama;

compagnia non ammette in quel che s'ama.

EURILLA

Nobilissima gara,

sempre sarà nelle vostr'alme ascosa:

ma non vi sia penosa,

che gareggiando a ben oprar s'impara.

Così nei vostri petti,

gareggiando il desio;

fatto più saggio, e più fedele amante,

ciascun sarà nell'amor mio costante.

LUCANO

Ahi che gara amorosa,

benché diletto apporte

ha per guida la morte.

SILVIO

Chi può soffrir, che goda

altri, nel sen della sua donna accolto,

o non è amante, o se pur ama, è stolto.

EURILLA

Chi a posseder senza timor s'avvezza,

ciò che possede, o poco stima, o sprezza.

LUCANO

Ahi che la gelosia,

che da soverchio Amore,

nasce nel sen di chi sospira amante,

con flagello incessante,

rode il sen, punge l'alma, e sferza il core.

EURILLA

Amante invan s'appella,

chi non soggiace a quel che vuole, e brama

una beltà che s'ama.

Se tu m'ami, o Lucano,

se tu, Silvio, m'adori,

con impero sovrano,

vincitrice son io de' vostri cori.

Sempre a dar legge al vinto,

è il vincitore accinto.

Voi che già vinti siete,

prender legge in amor da me dovete.

Io son d'entrambi amante:

m'ami ciascuno, e sia,

et in amare, ed in penar costante,

né a speranza maggiore,

dia nel suo cor ricetto

però che un solo Amore,

non m'arderà giammai, nel cor, nel petto.

Nunzia sia di piacere, o pur di doglia,

vostro desir sia in bando,

dove appar la mia voglia:

così appunto vogl'io, così comando.

SILVIO

Ahi legge troppo fera!

Ahi sentenza severa!

LUCANO

O dolore! O tormento!

Impallidire, inorridir mi sento.

SILVIO

Un doloroso affanno,

omai dell'alma ogni potenza assale.

LUCANO

Dove ragion non vale,

abbia forza l'inganno.

Ascolta anima mia.

Folle sei, se tu credi,

che sol di tua bellezza,

il tuo bel Silvio innamorato sia:

par che t'adori, ed altra donna apprezza.

EURILLA

Impossibil mi sembra.

SILVIO

O ciel che miro!

In questo breve giro,

preparate vegg'io mense celesti.

Che prodigi son questi!

EURILLA E LUCANO

Ahi, che tanto splendore,

m'abbaglia i lumi, e mi confonde il core.

SILVIO

Mirar più non poss'io.

EURILLA

Mio cor, mia vita...

SILVIO E LUCANO

...Anima bella...

EURILLA, SILVIO E LUCANO

A dio.

Scena quinta

Discende la Discordia, e discorre, che non vi sia la più dolce cosa, che la vendetta. Accorgendosi, che comparsi i dèi, già siedono alla mensa: si nasconde per gittarvi sopra il pomo.
Discordia.

Dolce cosa è la vendetta.

1

Pur ch'al fin s'abbatta, e opprima,

chi sospinge a giusto sdegno,

costi pur la vita, e 'l regno,

il suo prezzo non si stima.

Più d'ogn'altra il core alletta:

dolce cosa è la vendetta.

2

Corre sempre, e non si vede;

fiamme avventa, e par che dorma;

in più guise si trasforma;

né giammai paventa, o cede.

Più d'ogn'altra il cor alletta:

dolce cosa è la vendetta.

Ma la schiera divina,

con allegrezza immensa,

già s'asside alla mensa.

Io starò qui vicina,

fra questi mirti ascosa;

e attenderò sdegnosa,

a volger in contrasto,

l'alta solennità di sì bel pasto.

Scena sesta

I dèi più inferiori, apparecchiato che hanno le mense, cantano, sotto figura d'allegoria, in lode de' serenissimi sposi. La Discordia gitta il pomo, e poi si parte. Giunone, Pallade, e Venere vengono a contesa, per l'acquisto del pomo; ricorrono alla sentenza di Giove, ed egli rimette la causa al giudicio di Paride. Scende una nuvola dal cielo, nella quale entrano le dèe, e per comandamento di Giove, guidate per aria da Mercurio, se ne vanno nella Frigia a ritrovarlo. Col ballo che poi segue fra gl'altri dèi, che restano, finisce il prim'atto.
Coro de' dèi più inferiori, Giove, Apollo, Mercurio, Giunone, Pallade, Venere, che cantano; Discordia nascosta. Tutti gl'altri dèi, e dèe, che non cantano.

CORO

O fortunato, o memorabil giorno!

Ch'alteramente è adorno,

d'imenei sì festosi.

Vivan gl'amati sposi,

insin ch'alluma ogn'emisfero il sole:

e generosa prole,

esca dal sen fecondo,

a far più bello, e più felice il mondo.

Sia senza fin beato,

questo nobil soggiorno,

o fortunato, o memorabil giorno!

GIUNONE

Questo è mio.

PALLADE

Anzi mio.

GIUNONE

Io fui la prima.

PALLADE

Io,

che distesi la mano.

VENERE

Fermate, oh là, pian piano:

anch'io la mano stesi,

e pria d'ogn'altra...

GIUNONE E PALLADE

Io pria di tutte...

VENERE, GIUNONE E PALLADE

...il presi.

GIOVE

Che litigi? che risse?

che tumulti son questi,

o belle dèe celesti?

GIUNONE

Questo è un dono del fato,

ch'a me più ch'ad ogn'altra oggi vien dato.

PALLADE

Se pur non fia, che la ragion s'opprima;

a me sola conviensi,

poi ch'a prender il dono io fui la prima.

APOLLO

O bellissimo dono!

Dono più che celeste! e quai vi sono,

sulla scorza lucente, caratteri scolpiti?

La scrittura che v'è, così favella:

«Diasi questo bel dono a la più bella.»

VENERE

Vana sarà d'altrui la violenza;

guerreggia in mio favor l'alta sentenza.

GIUNONE

Ceder le mie ragioni, ah non poss'io;

poiché son bella, al par d'ogn'altra, anch'io.

PALLADE

A ceder in beltà

non fu, nemmen sarà, Pallade avvezza;

disprezzar non poss'io la mia bellezza.

GIUNONE, PALLADE E VENERE

Padre, o padre tonante!

Davanti al tuo gran trono,

con devoto sembiante,

supplice chiedo il meritato dono.

GIOVE

La passïon, che vi commuove, e fere,

sulle guance dipinta,

fa, che ragion distinta

non possa dar, delle bellezze altere.

Egualmente vagheggio

le bellezze, che sono in voi raccolte:

ma non può questo pomo esser di molte.

S'io do 'l vanto a una figlia, ecco poi l'ira

dell'altra figlia, e della moglie insieme;

e s'applaudo alla moglie, ecco s'adira,

e l'una, e l'altra, e si lamenta, e geme.

Amo di par ciascuna, e 'l dolce affetto,

ogni mio senso a passïone ha mosso;

giudice idoneo esser tra voi non posso.

Dove il Gargaro altier s'estolle in Ida,

vive pastor tra boschi in Frigia nato,

che di prudenza ornato,

sol decider tra voi può la disfida.

Dal nostro sangue anch'ei deriva, e nasce;

ma sin dentro le fasce,

l'ingiusta madre a discacciarlo attese,

per l'orror che de' sogni allor si prese.

Sembra pastore, ed è signor sovrano,

figlio di Priamo imperator troiano.

Paride è questi, il cui sublime ingegno,

lo rende al par degl'alti dèi celesti

delle vostre bellezze arbitro degno.

Itene dunque là; colui, che porta

l'ambasciate del ciel, vi sarà scorta.

MERCURIO

Per ubbidir l'universo regge,

farò d'un cenno inviolabil legge.

GIUNONE

Col cor contento, e lieto

al tuo voler, m'acqueto.

PALLADE

Ad ubbidir m'accingo;

e in questa nube gravida, e volante,

al felice viaggio il piè sospingo.

VENERE

Io di speme costante,

già circondato ho il core,

e senza alcun timore,

dal gran giudice eletto,

con la vittoria anco il trionfo aspetto.

GIUNONE, PALLADE, VENERE

Or or si vedrà,

chi di vera bellezza il pregio avrà.

GIOVE

Già che placate sono,

le risse del bel dono,

ciascun senza intervallo,

prenda 'l suo spazio, e s'incominci il ballo.

Ballo di Dèi, e Dèe.

Atto secondo
Scena prima

Bosco nel monte Ida.
Enone rammemora a sé stessa, qual sia l'Amore, che porta a Paride. Esprime, che per sì bella cagione le sia soave ogni tormento; e dalle proprie pene, cava argomenti per render impenetrabile la sua costanza. Vede venir Paride, e gli si fa incontro.
Enone.

Aure dolci, e leggere,

zeffiretti volanti,

spiritelli vaganti,

ristoro del mio core,

non mi chiedete più s'ardo d'Amore.

Purtroppo i miei sospiri,

ch'a voi quest'alma invia,

palesato v'avran la fiamma mia.

Anzi l'anima istessa,

dall'oggetto divino,

de l'amate bellezze al ciel rapita,

discoperto v'avrà la sua ferita.

Ardo purtroppo, e mi distruggo, e moro:

ma per colui ch'adoro,

entro l'ardor ch'io sento,

m'è riposo 'l penar, pace il tormento.

1

Languisco d'Amore,

mio bene per te;

t'adora il mio core,

e chiede mercé.

Languirò, morirò, ma sempre amante;

non paventa 'l morire alma costante.

2

Il cor, che vien meno,

mai sempre arderà;

la fé nel mio seno,

costante sarà.

Chi nel regno d'amor non ha fermezza,

o non cura mercede, o amor non prezza.

Ma, s'io non erro, ecco il mio bello: ahi vista,

che morte arreca in un sol punto, e vita!

O bellezza infinita,

da cui la luce il dio del lume acquista!

Esci o mio cor dal petto,

e su nel volto ascendi,

a vagheggiar l'idolatrato oggetto.

Ma lassa! e che desio?

Io non ho cor nel seno, e s'ho pur core,

è d'altrui, non è mio: ma s'è pur mio,

è nell'ardor ch'io sento,

in un con l'alma incenerito, e spento.

Scena seconda

Paride, ed Enone stabiliscono un'intera, e piena fermezza ai loro amori. Enone si parte. Paride resta, e si rallegra d'esser amante d'Enone. Esplica la possanza d'Amore, e come si debba amare: consolandosi nell'ardor di quelle fiamme, che gli consumano dolcemente il petto. Scendendo Mercurio, Giunone, Pallade, e Venere dal cielo, vien sorpreso da un improvviso stupore.
Paride, Enone.

PARIDE

1

Dolce ben,

conforto amato,

fia beato

questo sen,

se mi porgi un sol ristoro,

quando d'Amore impallidisco, e moro.

ENONE

2

Sol per te

languisco, e pero,

né pensiero,

di mia fé,

ti dia mai tormento, o noia;

tu sei l'anima mia, tu la mia gioia.

PARIDE E ENONE

3

Pera il cor

dentr'al suo petto,

e s'astretto

fia l'ardor

a sanar la sua ferita,

per tornar' a morir, sol torni in vita.

ENONE

Paride mio, ti lascio.

Il cor, che tanto il tuo bel volto adora,

non farà senza te lunga dimora.

PARIDE

Vanne, ed in breve il tuo ritorno fia,

Enone anima mia.

Ah che purtroppo sei,

anima del mio seno,

luce degl'occhi miei!

E mille volte, e mille,

sia benedetto Amore,

che per tanta beltà m'accese il core.

Amor nume volante,

abitator degl'amorosi petti,

felicissimo fin d'ogn'alma amante;

con dolcissimi affetti,

porge sostegno al cor, dà vita all'alma;

e con forza possente,

e di turbato mar placida calma:

anzi è l'alma, e la mente,

che l'universo regge,

e de' moti, e de' cieli, e delle stelle,

imperïosa, e sempiterna legge.

Chi dunque avrà nel petto,

così rigido core,

che non conosca Amore!

Amor sempre si deve. Alma pietosa,

non sia in amar ritrosa.

Ne la cocente arsura,

con eterna costanza,

ami senza misura,

ma non senza speranza;

che chi misura entr'al suo petto il foco,

teme assai, pena molto, ed ama poco,

e s'adorando a non sperar s'avvezza,

o non conosce Amore, o amor non prezza.

PARIDE

PARIDE

1

Sì dolce è 'l foco,

ch'a poco a poco,

l'alma nel petto languir mi fa;

che nel tormento,

vivo contento,

né più bramare quest'alma sa.

2

Sì dolce infiamma,

d'amor la fiamma,

ch'arder amante mai sempr'io vo':

e s'io mi moro,

nel mio martoro,

altro piacere non curo no.

Ma che veggio? che miro? ohimè ch'il core,

colmo già di stupor, stupido, e smorto,

resta in un mar d'ampio stupore assorto.

Scena terza

Paride riceve da Mercurio le commissioni di Giove, e si dispone al giudizio. Giunone, e Pallade, espresse le loro ragioni, tentata invano la sua costanza; sdegnate si partono. Venere ottenuto vittoriosamente il pomo, lo consola colla speranza dell'acquisto d'Elena; ed egli, spinto da nuovi stimoli amorosi, risolve d'abbandonare Enone, e palesarsi al padre; e trasferitosi alla corte di Sparta, rapir Elena a' Greci. Col ballo di Pastori, che segue, finisce il second'atto.
Mercurio, Giunone, Pallade, Venere, Paride.

MERCURIO

Cessi omai lo stupore,

che t'ingombra la mente,

o leggiadro pastore;

de' favori del ciel ricco, e possente,

consola i tuoi sospiri,

né temer di periglio;

io son di Giove, e messaggero, e figlio.

Queste dèe, che tu miri,

oggi s'han messo a contrastar tra loro,

con infinite asprezze,

sovra la palma delle lor bellezze.

Ma perché in ciel si teme,

di parzial sentenza;

il gran re delle stelle a te le invia,

e giudice tra lor vuol che tu sia.

Questo, che fu soggetto,

a suscitar tanto scompiglio, e tanto,

sarà della più bella il premio, e 'l vanto.

PARIDE

Come potrà giammai,

trattar cause divine,

un rozzo, e vil pastore,

o divino oratore;

dove l'istessa ancor somma scienza,

non seppe in ciel pronunziar sentenza?

Egualmente son belle, o se non sono,

la beltà di colei che l'altre avanza,

il mio difetto accusa, e l'ignoranza;

che s'ancor le contemplo ad una ad una

trovar non so diseguaglianza alcuna.

Ma s'ancor differenza,

fra quell'alte bellezze,

il ciel fia che mi scopra,

troppo sublime, e perigliosa è l'opra.

Che se con giusta, ed ottima sentenza

la man concede il meritato onore;

l'odio, l'ira, e 'l furore,

ragion possente a paventar m'insegna,

di chi sarà di sì bel pomo indegna.

Ma già, che tali sono

gl'ordini di colui, ch'ai cieli impera,

e posto ha già decisïon sì altera,

sotto il giudicio mio,

eccomi pronto ad ubbidire anch'io.

GIUNONE

Che l'alta mia bellezza,

da cui più volte ebbe luce il sole,

ad ogn'altra bellezza il pregio invole;

conobbe il cielo allor, che per consorte,

m'elesse il re della celeste corte.

La sentenza è già fatta, e indarno fia,

cercar maggior beltà dov'è la mia.

Poiché ben dritto appare,

che quel motor, che l'universo regge,

abbia vicino all'alma,

colei, che di beltà porta la palma.

Negar questo bel Pomo,

tu non devi, né puoi,

alla regina de' superni eroi:

o se fia che tu 'l neghi,

rendi o pastor gl'uffici tuoi delusi,

e 'l gran motor di cecitade accusi.

Che fai? che pensi? a che più miri invano.

Stendi, stendi la mano,

pastor prudente, e saggio.

Forse dell'altre due,

temi l'ira, e l'oltraggio? oltraggio alcuno,

temer non può, chi per difesa ha Giuno.

Gli scettri, e le corone,

sol dispensa Giunone.

E se la mia bellezza

vincitrice farai, farò ch'altero

di tutta l'Asia acquisterai l'impero.

PARIDE

Il vostro merto è quello,

gloriosa regina,

ch'il mio dovere a contentarvi inclina:

ma senza ingiuria altrui,

non posso ancor pronunziar parola,

poiché scesa dal ciel non siete sola.

PALLADE

Mira, o pastore omai,

la mia beltà sublime,

in cui veder potrai,

non apparenza altera;

ma la virtude essenziale, e vera.

La terra, e 'l ciel m'appella,

della vera beltà l'idea più bella,

tu con saggio pensiero,

s'a conoscer il vero,

avrai la mente avvezza,

vincitrice farai la mia bellezza.

I tesori, gl'imperi,

offrisce invan Giunone,

a chi nacque agli scettri, e alle corone:

ma se con giusta mano,

il pomo a me darai;

darotti anch'io virtute, onde potrai,

ottener, conservar, felice, e in breve,

tutto quel ben, ch'all'esser tuo si deve.

Farotti ancor, con guerreggiante stile,

vittorioso in ogni assalto ostile.

Così sarai, de' tuoi trionfi audace,

temuto in guerra, e riverito in pace.

PARIDE

Ciò ch'a voi si conviene,

sarà ben pronta a presentar la mano;

e l'istessa ragion che v'appartiene,

non vi farà già mai sperare invano.

Quando tempo sarà gl'istessi effetti,

paleseran se fian veraci i detti.

VENERE

Perché Paride ondeggi,

col dubbioso pensiero?

E non conosci, e non discerni il vero?

Sei di te stesso fuori?

O pur forse vaneggi,

fra scienze, e tesori?

Ah, che non si conviene,

alla più ricca, o alla più dotta il pomo?

Ma che tu 'l doni alla più bella è dritto,

s'a la più bella in sulla scorza è scritto.

Già nascesti agli scettri;

già di virtù cotanta,

oggi il tuo cor s'ammanta,

ch'a posseder gl'imperi,

maggiori acquisti invan ricerchi, o speri.

Sarai tu senza Amore?

Forse forse sarai,

se sarai senza core.

Lascia, deh lascia omai,

ogni rustico affetto;

goda, goda il tuo petto,

se non è di diamante,

fra i palazzi reali,

l'ampio tesor d'una bellezza amante.

Elena appunto è quella,

ch'ha negl'occhi, e nel seno,

un celeste sereno.

Elena, la più bella,

che miri il sole, o che la Grecia ammiri,

con soavi sospiri,

premio gentil del mio divin favore,

sarà l'anima tua, sarà 'l tuo core.

Ma non consenta il cielo,

che la promessa mia,

abbia nel tuo pensiero,

maggior forza del vero.

Saprai ben tu chi sia,

la gran madre d'Amore.

Giudice dotto, ed amatore esperto,

conoscerà di mia bellezza il merto.

PARIDE

Vane fian le promesse,

o bellissime dèe.

Chi a giudicar m'elesse,

conosce ancor se 'l mio giudizio è puro:

la verità, non la mercede io curo.

Ma come esser potranno,

giudici gl'occhi miei,

fra sembianti sì bei,

se 'l mio cor si confonde ad ora ad ora!

Udito ho sì: ma non veduto ancora.

La mente, e 'l cor m'appanna,

sì superba apparenza,

né posso ancor pronuncïar sentenza.

Di sì leggiadri arnesi,

le perle, e gl'ori, e gl'ostri,

copron de' corpi vostri,

con ammirabil arte,

la più gradita, e la più degna parte:

onde con vostra pace,

senza tema o vergogna,

omai più oltre esaminar bisogna.

Per mostrar senza inganno,

quel tesor di beltà, ch'in voi s'aduna,

spoglisi omai ciascuna:

giudicar non si può l'alto splendore,

lassù nel ciel del più lucente aspetto

da nubi oscure, e circondato, e stretto.

GIUNONE

Disonesto pastore,

non hai vergogna al core?

PALLADE

Ah sentenza proterva!

Ciò non farà Minerva!

VENERE

Perché vi spiace, e offende,

così grave tenzone?

Perda la sua ragione,

chi 'l paraggio contende.

Abbandoni l'impresa,

colei che teme, e 'l suo timor palesa.

Ecco mi spoglio, e le bellezze ignote,

espongo agl'occhi tuoi;

mira pur quanto vuoi.

GIUNONE

Onestà mi percote,

e pur convien, ch'io mi discinga, e sveli.

PALLADE

Non fia già mai ch'io celi,

già che Giunon si spoglia, il corpo mio:

ecco mi scingo, e mi dispoglio anch'io.

PARIDE

Cieli che miro! ohimè, fra tanti rai,

come potrò giammai,

di tali estremi investigar l'eccesso,

se per tanto ammirar perdo me stesso!

Pur si ravviva, e non so come, il core;

la mente ancor risorge,

e qual sia la più bella omai s'accorge.

A voi madre d'Amore,

benignissima stella,

d'ogni eterna beltà, beltà più bella,

la palma omai si deve. Eccola, è vostra.

Il cielo il ver mi mostra,

e l'intelletto mio so che non falla;

perdonimi Giunon, scusimi Palla.

VENERE

Cedetemi l'onore; il vanto è mio,

di sì grave contesa;

vincitrice son io,

superata ho l'impresa.

PALLADE

Pastor sei poco avvezzo,

a conoscer il vero;

ma non curo il disprezzo,

poiché sei sì leggero;

né di perfidia il tuo giudizio accuso;

ma l'ignoranza, e compatisco, e scuso.

GIUNONE

Scellerato pastore,

il tuo giudicio indegno,

troppo m'offende, e mi commuove a sdegno.

Dunque del cieco Amore,

hai creduto agl'inganni?

Proverai ben gl'affanni!

Maledirai quell'ora,

ch'apristi gl'occhi al pianto;

e la tua stirpe, e la tua patria intanto,

vedrà l'ultimo fine,

fra le stragi, gl'incendi, e le ruine;

e quella fiamma impura,

ch'in soave speranza il cor t'involve,

t'arderà sì; ma per ridurti in polve.

VENERE

Qual timor, qual spavento,

ti cinge il seno, e 'l cor t'opprime, e assale?

Hai teco Amore, e 'l suo pungente strale,

ti farà nel dolor lieto, e contento.

Tosto ch'avrai sotto il paterno tetto,

il dovuto ricetto:

vanne di Sparta entro la reggia altera,

che fissando le luci,

nel tuo vago sembiante,

l'amorosa guerriera,

fatta pietosa amante,

arderà, languirà con gran diletto,

sol per farti comune il grembo, e 'l letto,

e vinta poi da' tuoi sospiri ardenti,

con desiri pungenti,

lascerà 'l lido greco,

e dovunque vorrai ne verrà teco.

Su su possenti amori,

vittoriose squadre,

portate omai sovra i celesti cori,

la vostra invitta, e glorïosa madre:

e con dolce favella,

palesate festosi,

a mille amanti, e mille,

de' contrasti famosi,

e la nostra vittoria, e l'altrui scorno,

fin dove nasce, e dove more il giorno.

PARIDE

Già che a te così piace,

diva del terzo ciel, madre d'Amore,

andrò con passo audace,

a riverir devoto,

di sì vaga beltà l'alto splendore;

per ottener con sì sublime pegno,

dal mio gran genitor, ricetto, e regno.

Padre, o padre cortese,

con benigno sembiante,

il tuo figlio, il tuo sangue omai raccogli:

e tu pietosa amante,

da' pace a' tuoi cordogli:

s'oggi fatto incostante,

omai ti lascio abbandonata, e sola,

e voler del destino,

ch'alla reggia mi rende, e a te m'invola.

S'io ti lascio, o Enone mia,

è un error, non di mia fé;

ma d'amor, che mi disvia,

(dolce ben) lungi da te.

Privo ancor de' tuoi bei rai,

tanto t'adorerò, quanto t'amai.

Ballo di Pastori.

Atto terzo
Scena prima

Scogli con bosco in lontananza.
Lippo pastore, si lamenta degl'inganni amorosi, e della crudeltà della sua ninfa; consolandosi col canto.
Lippo.

Ogn'uno stia cheto,

e ascolti d'Amore gl'inganni,

gl'affanni,

che prova nel core,

amante segreto.

Ogn'uno stia cheto.

1

Ardo ohimè, languisco, e moro,

per crudele, e ria beltà;

cerco aita, e pure adoro,

chi nemica è di pietà,

altro ben più non m'avanza,

che sperar senza speranza.

2

Mostra sol rigida asprezza,

quando chiedo a lei mercé;

e s'io piango allor disprezza,

il mio pianto, e la mia fé.

Anzi ognor procura, e brama

morte al cor, poiché tanto ama.

3

Già ch'a morte ognor m'invita,

viver certo io più non vo':

mora lei ch'è la mia vita,

ch'io contento alfin sarò.

Farò pago il suo desio:

morta lei, son morto anch'io.

Già che il cordoglio amaro,

ho consolato alquanto,

vo' dar tregua al dolore, e fine al canto.

E mentre il mio cantar lascio, ed acqueto:

Ogn'uno stia cheto,

e fugga d'Amore

gl'inganni,

gl'affanni

che prova nel core,

amante segreto.

Ogn'uno stia cheto.

Scena seconda

Enone si duole amaramente dell'improvvisa partenza di Paride. Egli la consola con parole, ch'esprimono Amore, e fede. Discorrono sopra gl'effetti della speranza. Paride si parte. Enone si rammarica, e risolve di non mancar mai di fede, benché lontano, al suo dolcissimo Paride.
Enone, Paride.

ENONE

Partir? tu vuoi partire? ahi cruda sorte!

Dolorosa partenza,

che mi conduce immortalmente a morte.

PARIDE

Deh consolati omai,

bellissimo mio sole.

ENONE

Chi fia che mi console,

se tu Paride amato,

lungi fa me te n' vai?

Ahi tormento! ahi dolore!

PARIDE

Si parte il piè: ma teco resta il core.

ENONE

Ahi crudel dipartita!

PARIDE

Lungi da te mia vita,

farò breve dimora.

ENONE

Ahi ch'un sol giorno, un'ora,

che dico un'ora? un sol momento, un punto,

sembra mill'anni al cor, da te disgiunto.

PARIDE

Ti lascio Enone, a dio.

ENONE

Ascolta idolo mio.

Sarà d'altro sembiante,

forse il tuo core amante?

PARIDE

Piovin dal ciel mille saette, e mille,

senza pietade, a fulminarmi il petto,

s'avvien che sia ricetto,

d'altra fé, d'altro amor, d'altre faville.

ENONE

Se ciò sperar mi lice,

sarà ne' suoi martir l'alma felice.

Ma lassa! a' tuoi sospiri,

darà conforto, e pace,

una speme fallace?

Sfortunati martiri!

Invano a consolarvi il cor s'affanna,

che l'istesso sperar tradisce, e inganna.

PARIDE

Soave è lo sperare,

e generoso core,

entro a vano timore,

già mai s'involge, o perde,

che la speme in amor mai sempre è verde.

ENONE

Ahi che purtroppo (anima bella) è vero,

e perciò mi dispero;

poiché mentre verdeggia,

la speranza d'Amore,

frutto non ha per farne cibo al core.

PARIDE

Se pria con verdi foglie,

la speranza non sorge,

frutto gi mai non porge;

e lo stelo natio restar non puote.

Di foglie ignudo, e di licore asciutto,

se in mezzo al fior pria non germoglia il frutto.

Amor da speme nasce,

con la speme s'avanza,

e di speme si pasce;

e se tu vivi in amoroso ardore,

adorato mio ben, spera pur, spera;

vero amante non è chi si dispera.

PARIDE E ENONE

Speriam dunque sì, sì, ch'estinto in fasce,

privo riman, se la speranza more,

e di nutrice, e d'alimento Amore,

ENONE

E pur è ver che parti

e che mi lasci? o crudo!

d'ogni pietate ignudo.

Priva di sì bel sole,

il cui splendor natio,

l'alma nel core, e 'l cor nel sen m'avviva,

com'esser può ch'io viva?

E pur misera amante,

senz'alma, e senza core,

perduto il caro bene,

vivo in grembo alle pene,

per morir di dolore.

Dipartita crudele! Ah che tu sei,

cagion d'ogmi mio danno.

Ma tormentami pure,

porgimi pure affanno,

che l'amoroso ardore,

onde si strugge, e si consuma il core,

con pietose querele,

non cesserà giammai d'esser fedele.

1

Benché priva di mercé,

in sì dura lontananza,

sarà ognor la mia costanza,

un trofeo della mia fé.

2

Fra le pene io morirò,

fortunata, e fida amante,

s'arderà per me costante,

la beltà che m'infiammò.

3

Onde accorger si potrà,

chi 'l mio duol tal ora ascolta,

che chi adora una sol volta,

variar mai più non sa.

Scena terza

Cerispo, Ninfeo, Corimbo fanciulli, venuti a disfida sopra il gioco della civetta, ritrovato il luogo opportuno, attaccano il gioco. Sopravvenendo un orso intralasciano di giocare, e fuggendo pongono fine al terzo atto.
Cerispo, Ninfeo, Corimbo.

CERISPO

Questo sarà della disfida il loco;

posiam le reti, e cominciamo il gioco.

CORIMBO, CERISPO E NINFEO

Alla civetta,

giochiam su su.

CERISPO

Che più s'aspetta?

CORIMBO E NINFEO

Comincia tu.

CERISPO

Per cominciare,

farò così.

NINFEO

Se vuoi giocare,

da' pian.

CERISPO

Sì sì.

Forse che questa

ti piacerà.

NINFEO

Ancor ci resta,

chi troppo fa.

CERISPO

Adesso, adesso,

toccherà a te.

CORIMBO

Vien pure appresso.

CERISPO

T'ho colto affé.

Son pur da poco!

NINFEO

È ver sì sì.

Oh che bel gioco!

Non è così?

CERISPO

O come presto,

lo perderà!

NINFEO

S'io sarò desto,

or si vedrà!

Così lontano,

chi giocar può?

CERISPO

Stendi la mano.

NINFEO

Così farò.

CERISPO

Tornaci ancora.

E vedrai tu.

NINFEO

Senza dimora,

poi torno giù.

CORIMBO

T'aspetto anch'io.

NINFEO

Questo è per te.

Il fallo è mio,

scusa non c'è.

CORIMBO

Il colpo è fatto.

Cedi su su.

NINFEO

Vedremo a un tratto,

chi ne fa più.

CORIMBO

Forse che ancora,

ti vincerò.

NINFEO

T'ho colto or ora.

CERISPO E CORIMBO

No no no no.

NINFEO

Con poco affanno,

già cadde giù.

CORIMBO

Quest'è un inganno,

cedi pur tu;

fu colpo ingiusto,

te 'l proverò.

NINFEO

A tempo giusto,

purtroppo andò.

CERISPO

Lo vidi anch'io,

giusto non fu.

NINFEO

Il torto è mio,

mentre il di' tu.

CORIMBO

Già c'ho ragione,

vo' far così.

CERISPO

Con discrezione.

CORIMBO

Sì sì sì sì.

Forse c'ha posta.

CERISPO

Un orso! ohimè fuggiamo, ecco s'accosta.

Atto quarto
Scena prima

Bosco sopra il lito di Sparta, con mare in lontananza.
Arriva Paride al lito di Sparta, discende dalla nave, e comandato a' compagni, che aspettino la sua ritornata, entra nel bosco.
Paride.

Questo lido selvaggio,

in cui di fere orme confuse io miro,

di sì lungo viaggio,

sarà opportuno a terminare il giro.

Fermisi pur la nave,

e infra quest'ombre ascoso,

ciascun di voi si prenda

dolce riposo, e 'l mio ritorno attenda.

Eccomi giunto alfine,

a quel bramato, e riverito lido,

in cui godere, in cui rapir degg'io,

d'un idolo terreno,

le bellezze divine.

In te dunque confido,

dolce madre d'Amore,

proteggi il furto mio,

col tuo grato favore.

Scena seconda

Paride, sentendo il corno, e la voce di un cacciatore, che gli s'avvicina, si ferma, e finge di dormire. Melindo cacciatore arriva, e canta sopra il diletto della caccia, ed essendo carico di prede si riavvia verso la città: suona il corno, e Paride finge di svegliarsi, lamentandosi che gli venga interrotto il riposo. Melindo gli s'accosta, e gli domanda chi sia. Paride dice, esser Dorindo musico, natio di Tarso, città della Cilicia, partito per andare alla corte del re di Cipro: ma che assalita la nave da una fiera tempesta, salvatosi nuotando, sia finalmente pervenuto a quel lito, e mentre si rammarica, Melindo lo consola, e lo conduce alla corte per presentarlo ad Elena.
Paride, Melindo.

MELINDO

Té Finisso, té té.

PARIDE

Un cacciatore affé.

MELINDO

Ho trovato la traccia,

alla caccia, alla caccia.

PARIDE

Oh fortunata sorte!

E qual benigna stella,

per introdurmi in corte,

mi porge a un tratto occasïon sì bella?

Mi voglio a lui scoprire.

No no celar mi voglio.

Fingerò di dormire,

e di provar dormendo,

improvviso cordoglio.

MELINDO

Té Finisso té té.

Oh che sicura traccia;

alla caccia, alla caccia.

PARIDE

Già s'avvicina. Eccolo appunto. Amore

reggi la lingua, e 'l core,

d'un tuo servo devoto,

col tuo possente, e insuperabil moto.

MELINDO

1

Sudo, anelo, e impallidisco,

quando a caccia me ne vo;

ma in cacciar tanto gioisco,

ch'altro ben non curo no.

Questa in gioie il core allaccia;

chi desia di gioir corra alla caccia.

2

Prova sol veri contenti,

chi a cacciar tal or se n' va;

ma ben degno è di tormenti,

chi diletto in ciò non ha,

sol la caccia il mio cor ama;

stolto è colui, che di cacciar non brama.

Ma tempo è già ch'io volga,

ver la città, per dritto calle il piede,

ch'omai bastanti prede,

queste che grave noia,

agl'uomini mi fanno,

per la bella regina oggi saranno.

PARIDE

Chi mi turba il riposo? oh cieli! oh dio!

Sì infelice son io,

che di quïete invece,

dal mio perverso, e inesorabil fato,

non altra posa omai,

che sospirar, che lacrime m'è dato.

MELINDO

E chi sei tu, che in mezzo ai boschi alberghi?

PARIDE

Garzon son io, che d'altro amico, e vago,

che di pascer armenti, o fender solchi,

degl'ignari bifolchi,

sdegnando il vil costume,

patria cangiai sol per provar se sia,

prescritto ai giorni miei,

sotto straniero ciel, sorte più pia.

MELINDO

Gentil garzon, che tal mi sembri al volto,

in cui bellezza, e nobiltà riluce;

deh se brami ch'in cielo,

con influssi felici,

a' tuoi giusti desiri,

benignamente amica sorte arrida,

pria ch'il bel piede ad altra parte affretti,

noioso a te non sia,

narrar con brevi detti,

le tue fortune, e come

qui tu giungesti, e la tua patria, e 'l nome.

PARIDE

Dorindo è il nome mio:

ne' fruttiferi campi,

di Cilicia nacqu'io,

là dove al ciel s'innalza,

famosa, e altera, e torreggiante, e bella,

città, che Tarso in que' confin s'appella.

Quivi musico spirto,

regnando entro 'l mio petto,

la dolc'arte del canto,

negl'anni miei più fanciulleschi appresi:

ma poi con l'uso intanto,

crescendo il senno, e con l'età lo stile,

quasi prendendo a vile,

che sola Tarso il mio bel canto udisse,

la musa mia prefisse,

di passarsene in Cipro,

e in compagnia della canora schiera,

fermare il piè, là dove il rege impera.

Così me n' corsi impetuoso al lido,

sol dal desio sospinto;

e sovra un legno a navigare accinto,

posai le membra; e già nel mare infido,

sciolto le vele avea,

e con placido vento,

entro la dolce calma,

iva solcando il liquefatto argento.

Quand'ecco (ahi dura sorte!) in un istante,

là nel mar di Pamfilia,

Cinzia le corna infra le nubi asconde,

e tra lucido, e oscuro,

il suo splendor confonde;

freme il mare, stride il vento,

e con empio spavento,

Euro cruccioso, e fero,

tutto sconvolge il procelloso impero.

Di lampi, e di saette,

tutt'era armato a nostri danni il cielo,

e già scorrea per tutto,

entro l'ondoso flutto,

il carco pino abbandonato, e scosso,

e con orribil sdegno,

del tempestoso regno,

restar nell'onde, e subissate, e sparte,

arbori, e vele, ancore, antenne, e sarte.

Io già d'aita, e di speranza privo,

dall'infelice legno,

nel mar trattomi a nuoto, in braccio a morte,

cercai l'ultima sorte,

e in breve giro, io non saprei dir come,

pallido, e stanco, e semivivo appena,

giunsi col piede a calpestar l'arena.

Lungi dall'ermo lido,

ratto n' andai col cor tremante in seno,

e su nel ciel sereno,

la rugiadosa aurora,

con flagelli di rose,

luminosa sferzava,

i suoi corsieri a volo,

quand'io misero, e solo,

tanta dal ciel benigna sorte ottenni,

che in questi boschi a riposar me n' venni.

MELINDO

Strano evento mi narri,

degno d'aita, e di pietate invero.

Garzon leggiadro, e altero,

non ti porga il girar di quella dea,

che l'instabil suo piè fonda sul vento,

o timore, o spavento.

Gira la rota, e quei ch'è al fondo oppresso,

in un momento istesso,

trionfando s'innalza, e in un sol giro,

si congiunge col duol la gioia, e 'l canto,

e si rivolge in doppio riso il pianto.

Ciò che si tocca, e mira,

tutto è instabil fra noi; fermezza alcuna

non v'ha sotto la luna.

O del viver uman misera usanza!

Ciò che regna quaggiù tutto è incostanza.

Disperar non ti déi, se 'l tuo destino,

qui ti sospinse; alto saper divino,

solo è quel che ne guida, e regge, e move,

e dal tronco natio,

cader foglia non puote,

se non l'ordina il ciel con leggi immote.

E se di Cipro in sulle rive amene,

non posasti le piante;

queste di Sparta innamorate arene,

vaghe del tuo sembiante

daranno a te ricetto.

Fortunata città vedrai non lunge,

ov'Elena la bella,

in maestoso aspetto,

sembra qualor la sua beltà disserra,

colmo di raggi un altro sole in terra.

PARIDE

Ah s'io già mai potessi,

del palazzo real la nobil soglia,

premer col piede, e riverir con l'alma;

trovar pietosa calma,

quest'asprissima doglia,

che 'l cor mi spetra oggi potrebbe ancora.

Ma lasso! E in me pur sorge,

dolce speranza? E che sperar poss'io?

Se colà non mi scorge,

quel destin così rio,

che fra i tormenti a lacrimar m'induce,

stelle, ditemi voi, chi fia mio duce?

MELINDO

Meco ne vieni, e ti consola omai;

e quando in regia stanza oggi sarai,

con la bella regina oggi sarai,

narra le tue sventure,

dinanzi al suo bel volto,

che ben fia dal suo ciglio,

pietosamente il tuo dolor raccolto.

Poich'è gloria infinita,

di magnanimo cor, di regio petto,

porger pietoso all'altrui danno aita,

e dar propizio alla virtù ricetto.

PARIDE

Vanne ti seguo, e 'l ciel fia quello intanto,

che con benigno aspetto,

giri per te sereno,

e guiderdoni il tuo cortese affetto;

che di pietà gl'uffici,

con scultura di luce,

per man de' numi istessi,

fra i bei lumi del ciel splendono impressi.

O me infelice, o me contento appieno!

Poiché dal ciel m'è dato,

di mirar il sereno,

di quell'idolo amato,

di quell'idol, ch'adora oggi 'l cor mio,

di quell'idolo altero,

per cui languir, per cui morir degg'io.

Scena terza

Stanze di Elena.
Elena esprime la dolcezza, e la forza d'Amore; Argenia l'amarezza, e la vanità. Elena apprezza le fiamme; Argenia le disprezza, l'una stabilisce di viver amando, e l'altra di fuggire Amore.
Elena, Argenia.

ELENA

1 a

Non conosce, e non sa,

ciò che sia gioia, e diletto,

chi provato non ha,

fiamma d'amor, ch'incenerisca il petto.

1 b

Sì dolce è l'ardore,

ch'il seno m'accende,

che questo mio core,

languir per Amore,

a gioco si prende.

2 b

Lo stral che m'impiaga,

con forza possente,

fa l'alma sì vaga,

ch'adora la piaga,

e doglia non sente.

1 a

Non conosce, e non sa,

ciò che sia gioia, e diletto,

chi provato non ha

fiamma d'amor, ch'incenerisca il petto.

Già che tutto è dolcezza

il trionfante Amore,

con eterna fermezza,

sull'altar del mio sen gli sacro il core.

ARGENIA

Amor tutto è dolcezza?

Ah, che t'inganni, o bella,

non ha tanta amarezza,

l'assenzio, il tosco, e 'l fiele,

quanta ha in sé l'infedele,

amor tiranno, e crudo,

d'ogni pietà più che di veste ignudo.

ELENA

Amor pietoso arciero,

dolcemente saetta,

e saettando alletta,

né petto v'è che chiuda,

alma sì fera, e cruda,

sia in ciel, sia in mare, o negl'abissi, o in terra,

che non provi d'amor la dolce guerra.

ARGENIA

Ho core anch'io nel seno,

eppure amor non sento;

né piacer, né tormento,

mi porge il suo veleno.

Anzi del cieco dio

mi burlo, e prendo a gioco,

l'arco, lo strale, e la faretra, e'l foco.

ELENA

Sciocca sei se non prezzi,

il faretrato nume;

poich'egli ha per costume,

ferire ogn'alma, e vendicar l'offese.

Proverai ben tu ancor, tu che le sprezzi,

le saette d'amor; vinta, e trafitta,

al poter de' suoi strali ogn'alma cede;

d'amor la forza ogn'altra forza eccede.

ARGENIA

Languir d'amor ferita,

già non tem'io sin ch'avrò spirto, e vita.

ELENA

E qual schermo farai

se l'amoroso strale un dì ti punge?

ARGENIA

Questo non sarà mai,

ch'io fuggirò l'infido.

ELENA

Ma s'egli poi ti giunge?

ARGENIA

Oh di questo mi rido.

Bambino è amor; né può seguir chi fugge,

e se ben l'ali ha seco,

volar non sa poich'è fanciullo, e cieco.

ELENA

Vola pur troppo, ed ogni core infiamma:

e chi fra noi mortali,

può fuggir la sua fiamma,

s'anco ai numi immortali,

con mano accesa armi di foco avventa?

Chi fia ch'amor non senta?

Se di lacrime amare,

danno eterno tributo,

al nume suo, Giove, Nettuno, e Pluto.

Insieme

ELENA

Sì sì seguasi Amore,

che dolcemente impiaga:

quando ferisce un core,

con poco amaro molto dolce appaga.

ARGENIA

Sì sì fuggasi Amore,

che amaramente impiaga:

quando ferisce un core,

con poco dolce molto amaro appaga.

Scena quarta

Melindo presenta Paride ad Elena. Amore disceso dal cielo, saetta, e l'una, e l'altro, e poi si nasconde. S'innamorano nell'istesso punto. Elena se ne maraviglia, e domanda a Paride chi egli sia. Paride richiede altro tempo, ed altro luogo per iscoprirsi. Lodano la musica, e Paride canta. Elena, sentendosi vieppiù innamorata, invita Paride a fermarsi, e star nella sua corte.
Elena, Argenia, Paride, Melindo.

MELINDO

Bellissima regina,

guari non è, che nel cacciar le fere,

trovai nel bosco assiso,

questo nobil garzon, che qui t'inchina.

ELENA E PARIDE

Core ohimè ch'improvviso

di celeste splendor lampo t'assale?

O bellezza immortale!

ARGENIA

Gentil mi sembra e credo,

ch'alloggi in sì bel viso...

ELENA

E qual possente nume...

ARGENIA

...spirto di paradiso...

ELENA

...entro ai beati ardori...

l'anima sforza a incenerir le piume?

ARGENIA

che l'architetto eterno,

non accoppia già mai,

con sembianza di cielo alma d'inferno.

ELENA

Dimmi garzon chi sei? donde ne vieni?

PARIDE

Le mie sventure in picciol fascio.

ELENA

Ahi lassa!

Morir mi sento.

PARIDE

Accorre...

ELENA

Se 'l ciel non mi soccorre.

PARIDE

...già non poss'io; di ritrovar fia d'uopo,

ELENA

Questo che mi tormenta...

PARIDE

...comodo il tempo ed opportuno il loco...

ELENA

...è pur d'Amore il foco.

PARIDE

...che in brevi note accolti,

fia che tu sola i miei cordogli ascolti.

MELINDO

Fa' che cantando spieghi,

amorosetti accenti;

poiché suo nobil vanto,

è scior la voce al canto.

ELENA

Quanto il cantar m'alletti,

esprimer non'l poss'io; quando tal ora,

armonïosi detti,

spiega voce canora,

innamorata e sola,

sull'armonico ciel l'alma se n' vola.

PARIDE

Chi di musica umana,

con perfetta misura,

temprati ha i sensi, ancora

gradisce ed ama, un'armonia canora.

Il desiar contento,

il musico e 'l concento,

è sol di regio core,

nobil diletto, e naturale usanza;

poiché l'alto motore,

con divina distanza,

nel magnanimo sen di re sublime,

le note umane, e più perfette imprime.

Ben è ver, che sovente,

fra le corti si trova,

che di contraria stampa,

s'avvien ch'altri posseda,

o circolati, o lineati i sensi,

suol con empio pensiero,

mentre l'ignaro cor d'invidia ammanta,

schernire il canto, ed odiar chi canta.

Bellissima regina,

già che il canto t'alletta,

cantar dunque vogl'io.

Tu con dolce pietà ver me rivolta,

il rauco stile, e l'umil canto ascolta.

Bench'io da cruda sorte,

agitato, e schernito abbia nel petto,

più di languir, che di cantar soggetto.

1

Occhi bei, per cui sospiro,

in voi miro,

il tenor della mia sorte,

e quel lampo,

onde avvampo,

sol può darmi, e vita e morte.

2

Al girar de' vostri rai,

sol provai,

nel mio cor l'ardente fiamma,

e 'l tormento,

ch'ora sento,

mi distrugge a dramma a dramma.

3

Sol provare al suo dolore,

può 'l mio core,

un soave, e lieto scampo,

se in quei giri,

fia ch'io miri,

di pietade un dolce lampo.

ELENA

Le vostre sfere, o cieli,

entro gl'eterni giri,

han sì dolce armonia?

Ed io son viva o morta?

Amor di me che fia?

Vivo, e respiro, e pur morir mi sento:

provo dolce contento,

e pur l'anima langue,

ferita sono, e pur non veggio il sangue.

ARGENIA

O che soave canto!

Per soverchia dolcezza,

intenerito il core,

già corre agl'occhi a liquefarsi in pianto.

ELENA

Degni di lode invero,

sono i tuoi dolci, e misurati accenti.

Chiedi pur ciò che vuoi,

nulla fia che si neghi ai desir tuoi.

Fermati, e s'a te piace,

qui posa il piede, e al tuo dolor dà pace:

che tra delizie accolto,

a tuo piacer godrai,

entro questi soggiorni,

felici l'ore, e fortunati giorni.

Scena quinta

Cortile.
Lupino staffiero cerca di Serina damigella di corte, di cui loda la bellezza. Ma non contento di lodare, o le chiome, o gl'occhi, o la bocca, si ferma sopra le lodi del naso.
Lupino.

Per trovare la mia bella

immagine adorata,

quella spietata, quella,

che 'l mio languir non crede,

volgo, e rivolgo innamorato il piede.

Dovunque il passo muovo,

di questa corte io trovo

tutte le dame, e graziose, e belle;

ma Serina però non è tra quelle.

Te sola amo, ed adoro,

o Serina cor mio,

e di lodar la tua beltà desio.

Ma per lodarti appieno,

qual parte deggio in te lodar? la bocca?

La bocca no, che con parole altere,

mi rampogna, e mi scaccia.

Gl'occhi? o le chiome ond'io mi trovo avvinto?

Gl'occhi non già, però che dardi avventano,

le chiome no, perch'il mio cor tormentano.

Voglio parte lodar, che bella sia,

ma che rigor non abbia: in questo caso

diasi ogni lode, ed ogni pregio al naso.

Porta il naso ogni vanto,

perch'ogni volto adorna;

e se pur bella è la nemica mia,

solo il naso è cagion, che bella sia.

Poich'il naso è cagione,

che Serina sia bella,

vò con dolce favella,

cantar in lode sua questa canzone.

Cessate il sussurrar tumidi venti,

ed ascoltate i miei nasuti accenti.

1

Degno sei di lode invero,

naso bel naso gentile;

per lodarti ogn'altro stile,

a te volgo il mio pensiero:

che se in mezzo del volto esposto sei,

più bel d'ogn'altro membro esser tu déi.

2

Solo il naso orna l'amante,

né di lui mi burlo, o rido;

e l'aspetto ha del Cupido,

quando il naso ha del gigante.

Gode ciascun nell'amoroso ardore,

senz'occhi sì, non senza naso Amore.

3

Se non ho leggiadro viso,

ho bel naso almeno anch'io;

e a me piace tanto il mio,

quanto il suo piacque a Narciso.

E tal qual è il mio naso, o quadro, o tondo,

io no'l darei per tutto l'or del mondo.

Scena sesta

Ancrocco spazzator di corte, palesa a Lupino d'esser innamorato. S'accordano di cantar insieme: ma non potendo Ancrocco, per esser scilinguato, pareggiare il canto di Lupino, Lupino sdegnato si parte. Ancrocco ripiglia il canto, e scilinguatamente esprime i propri amori.
Ancrocco, Lupino.

ANCROCCO

Co, co, co, co...

LUPINO

Una gallina affé.

ANCROCCO

Co, co, co, co...

LUPINO

O maledetto Ancrocco

ANCROCCO

Co, co, cor mio per te,

mille sospiri scocco.

LUPINO

Ancrocco, ove ne vai?

ANCROCCO

E tu Lupin che fai?

LUPINO

Paleso all'aure, e ai venti,

gl'amorosi tormenti.

ANCROCCO

Piango d'Amore anch'io,

e vò con gran diletto,

a chia, chia, a chiamar l'idolo mio.

LUPINO

Provi tu ancor nel petto,

un amoroso affetto?

ANCROCCO

Ahi che purtroppo io mi distruggo, e moro,

per una be, be, be, bella ch'adoro.

LUPINO

S'io languisco infra le pene,

lodo il ciel lodo la sorte;

pur ch'io goda il caro bene,

non pavento, o laccio, o morte.

ANCROCCO

Per dar tregua a' miei tormenti,

vo' ca, ca, cantar anch'io,

e formar soavi accenti,

col cu, cupido desio.

LUPINO E ANCROCCO

Cantiam dunque uniti insieme.

LUPINO

Ma sai? Con questo patto,

fa la cadenza a un tratto.

ANCROCCO

Canta pur tu con arte,

né ti curar della mia pa, pa, parte.

Insieme

LUPINO

Cantian dunque uniti insieme,

per sanare i nostri affanni.

ANCROCCO

Cantian dunque uniti insieme,

per sanare no, no, no,

ANCROCCO

No, no...

LUPINO

Non te 'l diss'io?

ANCROCCO

No, no...

LUPINO

O come preme!

ANCROCCO

No, no...

LUPINO

S'affoga, o dio!

Per sanare i nostri affanni.

ANCROCCO

Per sanare i no, no, no.

LUPINO

Canta co' tuoi mal'anni,

o scilinguato, o sciocco;

s'io canto più con te dimmi un allocco.

ANCROCCO

O sfortunato Ancrocco!

Ma che? Purtroppo è il canto mio soave,

fugge Lupin perché 'l paraggio pave.

Fuggi pur, fuggi a volo,

ch'a tuo dispetto io vo' ca, cantar solo.

1

Quando Lilla mi consola,

io la chia, chiamo mio vanto;

lei mi ba, bagna col pianto,

e dal seno il cor m'invola.

2

S'a scherzar talor s'avvezza,

col mi ca, ca, cauto ardore,

fa che ti, timido il core,

sia in goder tanta bellezza.

3

Se disserra a' miei sospiri,

del bel sen la po, po, porta,

me, me, mente ha così accorta,

che conosce i miei martiri.

4

S'io mi struggo a dramma, a dramma,

lei si mo, move a dolore;

e poi ri, ristora il core,

nel desio che punge, e infiamma.

5

Nel provar sì gran dolcezza,

m'esce tu, turbato pianto;

poi si smo, si smove tanto

il mio cor, ch'alfin si spezza.

6

Son però dolci i martiri,

e soavi anco i tormenti,

godo sol veri contenti,

quand'io fo, formo i sospiri.

Scena settima

Stanze remote d'Elena.
Elena, ritiratasi nelle più remote stanze, esplica le fiamme che prova per Paride, da lei creduto Dorindo, e riprende le proprie affezioni, ch'obbligate al godimento de' più sublimi amori, corrano ad inchinare un così basso oggetto.
Elena.

Lassa! e qual fiamma entro il mio petto ascondo:

ardo misera amante,

e per vago sembiante,

le guance, e 'l sen d'amaro pianto inondo.

Ardo, ahi sorte infelice!

E qual conforto a tante pene, e tante,

sperare o dio mi lice!

Ahi ch'a donna real troppo disdice,

chieder a garzoncello,

d'umili nascimenti,

amorosa pietade a' suoi tormenti.

Amo, e fuggo d'amare: aspro flagello

di ragione, e d'Amore,

mi punge l'alma in un sol punto, e 'l core,

ma lassa, è schermo frale

ragion, benché possente,

contra 'l poter d'un amoroso strale;

e invan resiste il mio pensier dolente,

ch'abbatte la ragion, vince il desio,

l'alta necessità dell'ardor mio.

Scena ottava

Paride passa nelle stanze d'Elena, ed è da lei ripreso: ma discopertosi principe, ed innamorato, chiede perdono dell'ardimento, e refrigerio all'ardore. Elena vinta da sì potente assalto, gittatasi sopra il letto, fa delle proprie braccia amorosa catena al collo di Paride; e mentre si danno ai baci, Amore serra le cortine, ed esce dalla stanza.
Paride, Elena.

PARIDE

Ecco la bella ahi dolce sorte!

ELENA

O stelle!

Eccolo appunto, e chi ti fe' sì ardito,

di penetrar col piede,

dove a servo stampare orme non lice?

PARIDE

Amore.

ELENA

O me infelice!

Amor fu dunque?

PARIDE

Amore.

ELENA

O tiranna beltade,

che con aspra pietade,

m'arde, m'agghiaccia, e mi rapisce il core.

Dunque cotanto ardisce,

vil garzoncello?

PARIDE

Ahi sorte!

Provo nei tuoi rigori,

immortalmente entro 'l mio cor la morte.

ELENA

Indiscreto villano,

fuggi quanto più puoi,

se provar tu non vuoi,

l'ira di questa mano.

Ah no, resta pur resta

dolcissimo ben mio.

Perdona a quel dolor, che l'alma accora,

se t'offese la lingua, il cor t'adora.

PARIDE

Fuggir da te degg'io?

Fugga piuttosto l'alma,

da questo, cor da questo petto mio.

O bellissimo sole,

perdona omai, perdona,

con pietoso sembiante,

all'ardir, all'ardor d'un'alma amante.

Non son, non son qual credi,

sfortunato garzone:

ma nato anch'io felice

a posseder gli scettri, e le corone,

nella magion altera,

di quel gran re, che tutta l'Asia impera.

ELENA

Cieli ch'ascolto? ohimè son morta. Amore,

e quai guerre possenti,

di fiamme e di tormenti,

susciti nel mio core?

Ma qual benigna stella,

ti costrinse a lasciar patria sì bella?

PARIDE

Dalla fama sospinto,

di tue bellezze rare,

o regina vezzosa,

con dolce fiamma ascosa,

lasciato il patrio regno,

sovra volante regno,

solcai veloce, e sconosciuto il mare;

e giunto il core a vagheggiarti appena,

divenne a te davante,

di tue bellezze innamorato amante.

ELENA

Soavissima bocca,

che coi leggiadri accenti,

fiamme, e dardi in un punto avventa, e scocca.

O fortunati ardori!

Dunque è ver che per me languisci, e mori?

PARIDE

Ahi ch'al girar delle tue luci altere,

con immenso piacere,

Amore accende entro il mio petto il foco;

e mentre io vengo meno,

per soverchia dolcezza,

negl'incendi del seno,

resta fra i lacci, e moribondo il core,

trofeo di morte, e prigionier d'Amore.

ELENA

Chi fia che non t'adori,

idolo del cor mio?

Vinta o cieli son io.

PARIDE

Su su core, desio,

passioni, e potenze

di quest'anima amante,

fra tante gioie, e tante,

beate omai beate

gl'amorosi tormenti;

versate omai versate

lacrime di dolcezza,

e con dolce tributo,

di pianti, e di sospiri,

correte a vagheggiar tanta bellezza.

ELENA

Taci mia gioia, ah taci.

PARIDE

Amor, che i dardi scocca.

ELENA

Ti chiuderò la bocca,

cor mio, con questi baci.

Scena nona

Amore esplica la sua possanza, e poi volando si parte.
Amore.

1

La mia forza onnipotente,

vince ogn'ira ogni furore;

la mia fiamma ogn'or cocente,

arde ogn'alma ed ogni core.

Onde ragione,

invan s'oppone,

al poter di questo strale:

contro a forza d'amor schermo non vale.

2

Chi non ama, e non adora,

non può mai sentir diletto,

vive in pene, e si scolora,

chi non prova amor nel petto.

E la mia fiamma,

qualora infiamma,

fa soave anche il dolore,

e se sforza a morir dà vita al core.

CORO

Felicissimi amanti,

godete pur godete,

or ch'il frutto cogliete.

Fra tante gioie, di sospiri, e pianti:

e per trofeo degl'amorosi amplessi,

in su que' labbri amati,

restino i baci eternamente impressi.

Scena decima

Giardino con logge.
Argenia canta sopra la vanità degl'amanti.
Argenia.

1

Folli amanti a che vi giova,

tanto amor, tanta costanza?

Se né fede, né speranza,

in beltà giammai si trova.

2

Troppo amara è la dolcezza,

di chi spera, e vive amante,

s'in un candido sembiante,

incostante è la bellezza.

Scena undicesima

Draspo giardiniere discopre ad Argenia le sue fiamme, e dopo esser da lei beffato, ambedue separatamente si partono.
Draspo, Argenia.

DRASPO

Pur ti ritrovo alfin, quanto girai,

per mirar lo splendore,

de' tuoi lucenti rai,

te 'l dica solo il mio nemico Amore.

Ohimè come son stanco!

Lascia ch'il debil fianco,

un sol momento io posi,

e poi sciogliam la lingua,

in accenti amorosi.

Argenia, ove ne vai?

Ferma, fermati omai.

ARGENIA

Lascia, lascia ch'io parta,

indiscreto villano.

DRASPO

Fermati, ohimè, pian piano:

io villano indiscreto?

E quando mai con villania t'offesi?

Mira come son bello,

e sì bel com'io sono,

tutto mi sacro a te mio core, e dono.

ARGENIA

Errai, non sei villano,

poiché mi sembri al viso,

un bel pastor d'Anfriso.

DRASPO

Di Ciprigna, d'Astrea,

di Giunon, dell'Aurora,

son io più bello, e più leggiadro ancora.

ARGENIA

Anzi all'abito, ai membri,

se mirar deggio a tua beltà divina,

in tutto mi rassembri,

(non Latona dirò) la dea latrina.

DRASPO

Infinita bellezza,

nel mio volto gentil natura impresse,

e pure a poco a poco

per te d'amor tutta si strugge al foco.

ARGENIA

Degno sei di pietade, e a dirti il vero,

(non lo prender a sdegno)

il tuo foco d'amor merita un legno.

DRASPO

De' gravi incendi miei,

la dolc'esca tu sei;

e se merito un legno all'ardor mio,

te sola meritar dunque degg'io.

ARGENIA

Meritar non mi puoi.

DRASPO

Cieli ch'ascolto?

ARGENIA

Ammorza pure o stolto,

il tuo cocente ardore,

perché ho donato ad altro amante il core.

DRASPO

Ahi ch'il dolor m'ancide.

Così dunque infedel sommergi in Lete,

le tue promesse infide?

Così dunque crudel dispergi all'aura,

i preghi miei devoti? ah ben s'avvede,

il mio tradito, e moribondo core,

che nel regno d'Amore,

femminil giuramento,

è più legger ch'arida fronde al vento.

ARGENIA

Che promesse? che preghi?

Dunque cotanto ardisce,

un villan giardiniero,

che vuol far con le dame il cavaliero?

DRASPO

Nel bel regno d'Amore,

son cavaliere anch'io;

e all'umil sangue mio,

non sia che l'esser tuo giammai prevaglia,

ch'ogni disuguaglianza Amore agguaglia.

ARGENIA

Che vuoi da me? che brami?

DRASPO

Desio sol che tu m'ami.

ARGENIA

Io t'amo.

DRASPO

Ah crudo core!

Così ti prendi il mio dolore a gioco?

Dunque perch'io languisco,

de' tuoi begl'occhi al luminoso ardore,

e perch'io son del tuo bel volto amante,

tu sei nell'amor mio così incostante?

ARGENIA

Incostante non sono,

benché leggera io sia;

poiché la leggerezza in nobil petto,

è naturale usanza, e non difetto.

DRASPO

Donna gentil quando non ha costanza,

in crudeltade ogn'empio mostro avanza.

ARGENIA

Donna a gioire avvezza,

s'incostante non è non ha bellezza.

DRASPO

Donna leggiadra, e amante,

tanto adorata è più, quanto è costante.

Ed è vaga donzella,

quanto costante più, tanto più bella.

Costante esser tu déi,

poiché sì bella, e sì leggiadra sei.

ARGENIA

Anzi se bella io sono,

incostante esser deggio,

poiché incostante ogni bellezza io veggio,

e su nel ciel l'imperatrici stelle,

sono incostanti sol perché son belle.

DRASPO

Ah cruda...

ARGENIA

O sciocco...

DRASPO

...ah tiranna...

ARGENIA

...o insolente...

DRASPO

...m'affanno.

ARGENIA

...tuo danno.

DRASPO

Tua beltà sol mi ferì.

ARGENIA

Tua beltà sol m'affannò.

DRASPO

Voglio amarti sì sì sì.

ARGENIA

Non ti voglio no no no.

Scena dodicesima

Piazza del tempio di Venere.
Paride arriva all'isola di Citera, ed aspetta Elena fuori del tempio di Venere. Esce Elena dal tempio, e Paride la rapisce.
Con un abbattimento di Troiani, e Greci, dove i Greci, cedendo alla forza de' Troiani, dopo un'ostinata battaglia, prendono finalmente la carica, finisce l'Atto Quarto.
Paride che canta, Elena, Troiani, e Greci che non cantano.

PARIDE

Fortunato mio cor, che fai? che pensi?

Già che son fatti omai,

i tuoi piaceri, e i tuoi diletti immensi?

Come dunque potrai,

non esser lieto infra delizie tante,

or che la bella amante,

col core ardito, e forte,

s'invola al suo consorte,

e per dar lieta al viver tuo sostegno,

abbandona (o piacer!) la patria, e 'l regno.

Godi godi sì sì: son quei contenti,

che dan forza al desio,

amorosi trofei dell'ardor mio.

Già nel tempio m'aspetta,

l'amorosa diletta,

ch'a sì lungo viaggio,

per impetrar devota,

propizio il vento, e luminoso il sole,

di quella dea, che qui s'onora, e cole,

con pietosa dimora,

supplice, e umile il simulacro adora.

1

Dolcissime pene,

soavi tormenti,

godete contenti,

l'amato mio bene.

2

Nudrite l'ardore,

con teneri affetti;

fra gioie, e diletti,

beate il mio core.

Ma se in mirar non erro,

ecco appunto il mio bene, ecco il mio core;

anzi del ciel d'Amore,

ecco il sol luminoso,

che con orme devote,

del bel tempio famoso,

la foglia altera in sull'uscir percote.

Su miei fidi, alla grand'opra intenti,

ritiriamci in disparte;

e per furar la bella,

con superbi ardimenti,

s'usi ogni forza, ogn'arte.

Rapirla a Greci opra sol giusta sia:

convien, che s'Esiona a Teucri han tolta,

la vendetta d'un furto, un furto sia.

Abbattimento di Troiani e Greci.

Atto quinto
Scena prima

Fiumara nelle campagne di Troia.
Enone esprime i tormenti, e la gelosia che prova per la lontananza del suo carissimo Paride; e si consola colla speranza.
Enone.

Chi fia che mi console,

lungi dall'idol mio,

lungi dal mio bel sole,

dal mio ben, dal mio cor, dalla mia vita?

Ahi crudel dipartita!

Enone sconsolata,

tradita abbandonata,

e pur è ver che spiri,

fra sì gravi martiri?

Mori mori infelice,

esci omai di tormento; o se non puoi

morir fra tante pene,

accusa il tuo destino,

quel perverso destin che ti sostiene,

lungi da que' bei lumi,

lungi da quel bel volto,

lungi da quel bel seno;

poiché senza il sereno,

di quel sen, di quel volto, e di que' lumi,

forz'è ch'infra i cordogli,

mortalmente vivendo il cor consumi.

Piango, sospiro, e gemo;

m'adiro, ardisco, e temo,

e mentre il nome invoco,

dell'idolo ch'adoro,

fatta gelosa amante,

di gelosia mi moro.

Temo ch'ad ora, ad ora,

ponga (ahi lassa!) in oblio,

la mia fé, l'amor mio.

Pavento anco a tutt'ore,

ch'a più gradita, e desiata amante,

doni quella mercede,

che per legge d'amore,

si deve alla mia fede.

1

Chi non sa che cosa sia,

d'un amante il rio dolore,

provi al core

lontananza, e gelosia.

2

L'una invan si sprezza, o fugge,

che confonde ogni sereno,

l'altra in seno

l'alma sempre, e 'l cor distrugge.

3

L'una è un mal ch'ogni altro avanza;

l'altra è un duol ch'ogn'altro eccede;

ma la fede

può dar vita, e la speranza.

Così la fede ch'entro il mio petto alberga,

cinta ogn'ora d'intorno,

di speranze immortali,

addolcisce pietosa,

quell'immenso tormento,

ch'in mezzo al core io sento,

acciò languida al fin non possa l'alma,

fuggir dal seno, e abbandonar la salma.

E qualor col pensiero,

l'animato mio sol vagheggio, e miro,

miro ancor ne' begl'occhi,

in quegl'occhi amorosi,

veri alberghi di luce,

quella pietà ch'a impallidir m'induce.

Onde sorge sovente,

dal centro del mio core, ov'ha ricetto,

aura dolce di speme,

ch'uscita poi dal petto,

in compagnia de' miei sospiri ardenti,

sussurra ogn'or questi amorosi accenti.

Taci timida amante, e 'l rio dolore

disgombra omai dal seno;

e al tuo geloso, e moribondo core,

con vivace sereno,

porgi dolce conforto,

pria che resti languendo,

nel vasto mar de' suoi martiri assorto:

ch'il tuo leggiadro, e sospirato amante,

serba in un con la fé, l'ardor costante.

Così nel mio tormento,

spero (ahi lassa!) e pavento;

e l'afflitto mio core,

or dal dolore or dal conforto oppresso,

vive, more, e rinasce, a un tempo istesso.

1 a

O felici le pene, ch'io sento,

s'il mio bene costante sarà,

e s'ognor del mio grave tormento,

avrà dolce, e verace pietà.

2 a

Fortunata sarà la mia sorte,

e soave lo stral ch'impiagò;

s'il mio sol pria di giunger a morte,

rimirar solo un giorno potrò.

1 b

Quella fede,

che mi diede,

l'idol mio sì mi consola;

che s'al core,

ho dolore,

la speranza ognor l'invola.

2 b

Sì m'alletta,

e diletta,

lo sperar con dolce usanza;

che s'io pero,

non dispero,

poiché verde è la speranza.

Scena seconda

Oronte messaggero di Paride, camminando inverso Troia, per dare, annunzio a Priamo della rapina d'Elena, e dell'arrivo d'ambedue, s'incontra in Enone, da cui gli viene insegnata la strada. Enone, discorrendo con Oronte, intende il ritorno di Paride, e si rallegra: ma soggiungendo Oronte, che arriverà con Elena, cangia in uno stante l'allegrezza in cordoglio. Oronte seguita con ogni prestezza il suo viaggio; ed ella ansiosa d'intender più distintamente il successo, gli va dietro per raggiungerlo.
Oronte, Enone.

ORONTE

Ninfa cortese, e bella,

il ciel sempre ti sia,

ne' tuoi giusti desir custode, e duce;

con leggiadra favella,

additami la via,

ch'alla città conduce.

ENONE

Movi pur senza tema i passi tuoi;

altra via non si trova, errar non puoi.

Ma chi sei tu ch'affretti,

o gentil peregrino,

sì anelante il cammino?

ORONTE

Di Paride son io fido messaggio.

ENONE

Dov'è Paride? o dio! forse è in viaggio?

ORONTE

Di Grecia egli ritorna,

nelle guerre d'amor già trionfante,

e giungerà in brev'ora,

a far dolce dimora,

con la sua bella, e sospirata amante.

ENONE

O me felice! Amore,

sana omai le mie pene,

già che torna il mio bene,

a consolarmi il core.

E di me che ti disse?

ORONTE

E chi sei tu? Vaneggi?

ENONE

Ohimè che fia,

Enone sventurata?

Che parli tu d'amante, o pur d'amata?

ORONTE

Tu non m'intendi ancora? Egli m'invia,

a dar felice annunzio,

della dolce rapina.

ENONE

E che rapina?

ORONTE

Rapì dal lido greco,

di Menelao la sposa,

quella donna in beltà così famosa.

ENONE

E la conduce seco?

ORONTE

Ma qui tempo non ho da far soggiorno.

ENONE

O maledetto giorno!

Fermati ancora.

ORONTE

A dio.

ENONE

Sfortunato ardor mio!

Ma in qual fiero martir mi lasci involta?

Sospendi il passo, o messaggero, ascolta.

Scena terza

Strada remota della città, con arbori, e rovine.
Ergauro servo di Medoro, mentre porta il vino al padrone, venutogli sete, tenta d'aprir la cassetta, in cui sono rinchiuse l'ampolle; e non potendola aprire si sdegna. Apertala finalmente, assaggia il vino, e trovatolo esser dolce, ne beve a poco a poco tanto, che alla fine s'inebria.
Ergauro.

Il mio signor, che tanto

è nel parlar cortese;

ma nel farmi le spese,

mercé del mio destino,

va sì pesato, e parco,

di portargli un buon vino,

mi diede l'usato incarco.

Come, oh come è pesante,

questa nobil cassetta!

E quante ampolle, e quante,

dentro il gravido sen rinchiude, e serra?

Oh che grave fatica! omai la sete,

mi comincia a far guerra.

S'alfin l'aprissi, e che sarebbe? Ardire,

che potrammi avvenire?

No no però, no no,

aprire io non la vo',

che se 'l padron s'avvede,

mi darà col bastone aspra mercede.

Egli è però sì avaro,

ed ha sì gran cervello,

che per farmi un licor lucido, e chiaro,

ad or, ad or la mia bevanda adacqua,

e a guisa d'asinello,

vuol che s'io porto il vin beva poi l'acqua.

Insomma aprir la voglio. Ecco la chiave.

Oh che spirto soave,

mi punge il naso! e che? c'è forse il mastro,

in questa chiave, e rugginosa, e antica,

che con tanta fatica,

ancor non posso investigar l'incastro?

T'aprirò se credessi,

gittarti in mille pezzi,

né mi curo un quattrin se ben ti spezzi.

Ohimè s'è storta! iniquo ciel che fai?

ti voglio aprir co' denti,

che sì che t'aprirai?

Ti volgerò sossopra

ma sarà inutil opra,

poiché il licor si spanderà per tutto.

Non sia però mai vero,

ch'io ti debba portare a labbro asciutto.

Voglio provar pian piano;

mi riesce il pensiero.

Vo' veder se la chiave,

insino al fondo arriva.

Già già si volge; eccola aperta, evviva!

Quattro, e quattr'otto. Oh che color vivace!

Padron sia con tua pace,

io vo' succhiarne alquanto.

Ma non vo' trarne tanto

che mi debba scoprir; sol col cinabro,

della mia bocca asciutta,

andrò lambendo dell'ampolla il labbro.

Oh come è dolce! io ti berrei pur tutta!

ancora un sorso! ancora! o come scende,

senza fatica alcuna!

Così lieta fortuna

ancor non ebbi mai.

Padrone, e che dirai?

Dirai che t'ho tradito?

Di' pur ciò che tu vuoi,

non curo i gridi tuoi.

Mi farai col bastone,

sudar forse il dativo?

M'hai battuto altre volte, e pur son vivo.

1

Soavissimo licore,

che mi dai sì gran diletto,

deh riscalda anco il mio petto,

col tuo dolce, e grato ardore.

La tua forza è sì gradita,

ch'ai piaceri ogn'alma invita.

2

Oh che gioie, oh che conforti,

porgi al core, e all'alma amante!

Il cervel sia pure errante,

pur ch'il sen t'accolga, e porti.

Col vigor che in te si serra,

si pon fine ad ogni guerra.

Ma quai prodigi io miro?

A mezzo delle stelle?

Ohimè quest'è un sospiro.

Mira come son belle!

Ah, ah, ah, ah son tanti,

innamorati amanti.

Ma già pien di furore,

vorrei cozzar col cielo. Iniquo Amore,

ancor mi sei tiranno?

Non sento l'affanno, non temo l'inganno,

Amore da poco, tuo foco è per te.

Io son quel mostro, il quale

tutto 'l dì corre a volo,

dall'uno all'altro polo.

Ohimè dolente, ohimè;

mi par di venir meno;

sì sì mi sento male;

no no mi passa or ora,

vo' che m'accolga in seno,

la mia bella Lisetta.

Aspetta pur cruda tiranna, aspetta.

La bella rubella, che snella se n' va,

diletto perfetto, nel petto mi dà.

S'io miro, sospiro, deliro così,

ch'al dardo d'un guardo, tutt'ardo sì sì.

Ma in pene la spene mantiene mia fé;

ch'amante prestante costante sempr'è.

Scena quarta

Libreria.
Medoro precettore de' paggi, ammaestra Irseno, ed Ermillo. Eglino, invece d'apprender la lezione, contemplano le figure favolose d'Esopo. Accorgendosene Medoro, gli riprende: ma rispondendo eglino, che per esser nobili, non gli sia necessario lo studiare, deridendolo si partono.
Medoro, Irseno, Ermillo.

MEDORO

V'ho insino ad or mostrato,

con verace favella,

ch'ogni entità s'appella,

misura, o misurato.

Omai sarà mia cura,

il dichiararvi ciò che sia misura.

Ella è certa entità,

che chiaramente addita,

l'altrui perfezione, o quantità.

Norma, e regola ancora,

suol chiamarsi talora.

Regola della vita,

norma delle scienze,

come s'appelli vi dirò: ma pria,

vo' dimostrar che triplice ancor fia.

Così voglion le leggi.

ERMILLO

Mira l'agnel, che geme.

MEDORO

De' più dotti maestri.

E tu che leggi?

ERMILLO

Leggiamo uniti insieme,

le favole d'Esopo.

MEDORO

E che sì ch'il cervello or or vi scopo,

infingardi che siete.

Così dunque apprendete,

e l'arti, e le scienze,

che con tante sentenze,

ad or ad or vi scopro?

Ah ch'invano per voi la mente adopro.

IRSENO

Io ti rinunzio ogni scienza, ogn'arte;

prendi pur la mia parte.

Studiare, a che mi giova,

se nobile son io?

Tu ch'ignobile sei,

studiar déi, studia pur, maestro a dio.

Scena quinta

Medoro, dolendosi d'esser schernito, discorre sopra la virtù, e sopra la nobiltà.
Medoro.

Studiare a che mi giova

se nobile son io!

Oh generosa prova! o cieli! o dio!

Dunque fra noi dovrà,

chi sol di nobiltà,

fatto è dal cielo erede,

sprezzar colui, che la virtù possede?

Troppo, ahi troppo s'inganna!

Ché nobiltà verace,

è sol d'un'alma una virtù vivace.

E l'intelletto appanna,

chi a creder ciò s'avvezza;

nobil non è chi la virtù disprezza.

Ché magnanimo core,

con generoso ardore,

magnanimi pensieri ancor nutrisce;

e all'altezza del sangue

la nobiltà della virtute unisce.

Onde chi vive, e spira,

e a nobiltate aspira,

coprasi pur della virtù col manto;

ché chi se n' va d'ogni virtude ignudo,

ignudo ancor di nobiltate ha il vanto.

1

Fra mortali assai più degna,

è virtù che nobiltà;

se ben l'una impera, e regna,

e sta l'altra in povertà,

glorïosa virtude, oh quanto vale!

Che non ha pregio al suo gran merto uguale.

2

Sempre vive, e mai non pere,

questa nobil deità;

gl'anni ancide, e 'l tempo fere,

cinta ognor d'eternità.

Contra l'oblio fa riportar vittoria,

che se povera è d'or, ricca è di gloria.

3

Nobiltà vien da natura,

ma virtute è don del ciel;

l'una resta ignuda, e oscura,

l'altra veste immortal vel.

Ceda a virtù la nobiltà la palma;

l'una regna nel cor l'altra nell'alma.

4

L'alma sol dal ciel deriva,

e natura il sangue dà;

la virtù con l'alma è viva,

e col sangue nobiltà.

Ceda, se l'una vive, e l'altro langue,

natura al cielo, e ceda l'alma al sangue.

5

Nobiltà gradita, e bella,

con virtù solo esser può;

ma virtù qual chiara stella,

nobiltà non cura no.

L'una sorge fra l'or, cade in brev'ore;

l'altra povera nasce, e mai non more.

6

Or se langue, ed è sì frale,

nobiltà nobil non è;

ma virtù poich'è immortale,

esser nobile sol dé.

O sia d'oscuro, o chiaro sangue erede,

nobile è sol chi la virtù possede.

Scena sesta

Portico con giardino in lontananza.
Enone, non avendo potuto raggiungere il messaggero, perviene anch'ella alla corte, per ritrovarlo.
Enone.

Dove misera dove,

Enone abbandonata,

volgi fra questi alberghi il passo errante?

Ferma ferma le piante,

che quivi forse potrai,

dal fido messaggero,

d'ogni successo investigare il vero.

Come possibil sia,

ch'il tuo Paride amato,

il tuo nume adorato,

il tuo core, il tuo bene, il tuo diletto,

dia già nel seno ad altri amor ricetto?

Creder ciò non poss'io,

e pur mi disse il messaggero, (o dio!)

che con voglia amorosa,

corse a rapir di Menelao la sposa.

Ma se fia che tradita,

il tuo crudele amante,

abbia omai quella fede,

che tante volte ei t'ha promesso, e tante;

ritorna pur ritorna,

con sì acerba mercede,

a lacrimar dentro una selva oscura,

del tuo misero ardor l'empia sventura.

Scena settima

Irseno, ed Ermillo vedono Enone, ed invaghitisi della sua bellezza, procurano di rapirla: ma venuti a contesa sopra l'elezione del luogo, in cui debbano condurla, Enone gli esce dalle mani. Venuti finalmente all'armi, Ermillo resta ferito, e sentendosi vicino al morire, si duole della sua sventura, non sapendo da chi ricever conforto.
Irseno, Ermillo, Enone.

ERMILLO

Oh che bel volto!

IRSENO

Oh che begl'occhi!

ERMILLO, IRSENO

Amore,

e chi sarà costei?

IRSENO

L'hai più veduta?

ERMILLO

Io mai la vidi.

IRSENO, ERMILLO

O dèi!

Sento infiammarmi il core.

ENONE

Da' miei rustici alberghi,

in questi regi chiostri,

fatto ho indarno il viaggio,

s'io non trovo il messaggio.

IRSENO

Vogliam prenderla?

ERMILLO

E poi,

che ne farem?

IRSENO

La condurremo altrove.

ERMILLO

Ma che sarà di noi,

se 'l re s'accorge?

ENONE

E dove,

volgerò più per ritrovarlo il piede?

ERMILLO

Pensiam, pensiamo alfine;

poiché se n' corre a ritrovar gl'affanni,

chi dagli inganni i suoi contenti spera.

IRSENO

Chi con audacia altera,

disprezza le ruine,

degno è di lode ognora.

ERMILLO

Oh che bellezza estrema!

Amoroso desio vince ogni tema:

farò senza dimora,

anch'io ciò che tu vuoi.

ENONE

Che volete da me? chi siete voi?

IRSENO

Bellissima donzella,

il tuo leggiadro, e luminoso sguardo,

solo è cagion, ch'io mi distruggo, ed ardo;

poiché nel ciel del tuo bel volto assiso,

arcier di paradiso,

fra sì rare bellezze,

sta sempre intento a fulminar dolcezze.

ENONE

Troppo affanno a lodarmi inver ti prendi;

attendi pure a' tuoi pensieri attendi,

né ti curar di me;

bella o brutta ch'io sia, non son per te.

IRSENO

Tu mi scacci, io t'adoro: idolo amato,

mi fan gli sdegni tuoi lieto, e beato.

ENONE

Nascono i pensieri miei,

da un cor puro, e modesto.

Lascia, lasciami, oh là; ch'ardire è questo?

Insolente che sei?

IRSENO

Risponderti sdegnoso a me non tocca,

lo stral che m'apre il cor, chiude la bocca.

Vieni vieni ben mio.

ENONE

Che forza è questa? Ohimè.

ERMILLO

Taci mia vita.

IRSENO

Spingila tu.

ERMILLO

Ma dove andrem con lei?

IRSENO

Lo so ben' io.

ERMILLO

Lo vo' saper anch'io.

IRSENO

Prender cura di ciò tu non ti déi.

ERMILLO

E perché no? vo' che ne venga or ora,

non dove a te: ma dove a me sol piace.

ENONE

Sorte infelice!

IRSENO

Ancora,

hai tanto ardir codardo?

ERMILLO

Un codardo sei tu, villano indegno.

IRSENO

Prendi questo pegno.

ERMILLO

E tu prendi quest'altro.

ENONE

Ma non sarà già tardo,

il mio piede a fuggire.

IRSENO

Eccoti il ferro.

ERMILLO

Non ricuso l'invito.

IRSENO

Difenditi se sai.

ERMILLO

E che mal mi farai?

IRSENO

Lo sentirà 'l tuo petto.

ERMILLO

Pungi pur ch'io t'aspetto.

Non posso più son morto:

tu m'hai ferito, o traditore a torto.

1 a

Già trafitto ho il mesto seno,

chi soccorso, o ciel mi dà?

Già languisco, e vengo meno,

già il mio cuore a morir va.

2 a

Questa misera mia vita,

sostenersi ohimè non può.

S'io non ho concorso, e aita,

infelice, e che farò?

Scena ottava

Ergauro, avendo col dormire discacciata l'ebbrezza, con un'ampolla di vino in mano, esprime il suo contento. Ascolta i lamenti d'Ermillo, e mosso da compassione, lo consola col vino.
Ermillo beve, e riavuto alquanto gli spiriti vitali, appoggiatosi al braccio d'Ergauro, si parte.
Ergauro, Ermillo.

ERGAURO

1

Quei bei luciferi,

che mi confondono,

raggi fiammiferi,

nel cor m'ascondono.

2

Fan sì piacevole,

quel duol ch'esanima,

che lacrimevole,

non è mai l'anima.

3

Sian sempre stabili,

quei rai ch'accendono,

che variabili,

più non risplendono.

4

Mia fé non varia,

come volubile,

ma è volontaria,

e indissolubile.

5

Già mai non termina,

poich'è invincibile,

fede che germina,

sempr'è infallibile.

ERMILLO

3 a

Spargo gl'ultimi sospiri,

dico già l'ultimo ohimè;

ma gl'acerbi miei martiri,

chi conforti (o dio!) non v'è.

ERGAURO

Sento una voce querula, e dolente

né so dir dove sia:

miro, ascolto, mi volgo, e non si sente.

Sarà la fantasia

ch'incostante vaneggia,

alterata dal sonno,

e da un umor già stracco,

di quel licor, che tanto piace a Bacco.

Ma non m'inganno, o sventurato Ermillo!

Ohimè, par che sia morto.

ERMILLO

E chi già mai per sollevarmi alquanto,

e m'agita, e mi crolla?

ERGAURO

Gli porgerò conforto,

con quest'ultima ampolla.

Brindesi Ermillo.

ERMILLO

Ohimè ch'io son ferito,

ERGAURO

Bevi meschino.

ERMILLO

E già rimasto esangue.

ERGAURO

Con altrettanto vino,

vo' che rimetti entro le vene il sangue.

Bevi.

ERMILLO

Non posso ohimè.

ERGAURO

Bevi ch'è dolce.

Bevi ti dico, bevi.

ERMILLO

O cruda sorte!

ERGAURO

O che buon vino! ascolta!

Ferma Ermillo, che fai? tutta in un fiato?

ERMILLO

Sì sì son consolato.

ERGAURO

Appoggiati.

ERMILLO

Sta' saldo.

ERGAURO

Sì sì: ma ve' con questo patto espresso,

fa' forza anco a te stesso,

perché vacillo anch'io.

ERMILLO

Oh che grave dolore! oh cieli! oh dio!

Scena nona

Stanze di Priamo.
Priamo ricevuto l'avviso del ritorno di Paride, e della rapina d'Elena, ne dà informazione ad Ecuba, e ripieni d'allegrezza vanno a dar gl'ordini necessari, acciò sieno preparate le nozze.
Priamo, Ecuba.

ECUBA

Qual soave allegrezza,

il tuo pensiero accoglie,

poiché colme di gioia, e di dolcezza,

scopro omai le tue voglie?

Fammi degna, o mio sire,

di goder teco ogni minuta parte,

di quel ch'il cielo al tuo gioir comparte.

PRIAMO

Oh me felice, oh me contento a pieno!

Per l'immensa allegrezza,

ebbro di gioia il cor trabocca in seno.

Felicissimo giorno! oh giorno altero,

in cui d'onore, e di splendor s'accresce,

il nostro invitto, e glorïoso impero.

Paride nostro, oh figlio amato, e degno!

colà nel greco regno,

per vendicar di mia sorella il torto,

rapito ha già dal porto,

con risoluta mano,

dell'infido spartano,

la riverita, ed adorata sposa.

ECUBA

Oh vittoria immortale, e glorïosa!

Oh caro e dolce figlio!

figlio prudente, e saggio,

che con tanto periglio,

d'Esiona infelice,

vendicato ha l'oltraggio!

E giungerà in brev'ora,

a far con noi dimora?

PRIAMO

In questo punto istesso,

con immenso diletto,

il caro figlio, e la sua bella aspetto.

ECUBA

Felice amata, e fortunato amante,

venite pur venite,

ad avvivar di questi lumi i rai.

PRIAMO

Con ordine incessante,

si preparino omai,

gl'imenei gloriosi,

a sì felici, e fortunati sposi;

acciò sia questo giorno,

sol di letizia, e di trionfo adorno.

PRIAMO E ECUBA

Resti pur la noia ascosa,

i disdegni omai sian spenti,

con vittoria sì festosa,

godan sol gioie, e contenti,

le nostr'alme, e i nostri cori:

apra il cielo i suoi splendori,

a bear sì lieto dì;

allegrezza sì sì.

Scena decima

Anticamera di Ecuba.
Filinda damigella si rallegra d'esser innamorata, e loda la dolcezza d'amore.
Filinda.

1

Deh soffri o mio cor costante,

quel duol che languir ti fa;

poich'è trofeo d'un amante,

penare per gran beltà.

2

Amore fa poi gioire,

un'alma che serba fé

che s'egli ben sa ferire,

sa porger ancor mercé.

Scena undicesima

Enone, per non esser più molestata da' paggi, vestitasi da ragazzo, va cercando il messaggero; Filinda ingannata dall'abito se n'innamora, discorrono insieme, ed Enone, fingendo d'esser persuasa, promette d'amarla.
Enone, Filinda.

ENONE

Cieli, e dove son io?

Che ancor non posso investigare il vero,

di ciò ch'il messaggero,

disse dell'idol mio.

FILINDA

Oh che bellezza estrema!

ENONE

Ma non avrò più tema,

sotto queste virili, e finti spoglie,

che i garzoni di corte,

m'usino oltraggio. E pure

fra tante mie sventure,

nell'uscirgli di mano,

mi favorì la sorte.

FILINDA

Vagheggio in quel bel volto,

in picciol giro il paradiso accolto.

Oh bell'idolo mio!

Già nel regno d'Amor per te son io,

senza trovar difesa,

vinta, e trafitta, incatenata, e presa.

ENONE

Fra i dubbiosi pensier, mi par ch'il core,

nunzio sia di dolore.

FILINDA

Amore egli mi sembra;

poiché tutto è bellezza,

poiché tutto è dolcezza.

Ma come è dunque Amor, s'ale non veggio?

Benda non ha? strali non porta? ahi lassa!

Ed è ver ch'io vaneggio?

A gl' atti, ai moti, alle parole, ai guardi,

ahi ch'è purtroppo Amore.

Arco ha nel ciglio, e ne' begl'occhi ha strali,

la benda ha nel mio petto,

che con dolce rigore,

mi stringe l'alma, e m'incatena il core;

l'ale ha dato al mio seno,

acciò del suo bel volto al vago sole,

innamorato il mio desir se n' vole.

ENONE

Lassa! che far degg'io?

Enone, e che risolvi?

FILINDA

Vo' farmi ardita, e discoprir l'ardore:

no, ch'ho vergogna.

ENONE

Amore,

Amor tu sei cagion del mio languire!

FILINDA

Ardir Filinda, ardire!

ENONE

Quest'è la data fede,

FILINDA

Che vergogna non è chieder mercede.

ENONE

Perfidissimo amante?

Così col tuo sembiante,

porgi all'aspro mio duol conforto, e pace?

FILINDA

Ma s'ei d'Amor la face...

ENONE

Qual mai di neve algente...

FILINDA

...orgoglioso non sente...

ENONE

...nudrisci alma nel core, e cor nel seno?

FILINDA

...fia che si sdegni appieno.

ENONE

Così tradirmi o reo?

FILINDA

No no, ch'io non l'offendo, anzi trofeo,

fia di sì bel sembiante,

languir, morire a que' begl'occhi avante.

ENONE

In mezzo alle sventure...

FILINDA

E pur'io temo, e pure..

ENONE

...e tu crudel destino...

FILINDA

..a quel volto divino...

ENONE

...perché serbarmi in vita?

FILINDA

...d'appressarmi non son cotanto ardita.

No no non più timore,

senz'occhi è sì, non senza lingua Amore.

ENONE

Ahi dolore! ahi tormento!

FILINDA

Ahi lassa! e ancor pavento?

Alma di gioia vaga,

se desia di sanar mostri la piaga.

Qual mai di duol funesta nube ingombra,

il celeste splendor del tuo bel volto?

Hai forse Amore entro il tuo seno accolto?

ENONE

Purtroppo ha nel mio petto,

Amor seggio, e ricetto.

FILINDA

Qual deità celeste,

già mai t'accese il seno?

ENONE

Può solo alma costante,

la ferita scoprir, ma non l'amante.

FILINDA

Chi di trovar desia,

medicina ed aita,

scopra insieme, e l'amante, e la ferita.

Io te solo adoro,

io che d'acuto strale,

ferito il cor mi sento,

io che per te mi moro,

a te dolce contento,

per trovar refrigerio al cor che geme,

scopro l'amante, e la ferita insieme.

ENONE

Ohimè ch'ascolto! Ecco quest'altra. Ahi lassa!

D'esser sicura invan presumo, e spero,

sotto mentite spoglie,

dagl'oltraggi d'amor vano, e leggero;

poiché l'esser (m'aveggio)

femmina è mal: ma l'esser maschio è peggio.

FILINDA

Ohimè par che si sdegni!

Alma di questo core,

non ti sdegnar s'io t'amo.

Questo amoroso ardore,

ond'io tutta mi struggo, avvampo, ed ardo,

nasce sol (dolce ben) dal tuo bel guardo.

S'io t'amo, e s'io t'adoro,

vita dell'alma mia,

colpa di me non sia,

ma sol de' tuoi begl'occhi,

de' tuoi begl'occhi, ond'io son vinta, e accesa;

di que' begl'occhi (ahi lassa)

che con lampi di foco,

ebber sì pronta a danno mio l'offesa.

ENONE

Come ferita sei,

(oh che strana follia!) dagl'occhi miei?

Omicida già mai non fia il mio guardo,

che per ferir donzella io non ho dardo.

FILINDA

Dardi al mio core avventa,

con disusata forza,

Amor ch'armato entro quei lumi alloggia.

ENONE

Chiedi ad Amor pietà, s'Amor t'accora;

colui che ti piagò, ti sani ancora.

FILINDA

Puoi tu sol risanar l'aspra mia piaga.

ENONE

Gentil fanciulla, e vaga,

soddisfar io non posso al tuo desio,

se ciò che brami tu, lo bramo anch'io.

FILINDA

Perché appagar tu non mi puoi? Se brami

ciò che tanto desio, dunque tu m'ami;

però ch'altro non voglio (oh me beata!)

ch'esser da te dolce mio core amata.

ENONE

Tu languisci io languisco:

egual destino accoppia,

la tua con la mia voglia,

né consolar si può doglia con doglia.

FILINDA

Narrami il tuo dolore,

idolo del cor mio.

ENONE

Discoprir no'l poss'io.

FILINDA

Palesato martir fassi men grave;

né trovar al suo duol pace soave,

può chi tacito adora;

chi nasconde il suo mal degno è che mora.

ENONE

Costei pur mi tormenta, e non m'intende;

ed io qui spiego ai venti,

metaforici detti, e oscuri accenti.

Di fallace speranza,

vo' che si pasca il core,

e acciò da me si parta,

finger d'amar con simulato ardore.

Già che in corte mi trovo,

uopo mi sia di cortigiana usanza;

poiché con opre, e con parole accorte,

la simulazion sta sempre in corte.

Io t'amo o bella, ed ho nel cor scolpita,

la tua vaga beltà dolce mia vita.

Ma per breve dimora,

consenti almen pietosa,

ch'omai me n' vada a riposare il fianco;

che da un lungo cammino,

tutto mi trovo addolorato, e stanco.

FILINDA

Se stanco hai pur di riposar desio,

riposa entro 'l mio grembo,

anima del cor mio.

Dunque tu m'ami?

ENONE

Io t'amo anzi t'adoro.

FILINDA

Mentre in sì dolci, e dilettosi accenti,

ver me la lingua sciogli,

da soverchia dolcezza,

entro 'l mio cor trafitta,

o dell'anima mia dolce ristoro,

io vengo meno, impallidisco, e moro.

ENONE

Moro anch'io se ti miro, e sol desio,

entro un candido sen morire anch'io.

Insieme

FILINDA

Entro l'acceso ardore,

ben mio moriam d'Amore,

con fortunata sorte,

che nel regno d'amor vita è la morte.

ENONE

Entro l'acceso ardore,

cor mio moriam d'Amore,

con fortunata sorte,

che nel regno d'amor vita è la morte.

Scena dodicesima

Piazza col palazzo reale in prospetto.
Ermillo perdona ad Irseno; il qual con Ergauro procura di vedergli la ferita: ma non trovandosi in Ermillo altra ferita, che l'impressione, Irseno se ne rallegra, e con essolui si parte. Ergauro resta attonito, e stupefatto della sciocchezza d'Ermillo, ed avendo inteso avvicinarsi il tempo delle nozze di Paride, con Elena, stabilisce di porger anche egli allegrezza a sé stesso.
Ermillo, Irseno, Ergauro.

ERMILLO

Deh non far più ch'io senta,

di tue preghiere il suono:

o ch'io viva, o ch'io mora, io ti perdono.

IRSENO

È un effetto il perdono,

di piacevole ingegno,

e magnanimo cor mostra, e palesa,

colui ch'è pronto a perdonar l'offesa.

ERGAURO

Scorger or or potremo,

se questa tua ferita,

sia leggera, o mortale.

ERMILLO

Ohimè soccorso, aita,

novo dolor m'assale.

ERGAURO

Stendi, stendi le braccia.

Sostienlo tu fin ch'io gli scingo il petto

IRSENO

Discaccia pur, discaccia

ogni tema di morte, ogni sospetto.

ERGAURO

Ma dov'è il sangue? o sciocco!

Credi d'esser ferito, e non sei tocco.

IRSENO

Fortunato son io,

se ciò fia ver.

ERMILLO

T'inganni,

che purtroppo ferito è il petto mio.

ERGAURO

Come ferito è il petto

se pertugio non hai nemmen sui panni?

ERMILLO

Dunque è ver ch'io deliro?

IRSENO

La tua ferita Ermillo,

fu timor, non effetto.

ERMILLO

Ohimè respiro.

IRSENO

Andiamne, e nel tuo core,

raffrena omai d'ogni timore il moto.

ERGAURO

Ed io pien di stupore,

muto rimango in un sol punto, e immoto.

O sciocchezza infinita,

d'un animo leggero!

o stupore! o portento! ed è pur vero,

ch'improvviso timore il sangue agghiaccia,

e abbandonato il core,

dal suo nativo ardore,

timido poi l'impressioni abbraccia.

Ma già che per mirar nozze sì belle,

già fugate le stelle,

con armonia gioconda,

lieto si mostra il ciel, la terra, e l'onda.

Col vin dolce, e delicato,

alla mia Lisetta appresso,

esser voglio anch'io beato.

Poiché il bere,

è un piacere,

che mi sta nel core impresso.

E con dolce contento,

fra l'ardor degli amori, e quel del fiasco,

mille volte in un dì moro, e rinasco.

Scena tredicesima

Arriva Paride, ed Elena in Troia, Enone gli vede, e si rammarica.
Paride, Elena, Enone.

PARIDE

Queste mura beate,

saran di tua beltà degno ricetto.

ELENA

Altra stanza il mio petto,

non desia che 'l tuo core,

per viver lieta entro al beato ardore.

PARIDE

Ahi che 'l mio cor da questo petto uscio,

sol per viver in te dolce cor mio.

ENONE

Cieli che veggio? Amor che miro? ahi sorte?

Oh speranze infelici,

nel mar d'amor, fra le tempeste absorte?

PARIDE

Anima del mio cor, sei forse stanca,

di sì lungo viaggio?

ELENA

Stanca non son, che de' tuoi lumi il raggio,

entro al mio petto ogni vigor rinfranca.

ENONE

Questa fia la cagione,

per cui tradimmi il traditor fellone.

PARIDE

Andianne dunque, andiamo,

a ricever omai,

da' miei gran genitori,

i meritati onori.

Scena quattordicesima

Enone si duole amaramente d'essere stata abbandonata da Paride, e dopo una lamentevole esagerazione si parte; risoluta di morire, per non viver in continuo tormento.
Enone.

Ma perché non uccido,

il traditore infido?

Mora l'empio. No no viva pur viva,

il disleale indegno,

serbisi pur lo sdegno,

alma che saggia a vendicarsi aspetta,

fa con danno maggior poi la vendetta.

Perfidissimo amante,

d'ogni mostro infernal mostro più fero;

fu questo il guiderdone,

della mia fé, dell'amor mio sincero?

Dopo ch'arsi costante,

al soave splendor del tuo bel volto,

dopo ch'ebbi raccolto,

per te nel seno un vasto mar d'affanni,

con bugiarde promesse, e veri inganni,

senza prender pietà de' miei tormenti,

(oh traditor crudele!)

abbandonarmi, e scior le vele ai venti?

Ah che furon bugiardi i tuoi sospiri:

ah che non fu mai vero,

che scintilla d'Amore,

per me t'ardesse, e incenerisse il core:

ah che non fosti amante, o se pur fosti,

fosti sol per tradir chi t'era amante,

vario in amar; ma in variar costante.

E mostrasti (infedele) all'ardor mio,

lusinghiera pietà, verace orgoglio,

e costanza di vetro, e cor di scoglio.

Che farò sfortunata? ah più non fia,

che m'inganni, o m'alletti,

aura dolce di speme,

d'impietosir colui ch'al mio dolore,

armò di ghiaccio, e di diamante il core.

Che 'l disleale infido,

di mille morti reo,

già che la data fede

e me dolente abbandonar poteo,

dée con eterno riso,

dolcemente gioir delle mie pene,

or che gode d'amor l'ore serene,

in amoroso impaccio,

già fatto amante ad altra donna in braccio.

Che farò dunque? ahi lassa!

Vivrò sol per languire?

Languirò forse intanto,

per viver sempre in pianto?

A morire! a morire!

Abbandonata, e priva,

di conforto, e d'aita,

più non curo la vita,

più non fia ver ch'io viva.

1

Già che a morte amor mi chiama,

morirò lieta, e costante;

e potrò fatt'ombra errante,

agitar chi mi disama.

2

Forse ancor chi mi tradisce,

proverà tormento eterno,

e faralli un crudo inferno,

quel bel cielo, in cui gioisce.

Mori dunque infelice!

Sazia pur col morir l'empia tua sorte!

Mori misera amante!

Porgi omai con la morte,

un tenebroso oblio,

a anti affanni, a tante pene, e tante!

Mora, mora il cor mio!

Poiché s'indarno ogn'altra aita io chiamo,

per uscir di cordoglio,

altro piacer che 'l mio morir non bramo:

e in sì misero stato,

a questo core amante,

privo d'ogni speranza,

per iscampo al morir sol morte avanza.

Così da' miei tormenti,

fia ch'ogni ninfa apprenda,

a non creder già mai ch'avvampi ed arda,

innamorato il core,

qualor lingua bugiarda,

con lusinghieri accenti,

scopre fiamma d'Amore:

poiché talor si trova,

che d'alma infida, ed alle frodi avvezza,

ciò che prega la lingua il cor disprezza.

E chi presume, e spera,

in giovanil beltade,

trovar costanza, e fedeltà sincera,

spende indarno l'etade;

invan spera, invan prega, invan s'affanna,

chi si fida in altrui, sé stesso inganna.

Scena quindicesima

Sala reale.
Priamo, ed Ecuba, accompagnati da tutti gl'altri Principi, Principesse troiane, lodano la bellezza d'Elena, ed ella si dedica ad amendue per figliuola. Esprime la perdita fatta del suo regno per seguir Paride; e Priamo, promettendole maggior imperio, la concede a Paride in moglie. Col ballo, che poi segue di Principi e Principesse, finisce il quinto atto, e tutta l'opera insieme.
Priamo, Ecuba, Paride, Elena, tutti gli altri Principi, e Principesse che non cantano.

ECUBA

E qual lingua già mai,

lodar potrebbe a pieno,

il celeste sereno,

de' tuoi lucenti rai?

Le tue bellezze rare,

al par del sol son luminose, e chiare.

PRIAMO

Tanta beltà non vuole,

lode caduca, e frale.

Taccia lingua mortale;

che per lodare un sole,

forz'è che sempre innamorate, e belle,

sulla cetra del ciel cantin le stelle.

ELENA

Qual io sia, vostra sono;

e figlia, e serva a voi mi sacro, e dono.

Insieme

PRIAMO

Come figlia t'abbraccio,

e come padre intenerito il core,

nel dolce affetto io mi distruggo, e sfaccio.

ECUBA

Come figlia t'abbraccio,

e come madre intenerito il core,

nel dolce affetto io mi distruggo, e sfaccio.

PARIDE

Padre, questa, è colei, per cui mi moro,

questa, è quella beltà, che tanto adoro.

ELENA

Padre, questo è colui, ch'è la mia vita;

e per seguir sì prezïoso pegno,

il consorte lasciai, la patria, e 'l regno.

PRIAMO

Figlia, o figlia gradita,

deh consolati omai:

se la Grecia lasciasti,

ora in Frigia potrai,

posseder fortunata,

con più sublime, e più felice sorte,

regno, patria, e consorte.

E tu figlio adorato,

or ch'imeneo l'anime vostre accoppia,

con accesa facella;

segui il voler del fato,

prendi pur la tua bella,

e la sua man con la tua mano addoppia.

Quell'immensa bellezza,

ch'i tuoi sospiri innamorata accoglie,

con intera fermezza,

e 'l cor ti dié, ti sia concessa in moglie.

PARIDE

Gioisca quest'alma.

Con dolce diletto,

e goda il mio petto,

d'Amore la palma.

ELENA

Nel dolce contento,

ch'Amore m'addita,

sia pure infinita,

la gioia ch'io sento.

PARIDE E ELENA

Sian teneri i pianti,

sian dolci i sospiri,

e i nostri desiri,

sian sempre costanti.

Insieme

PRIAMO E ECUBA

Se fia dolce l'ardore,

d'un incessante Amore,

il vostro cor saprallo

al canto, al suono, all'allegrezza, al ballo.

PARIDE E ELENA

Se fia dolce l'ardore,

d'un incessante Amore,

il nostro cor saprallo

al canto, al suono, all'allegrezza, al ballo.

Ballo di Principi, e Principesse.

Fine del libretto.

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Locandina Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Atto quarto Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Atto quinto Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima