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Polifemo

POLIFEMO

Melodramma.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto di Paolo Antonio ROLLI.
Musica di Nicola PORPORA.

Prima esecuzione: 1 febbraio 1735, Londra.


Personaggi:

POLIFEMO

basso

ACI

soprano

GALATEA

soprano

ULISSE

soprano

CALIPSO

contralto

NEREA

soprano






Atto primo
Scena prima

Lido selvoso di Sicilia presso al monte Etna.
Galatea e Calipso approdate in loro conche e corteggiate da Ninfe, Tritoni e Dèi marini allo spuntar dell'aurora.

[N. 1 - Coro]

CORO

Vien, bell'aurora,

le verdi sponde,

le placid'onde

imperla, infiora.

Due vaghe dive,

su queste rive,

alletta Amor.

GALATEA

Ahi! sento che d'Amore

le potentissim'armi

ad umano amatore

vogliono soggettarmi.

CALIPSO

Ahi! che vince ogn'impresa

suo fiammigero strale:

sentomi l'alma accesa

già d'un eroe mortale.

[N. 2 - Duetto]

GALATEA

Vo presagendo

crudel martire,

ma non comprendo

qual fine avrà.

CALIPSO

Vo seguitando

fatal desire,

ma non so quando

lieto sarà.

GALATEA E CALIPSO

Il contento

che presento

seguirà da pena amara;

ma l'evento fortunato

non dichiara il fato ancor.

[N. 1 - bis]

CORO

Febo, tu ancora,

con rai più lieti,

il sen di Teti

ingemma, indora;

nume che godi

le dolci frodi

svelar d'amor.

(Calipso parte.)

Scena seconda

Mentre Galatea vuol partire, Polifemo apparisce da una balza del monte.

POLIFEMO

O bella Galatea...

GALATEA

Fuggo nell'onde.

POLIFEMO

Ah, non fuggir!

GALATEA

Non t'appressar!

POLIFEMO

M'arresto.

GALATEA

Se avanzi un passo ancora, in quell'istante

nel mar mi getto, e alla cerulea Dori,

[Cerulea Dori: è la caerulea Doris ovidiana (Met. XIII 742) cioè il mare. Dori, figlia di Oceano e di Tetide, sposa di Nereo, era la madre delle cinquanta Nereidi (o Doridi)]

mia vaga madre, in grembo vo.

POLIFEMO

Crudele,

perché mi sprezzi? Tu sai pur ch'io sono

figlio a Nettuno scuotitor del mondo,

[scuotitor del mondo: epiteto omerico (cfr. più avanti, III VI 33, e anche Arianna in Naxo, I V 2). ἔνοσις]

che sol le greggi mie

ingombran tutte quelle piagge e il monte,

che né mortal, né nume

mi supera di forze.

GALATEA

Io non ti sprezzo, ma non t'amo.

POLIFEMO

O bella,

o bianca Galatea, più bianca e molle

dell'agnelletta mia più molle e bianca!

Oh, rigogliosa più d'un bel torello,

ma dura più che quercia,

e fiera più di calpestato serpe:

pensa al tuo Polifemo una sol volta,

per mille che a te pensa;

senti pietà de' suoi sospiri; e allora

oh, quanti doni avrai! Già per te serbo

undici caprïole e quattro orsatti

e un nido d'avvoltoi piumati appena.

[Cfr. I II 12-23 con Met. XIII 789-804: “Candidior nivei folio, Galatea, ligustri, [...]/tenero lascivior haedo/[...]saevior indomitis eadem Galatea iuvencis, /durior annosa quercu, [...]/calcato immitior hydro”; e XIII 834-6 “Inveni geminos, qui tecum ludere possint,/[...]/villosae catulos in summis montibus ursae.”]

GALATEA

Bei doni invero!

POLIFEMO

Ah, non sprezzarmi tanto!

Moro, se più ti bramo!

GALATEA

Folle se m'ami più! sai che non t'amo.

[N. 3 - Aria]

POLIFEMO

M'accendi in sen col guardo,

crudel beltà,

più fiamme che non ha l'Etna fumante.

[Cfr. Met.XIII 867-9]

I miei sospir nel cor

fann'impeto e rumor

com'onde tempestose a scoglio infrante.

(parte)

GALATEA

Amor, tosto vedrai tuo dolce ardore

in quel ferino petto

aspro degenerar tutto in furore.

Ma qui non veggio ancor, come pur suole

al ritorno del sole,

tornar Aci, il gentil garzon leggiadro,

a vagheggiarmi timido e soletto.

Cor mio, veder lo brami? Ah! tal desio

primo è d'amor, ma sempre ardente effetto.

[N. 4 - Aria]

Se al campo e al rio soggiorna,

poi torna alla selvetta

colomba amorosetta,

perché l'amato bene

v'ha spene di trovar.

Che v'è periglio sa

di perder libertà

ma dal desio portata

forzata è a ritornar.

(parte)

Scena terza

Veggonsi da lontano venir le navi d'Ulisse.
Una avanzandosi approda. Ulisse e suoi Compagni sbarcano, e poi Aci e detti.

ULISSE

Poiché l'avverso fato

lunge dalla bramata Itaca vuole

che vada errando di Laerte il figlio,

qualche riposo almeno,

fra sì gravi perigli,

ne ristori talvolta al lido in seno.

Veggo a piè di quel monte un antro: udite

come al belar della lanuta greggia

profondamente echeggia!

Voi pochi me seguite; il resto vegli

della nave a difesa. Amica sorte

qui ne fece approdar.

ACI

Qual nume irato

qui vi tragge, o stranieri, a certa morte?

Sotto a quel cavo monte

lo smisurato Polifemo alberga

empio ciclope, e tiranneggia il lido.

Tutto uccide e divora: ah, via fuggite

da infame sponda!

ULISSE

E tu perché non fuggi?

ACI

Ir già lo vidi, allo spuntar del giorno,

di là dal monte a pascolar gli armenti,

e veglio per mio scampo al suo ritorno.

Deh, risolcate il mar per mio consiglio!

ULISSE

Veggasi l'uom selvaggio: il nostro core

non conosce timore,

c'è solito prospetto un gran periglio.

Fissa è dell'uom la sorte:

più tenta irne lontan, più l'è vicino.

Andiamo: uopo è seguir nostro destino.

[N. 5 - Aria]

Core avvezzo al furore dell'armi,

a i gran mostri, alla rabbia del mare,

paventare i perigli non sa.

Nelle fiere contese di morte

non ha l'alma men grande, men forte

chi l'incontra di quel che la dà.

(parte)

ACI

Oh volesser gli dèi

al senno ed al valor d'uomin sì fieri

dell'empio mostro destinar la morte!

Ma già il carro del sol sieguì l'aurora,

e sovra la conchiglia inargentata

galleggiar sulla calma

la bella Galatea non veggio ancora.

Quella selvetta è amato suo soggiorno,

e quel sasso muscoso

onde il ruscello il piè d'argento scioglie,

spesso a fresco riposo

la bianca diva accoglie.

Deh, sieguimi, o fortuna,

dov'ella vien per semplice diletto,

ahi lasso! e me trae disperato affetto.

[N. 6 - Aria]

Dolci, fresche aurette grate,

invitate sulla calma

il bell'idol di quest'alma,

ch'io la torni a vagheggiar.

Fronde tremole sussurranti,

onde limpide mormoranti,

la mia diva all'ombre amate

allettate a ritornar.

(parte)

Scena quarta

Altra parte di lido con capanne di pescatori.
Calipso in abito di pescatrice, Nerea sua ninfa in apparenza di pescatore nel suo battello, e poi Ulisse.

NEREA

Giusta non ha delle tue forze idea

chi da te non aspetta, Amor, gran prove:

pescatrice puoi ben fare una dea,

tu che in belva e in augel formato hai Giove.

Folle, quant'è ingannata io non sapea

chi l'aurea punta del tuo stral non prove.

Non è nato a goder cuor che non ama,

né sa che sia piacer, se non rïama.

CALIPSO

Amorosa Nerea, contenta al fine

me ancor vedrai da sue catene avvinta.

NEREA

Ecco il prudente, il forte

d'Ilio sovvertitor!

CALIPSO

Nerea, son vinta:

oh, che amabil ferocia in vago aspetto,

indicio d'alti e in un dolci costumi!

Il non morir sol può invidiare a i numi.

ULISSE

(Qual di beltà sovrana

pescatrice! Una forse è delle vaghe

di Dori e di Nereo figlie immortali.)

Fra le vostre capanne a piè straniero

è permesso il camino?

CALIPSO

Anzi, il soggiorno.

Quel che rendon la pesca e la coltura

vi porgerà cibo e ristoro.

ULISSE

O bella,

una diva tu sei forse che viene

a sollevar mie pene.

Ma come, in tal tiranneggiato suolo

da un mostro predator, dimora fai?

CALIPSO

M'ascondo sì, che non mi scorge mai.

[N. 7 - Aria]

Sorte un'umile capanna

non affanna con vicende:

la difende da potenza

innocenza e povertà.

Sprezzan rustica magione

ambizione e vana spene;

e se Amor talor ci viene

l'accompagna l'onestà.

(parte)

NEREA

Non v'arrestate, e con veloce passo

per la selva seguite

la gentil pescatrice.

Più che non pensi esser tu puoi felice.

Ma che veggo! fuggite!

ecco il fier Polifemo.

(parte)

ULISSE

(Oggetto di terror!) Venga: no 'l temo.

Asta in man, fermo piede, invitto core

fan sovente calmar l'ostil furore.

Meco, in aiuto a valoroso Marte,

non mancheranno la prudenza e l'arte.

Scena quinta

Polifemo e detti.

POLIFEMO

Insolita sorpresa!

Stranieri armati, e in atto...

ULISSE

D'offenderti non già, ma di difesa.

POLIFEMO

(Farne subita strage

non vuo': serbinsi preda a mio diletto.)

Difendervi? e chi mai pensa ad offesa?

Scampar dalla mia forza onnipotente

voi non potreste, né l'umana gente.

Cento quasi a me uguali ho qui d'intorno

pronti ad un grido sol: qual mai salvezza

puon darvi l'asta e il brando?

ULISSE

Vendicati morrem, morren pugnando!

POLIFEMO

Nobil valor! Quelle che vidi io penso

esser tue navi. Avrai da me ricetto,

avrai doni da me, per poi vantarti

che del gran Polifemo amico parti.

ULISSE

(Fallace offerta! ma s'accetti: ei solo

men da temersi fia.) Dunque il possente

nume della Trinacria

inchinate, o compagni.

Altre offerte ancor tu non sdegnerai,

e del tributo nostro il vanto avrai.

POLIFEMO

Mirate da lontan venir qui tutti

del contorno i Ciclopi a farmi corte:

sieguimi, e scampo avrete allor da morte.

(parte)

ULISSE

O del capo di Giove eterna figlia

m'assisti or più che mai: forse eri quella

divinamene pescatrice bella.

[N. 8 - Aria]

Fa' ch'io ti provi ancora

scampo di chi t'adora,

o cara deità:

contra sì gran furore

vano è mortal valore,

senza la tua pietà.

(parte)

Scena sesta

Boschetto.
Aci e Galatea.

GALATEA

Sorgi, garzon gentile,

ch'io t'ascoltai ti basti:

più che a lingua mortal convenga osasti.

ACI

Perdona: io non credea che fosse offesa

nostro affetto agli dèi.

Pietà mostra, e non sdegno, in tuo bel volto.

Oserò dire ancor?

GALATEA

Parla, t'ascolto.

ACI

Ahi, so che a tanta altezza

van sol per mio tormento i miei sospiri!

GALATEA

Ma che ti giova il sospirare invano?

Per vedermi, t'esponi

fra i crudeli Ciclopi a gran perigli.

ACI

Tempo fu di consiglio

pria che mirarti, o diva, avessi in sorte;

che tu mi privi or di tua dolce vista

è il mio solo timor, non già la morte.

GALATEA

A gli umili tuoi preghi, Aci, prometto

tornar, pria che il sol cada nell'onda,

a questa ombrosa sponda.

Gli affetti tuoi non bramo e non isdegno;

ma parti, perché già l'ora è vicina

che alla fresca marina il mostro torna:

verrai dopo il meriggio.

ACI

Oh, che tormento!

provo morte in partir!

GALATEA

Parti, e ritorna.

[N. 9 - Aria]

ACI

Morirei del partire nel momento,

di mirarti se il nuovo contento

non fermasse quest'anima in vita.

Quel bel labbro che disse: «Te n' parti»,

disse ancor ch'io potrò rimirarti:

oh, sentenza di speme gradita!

(parte)

GALATEA

Se del primo amor mio l'ardente fiamma

più ancor s'avanza, inestinguibil fia.

Che farò? che diranno

l'altre Nereidi belle?

Si sdegneran perché ad umano oggetto

io rivolga l'affetto;

io, che dal sen più cupo d'Anfitrite

sino al fulgor delle più alte stelle,

o de' marini o de' celesti dèi,

qualunque nume innamorar potrei.

[N. 10 - Aria]

Ascoltar no, non ti voglio,

folle orgoglio:

lascia l'amante sen;

nemico del mio ben,

fuggi dall'alma.

Non altri su 'l mio cor

che il mio diletto amor

porti la palma.

(parte)

Atto secondo
Scena prima

Calipso e Nerea.

CALIPSO

Svolgere il corso non si può de' fati.

A quel torrente del furor di cento

mostri, qual mai potuto avrian sì pochi

argine far?

NEREA

Somma prudenza, dunque,

fu allora il seguitar l'orme d'un solo?

CALIPSO

Ma più non vidi poi né il forte Ulisse,

né alcun de' suoi seguaci. Entro allo speco

chiusi gli avrà quell'empio.

Vanne al crudele, né timor t'arresti:

sai che ad un tratto puoi sparirgli innanti.

Digli che Pasitea,

una delle Nereïdi più vaghe,

lo richiede a colloquio in questo lido.

NEREA

Vincer potrai con tue lusinghe il fiero:

tutto della beltà cede all'impero.

[N. 11 - Aria]

Una beltà che sa

farsi de i cor tiranna,

inganna, diletta,

e se v'alletta,

fa quel che vuol di voi, poveri amanti!

E più ingannati siete

dall'esca del piacer,

più a' lacci suoi cadete:

l'inganno, e non il ver, vi fa costanti.

(parte)

CALIPSO

Ecco al mio seno i presagiti affanni!

Voglio tentar con le lusinghe pria

lo scampo dell'eroe;

e se felici non saran, l'ingresso

non m'è vietato da terrene sbarre:

entrerò nello speco

a consultarvi seco

sua salvezza... ma vien pensoso e mesto

guidando al pasco il gregge!

Scena seconda

Ulisse e detta.

ULISSE

Quanto, oh, fiero destin, dura è tua legge!

O de' tormenti miei consolatrice,

vezzosa pescatrice,

or d'aiuto e conforto ha d'uopo il core.

CALIPSO

Ma salvo pur tu sei.

ULISSE

No 'l sono i fidi miei.

Prigioni e disarmati or fan soggiorno

in caverna, ove fian preda di morte,

e di morte crudel, s'io non ritorno.

Ricchi doni da mie navi ho promesso

in riscatto di tutti, e per iscritto

ordin mandai di consegnarli. Il nostro

valor con Polifemo a nulla giova:

forza mortal non può star seco in prova.

CALIPSO

Perché sol non fuggisti?

ULISSE

Per non viver infame.

CALIPSO

(Anima grande!)

Come or solo venisti?

ULISSE

A quest'opra servil mandommi l'empio

qui, dove i servi suoi tornin dal lido;

e vuol, se i doni e' non avran, ch'io vada

secoloro a recarli: e s'io me n' fuggo,

divorati e sbranati

vedrò da lunge i miei compagni amati.

CALIPSO

Che speri poi?

ULISSE

Spero ottener lo scampo:

oh, tra quei doni uno ve n'è che affretta

di tanti fatti rei

su 'l mostro orrendo la fatal vendetta!

CALIPSO

Va' non temer: t'assisteran gli dèi

[N. 12 - Aria]

Lascia fra tanti mali

venirti a consolar

la speme cara:

mandata fu a' mortali

per farli sopportar

la sorte amara.

(parte)

ULISSE

Privi sian pur d'ogni discorso umano

questi semplici armenti,

son di noi più felici e più contenti.

Quanto meno d'affanni è in loro vita!

e al par del nostro il loro fine è morte;

ma ciascun per sé solo

soffrene il momentaneo dolore:

non ne senton per altri o per sé stessi

né il preventivo, né il remoto orrore.

Sì, che i semplici armenti

son di noi più felici e più contenti!

[N. 13 - Aria]

Fortunate pecorelle!

Pascolate semplicette

vaghi fiori, molli erbette,

l'une all'altre care e belle,

senza inganni, senza affanni,

nella vita e nell'amor.

All'ovile, alla campagna

sempre uguale dolce stato

v'accompagna;

compiacenza porge al fato

l'innocenza in voi del cor.

(parte)

Scena terza

Aci.

Lontan dal solo e caro

degli occhi e del pensier bramato oggetto,

non ho riposo al piè, né pace all'alma.

Inquïeto lo sguardo,

impazïente il core

cercan l'amata vita;

ogni moto, ogni aspetto

mi fa sperar, m'inganna poi. Ma veggio

l'onde curvarsi, e sento

un dolce gorgogliar: vien la diletta!

Ahi, deluse speranze!

Solo un flutto ondeggiò, spirò l'auretta.

Non sa che pena è amar, chi non aspetta.

[N. 14 - Aria]

Lusingato dalla speme,

agitato da sospetti,

cangia affetti, spera, teme,

ma non ha mai pace il cor.

Di chi spera, di chi aspetta

la bramata sua diletta,

oh, lunghissimi momenti!

siete pieni di dolor.

(parte)

Scena quarta

Prospetto di mare.
Galatea nella conca sull'onde, e poi Polifemo.

[N. 15 - Aria]

GALATEA

Placidetti zeffiretti,

che sull'onda

scherzando volate,

alla sponda

m'appressate

dov'è placido il mio sen.

POLIFEMO

Rapida sì non trapassar, superba!

t'arresta, odimi almen l'estrema volta:

orgogliosetta e folle,

tu preferisci a sovrumane forze

garzon tenero e molle;

[Cfr. II IV3-5 con Met. XIII 860-1: [...]sed cur, Cyclope repulso/ Acin amas praefersque meis complexibus Acin?”]

ed io vo in questo istante

a preferir la bruna Pasitea

alla candida e fredda Galatea.

GALATEA

Felici sian tuoi preferiti amori.

POLIFEMO

Invidia e gelosia neppur ti danno

pena?

GALATEA

Ne soffro volentier l'affanno.

POLIFEMO

Perfida, t'abbandono, ma non voglio

scordar l'offesa. Vendicar ti giuro

sovr'Aci i torti miei:

no 'l salveran dal mio furor gli dèi.

[Cfr. Met. XIII 863-4]

(parte)

GALATEA

Al volo risciogliete,

zeffiri, le leggere e lucid'ali,

e per le salse spume disperdete

le minacce del par vane e brutali.

Placidetti zeffiretti,

che sull'onda

scherzando volate,

alla sponda

m'appressate

dov'è placido il mio sen.

Scena quinta

Aci e detta.

[N. 15 bis - Aria]

ACI

Amoretti vezzosetti,

che sull'onda

volando scherzate,

sulla sponda

riportate a quest'anima il suo ben.

GALATEA

Non son io fida alle promesse?

ACI

Oh, quanto,

fra speranza e desio, dubbio e timore,

d'amoroso aspettar lunghe son l'ore!

GALATEA

Ma la speranza tua lusingatrice

che promette? che dice?

ACI

Che generosa l'amor mio non sdegni,

e che pietosa a consolarmi riedi,

che una dolce dimora

farai meco e, oh! quant'altro...

GALATEA

...ti promette più ancora! e tu le credi?

ACI

Soavissimo sguardo,

che accompagni le dolci parolette,

veggo in te la mia speme ardita farsi

e prometter amor. Luci vezzose,

promettete voi quel ch'ella promette?

GALATEA

Degli occhi il favellar ben non intende

chi fra dubbio e timor l'alma sospende.

Vedi a quel piè del monte angusto speco?

Inosservata... ascosa... ah, no!

ACI

Là volgi,

dolce mia vita, il passo.

GALATEA

Ahi, ma non teco!

ACI

Soletto e primo andrò

ad aspettarti.

GALATEA

Ah!

ACI

Non risponder, no.

Morrò, se a me non vieni.

Vado. Verrai? Già quel silenzio affretta

la mia morte al tuo piè.

GALATEA

Vanne, e m'aspetta.

[N. 16 - Aria]

ACI

Nell'attendere il mio bene

mille gioie intorno all'alma,

su 'l momento ch'ella viene,

la speranza porterà.

Rammentarti sol vogl'io

che 'l mio cor, se torni o parti,

teco va, bell'idolo mio,

e con te ritornerà.

(parte)

GALATEA

Qual mai più dolce stato

v'è d'un secreto amore?

Muti eloquenti sguardi,

domande non espresse e non negate,

vinte difficoltà, prudenti impegni,

ben condotti disegni,

sorprese, incontri in ore

quanto più inaspettate,

tanto più grate al core.

Altri mille diletti,

d'acquistarli il desio,

di perderli il timore:

più dilettoso stato

no, non v'è d'un fedel, secreto amore.

Lunghe non fian dell'aspettar le pene

a corrisposto amante;

s'avvicina l'istante,

adorato mio bene,

che dir potrai: «Dissemi il ver la spene».

[N. 17 - Aria]

Fidati alla speranza,

che in breve lontananza

d'amor lusinga il seno;

anch'io sospiro e peno,

cor mio, lontan da te.

Cresce così l'ardore

d'una secreta face,

ché l'alma non ha pace

dove il suo ben non è.

(parte)

Scena sesta

Ulisse poc'anzi svegliato al fine d'una visione di Pallade, e poi Calipso come dèa.

ULISSE

Ah, co 'l sonno perché svanisti, o dèa?

Sormontarem dunque il mortal periglio!

Ma co 'l possente aiuto

di tal che mi farà lunga stagione

Penelope oblïar! Prudente diva,

deh, se puoi, svolgi in questa parte il fato.

Ma quale, oh sommi dèi!

qual radiante bellezza! il guardo è oppresso.

CALIPSO

E non ravvisi ancor la pescatrice?

ULISSE

Sì, quella sei, ma non son io l'istesso.

Scordo le mie sventure,

insolito stupor l'alma sorprende,

fiamma di non terreno amor m'accende;

sovrumano valor mi ferve in seno:

vinto è già il mostro.

CALIPSO

Glorïoso scampo

n'avrete. Io son la dea Calipso. Ogigia,

isola ausonia, è la mia sede: in quella

felice avrai soggiorno. Ecco i tuoi doni

venir dal lido: torna pur nell'antro,

invisibile altrui colà m'aspetta;

ma forza è che prometta,

dopo la grande impresa, il tuo bel core

seguirmi acceso d'amoroso ardore.

[N. 18 - Aria]

ULISSE

Dell'immortal bellezza

imperïoso il guardo

scende qual dardo al cor,

e perde l'alma allor

tutta la libertà.

Ma tanto i lacci apprezza

di servitù gradita,

che senza te, sua vita,

pace trovar non sa.

(partono)

Scena settima

Boschetto.
Galatea ed Aci.

GALATEA

Qual mai più dolce stato

v'è d'un secreto amore?

Ma tacito tu sei,

sole degli occhi miei.

ACI

La sovrumana gioia oppresse il core.

Perderti, oh dèi! pavento,

ché per troppo gioir sai che si muore.

[N. 19 - Duetto]

GALATEA

Tacito movi e tardo,

caro mio ben: perché?

ACI

Troppo loquace il guardo

te lo dirà per me.

GALATEA

Oh dèi! che pensi?

ACI

Cara, sognarmi.

GALATEA

Dimmi, che temi?

ACI

Temo svegliarmi.

GALATEA

Ah, che mi sento anch'io,

dolce amor mio, restar

oppressa dal piacer.

ACI

Ah! se mai sogno è il mio,

pietoso ciel, non far

destarmi dal piacer.

GALATEA

Non possa mai ria sorte

turbar a tua bell'alma

la calma nel goder.

ACI

Che sfortunata sorte

saria spirar quest'alma

in calma di goder!

Atto terzo
Scena prima

Monte Etna.
Polifemo sovra una pendice, sotto alla quale veggonsi all'ombra d'un boschetto Aci e Galatea.

POLIFEMO

Fugace Galatea, perché al mio lido

vieni quando mi tiene il dolce sonno,

e vai quando mi lascia il dolce sonno?

Giove non sprezzeresti, e me disprezzi,

che nelle forze ho più poter che Giove!

[Cfr. Met. XIII 842-3: “[...] non est hoc corpore maior/ Iuppiter in caelo”.]

Ah, perché non ho io l'alie de' pesci

da poterti seguir per entro all'onda!

Vien da me, dunque, e lascia il mar ceruleo,

privo di te, rauco sferzar la sponda.

Stan presso all'antro mio lauri e cipressi,

alberi che di poma han curvi i rami,

viti con uve porporine e d'oro.

[Cfr. III I 10-2 con Met. XIII 810-4: “Sunt mihi, pars montis, vivo pendentia saxo/ antra, quibus nec sol medio sentitur in aestu,/nec sentitur hiems; sunt poma gravantia ramos,/sunt auro similes longis in vitibus uvae,/sunt et purpurae.”]

Ma crudel non m'ascolti, e forse stai

in braccio ad Aci delicato e molle:

tempo verrà ch'ei proverà mortali

quelle forze che or tu sprezzi amorose.

[Cfr. III I 15-6 con Met. XIII 863-4: “[...]modo copia detur,/sentiet esse mihi tanto pro corpore vires.”]

Galatea, dove sei?

Galatea, deh rispondi...

Ma che veggio! spietata,

ecco perché mi fuggi: ad Aci in seno

vagheggiata il vagheggi! Ah! questo sia

l'ultimo al vostro amor lieto momento:

[Cfr. III I 19-22 con Met. XIII 874-5: “Videoque [...] et ista/ ultima sit, faciam, Veneris concordia vestrae[...]”.]

plachi acerba vendetta il mio tormento!

Svelliti, alpestre masso, e dirupato

cadi sul mio rival... la diva illesa

se n' fuggìo, ma non ebbe il piè sì ratto

a seguitarla il drudo: il colpo è fatto.

(parte)

La balza caduta fa il prospetto della scena seconda.

Scena seconda

Galatea.

GALATEA

Aci, amato mio bene, Aci, ove sei?

Meco tu non fuggisti.

Forse al tuo scampo in altra parte, o caro,

furon propizi i dèi!

Aci, mio gran tormento, Aci, ove sei?

Ma quale striscia di purpureo sangue

sgorga di sotto al grave masso? oh, dèi!

[Cfr. Met. XIII 887-8:” Puniceus de mole rubor manabat, et intra/ temporis exiguum rubor evanescere coepit.”.]

Aci, Aci infelice, ahi! dove sei?

O dell'ira crudel di mostro orrendo

vittima sventurata,

fu la tua morte l'amor mio! Che pensi,

Giove, ozïoso Giove?

Qual colpa aspettano

più ingiusta ed orrida

gli ardenti fulmini?

De' monti spezzano

le cime altissime,

cadere in cenere

fan l'alte roveri,

e gli empi ridono!

Me dunque fulmina,

fatti pietoso,

fammi mortale:

ch'io tragga almen, struggendo gli occhi in pianto,

ahi! l'ultimo sospiro ad Aci accanto.

[N. 20 - Aria]

Smanie d'affanno, ah, perché mai

morte, ch'è il fin dei mali,

non mi potete dar per consolarmi?

Pregio di non morir,

solo tu fai

che il duol senza finir

può tormentarmi.

(parte)

Scena terza

Caverna di Polifemo.
Ulisse e Calipso, e poi Polifemo.

CALIPSO

Dell'inganno s'accorse, e inferocito

ritornò il mostro al suo primier furore.

ULISSE

All'opra dunque, allor ch'ei torna.

CALIPSO

All'opra:

savio è il consiglio, e lieto fin l'attende.

ULISSE

Ma dimmi, o vaga diva: a mie vicende

che mai rivolse il tuo pensier cortese?

CALIPSO

La fama di tue geste il cor m'accese,

e svelando a me Themi

parte del tuo destin, seppi che a questo

lido funesto e ad un fatal periglio

approdato sarebbe il tuo naviglio.

ULISSE

Rai d'immortal bellezza io ben scorgea

scintillar dal tuo volto, amabil dea.

Se tu m'assisti, io spero,

al mostro reo, che divorato ha due

de' miei seguaci, far pagare il fio.

Odi i moti del gran sasso che chiude

l'antro. Ei torna.

CALIPSO

Invisibile son io.

POLIFEMO

Crudel, se m'hai sprezzato,

son vendicato ancor.

Per gioia d'una mia giusta vendetta,

liberi questa notte

siate pur tutti dal timor di morte.

ULISSE

Possente Polifemo,

piacciati accrescer la tua gioia in seno

con questo almo liquor d'Ismaria vite,

ch'a te in dono portai.

POLIFEMO

D'Etna selvoso

a me non manca generoso vino,

ma il tuo si gusti ancor...

(beve)

liquor divino!

Ricolma il nappo e poi dimmi il tuo nome,

ché vuo farti un bel dono.

(ne gusta)

Quel che bee Giove in ciel non è sì buono.

[N. 21 – Aria]

D'un disprezzato amor

amaro mio pensier,

t'immergi nel bicchier

e torna dolce al cor.

(beve)

Versane ancor: voglio colmarne il petto.

Potrò di tanto ardor

smorzar gran parte almen

con l'inondarmi 'l sen

di così buon liquor.

Or dimmi 'l nome tuo.

ULISSE

Nïun m'appello.

Qual è il don che mi fai?

POLIFEMO

Il dono è, che tu l'ultimo morrai.

Ma i piè non mi sostengono;

pesanti e torbidi

gli occhi si chiudono,

il sonno vien.

(parte)

ULISSE

Mira i gran passi vacillanti: oh, come

ruinoso strabalza! Or va carpone;

su quell'alghe or si colca: è in preda al sonno.

Compagni, or del valor nostro alla prova:

lo schiantato, rovente aguzzo ramo

da quelle fiamme a me recate. Immerso

in profondo letargo,

sdraiato Polifemo

immobil giace al suo fatal cordoglio:

oh, che russare orrendo,

qual procelloso vento

co 'l grand'urto de' flutti in cavo scoglio!

Venite, o valorosi,

e secondate l'opra.

Nell'occhio vasto del ciclope or vado

ad immergere a forza il tronco ardente;

sparsi poi sotto la lanosa mandra

facil ne fia scampar dal cieco mostro:

tolta il Fato ha sua morte al poter nostro.

CALIPSO

Arridi, o sommo Giove, a tanta impresa,

e il tuo disprezzator senta qual cade

grave sull'offensor divina offesa.

Ecco, il tronco s'estolle: eccol vibrato!

Eccol nell'occhio immerso:

bollente inonda fuore

il cristallino umore.

Quali smanie! quai salti!

che fremiti! che furia!

Scaltri i greci s'appiattano:

gli spaventati armenti

scorron tumultuosi

or qua, or là per la caverna immensa.

A questa volta ei viene;

ma l'opprime il dolor, cade, si sviene.

[Cfr. III 24-70 s'ispira liberamente a Od. IX 347-98.]

[N. 22 - Aria]

ULISSE

Quel vasto, quel fiero

di stragi sì altero

terror del bosco,

orror del campo,

leon feroce atterrato restò.

Mi vieta il fato

del reo la morte;

ma vendicato,

e di tal sorte appagato, me n' vo.

(parte)

CALIPSO

Sì lungo svenimento

privazion di tormento è al reo ciclope:

ricovrerà sol per maggior sua pena

la mostruosa lena.

Pone già in opra Ulisse il vivo ingegno

della fuga al disegno:

ogni ostacol fatale

che allontanava a' miei desir la meta

giunge al confine, e la mia sorte è lieta.

[N. 23 - Aria]

Il gioir qualor s'aspetta

nel martir d'incerta spene,

più diletta quando viene

chi lo brama a contentar.

Aspettando quell'evento,

arrivando quel momento,

il contento n'è più grato

cagionato dal tardar.

(parte)

Scena quarta

Prospetto della rupe caduta sopr'Aci.
Nerea e Galatea.

NEREA

Dal tormentoso svenimento ei sorse

e, furïoso brancolando, invano

cercò per sua vendetta i greci accorti.

Poi l'ampio sasso, che chiudea l'ingresso

alla caverna, alzò, perché le greggi

rimanessero al pascolo; ma tutte

passar le fea sotto alle forti braccia

che curvo ei distendea, toccando i dossi,

per impedir de i prigionier la fuga.

Ma quelli, al ventre avvinti

de i robusti montoni,

deluser l'empio, e in libertà n'usciro.

GALATEA

Impuniti non lascia il sommo Giove

i gran delitti: ma che val vendetta

che il perduto non rende? O re de' numi,

rendimi, tu che puoi, l'estinto amante:

pietoso del mio duol, cangial, ti prego,

cangialo in nume, e il suo fatal periglio

portilo a lieta invariabil sorte.

NEREA

T'ascoltò Giove, ed annuì co 'l ciglio.

Scena quinta

S'apre la rupe: vedesi la sorgente d'un fiume.
Aci, nume del medesimo, appoggiato sull'urna e detti.

[Met. XIII 887.]

[N. 24 - Aria]

ACI

Alto Giove, è tua grazia, è tuo vanto

il gran dono di vita immortale

che il tuo cenno sovrano mi fa.

GALATEA

Deh, vieni, Aci immortale; Aci, deh, vieni

ad un sen tutto amor, tutto desio;

vieni, eterno conforto all'amor mio!

Sai la giusta vendetta?

ACI

Il tutto vidi

di grembo a Giove. Il furïoso mostro

mira, che forsennato

va ruinoso ove il furor lo porta.

Ecco, ei s'appressa: assiderato fia

sin che un aspro rimprovero lo renda

miserabile più nel suo castigo.

Scena sesta

Polifemo e detti.

POLIFEMO

Furie che mi straziate,

dove mi trasportate...

Ah, Nïun traditor!

ACI

T'arresta immobile,

empio disprezzator d'uomini e dèi!

POLIFEMO

Qual nuovo orror! l'assiderate piante

mi tengon fisso come quercia al suolo!

Ma non è quella d'Aci,

e sonora viepiù, l'odiata voce?

GALATEA

È d'Aci sì, cui, da tua rabbia oppresso,

diè Giove immortal vita. Or tu, spietato,

sei miserabil mostro, ed egli un nume;

nume di questa limpida sorgente

onde co 'l nome suo scende il bel fiume.

POLIFEMO

Ingiustissimi dèi!

Tiranno Giove! Galatea tu sei!

[N. 25 - Aria]

GALATEA

Sì, che son quella, sì;

ma, barbaro crudele,

quel tu non sei più, no:

Giove mi vendicò,

e il caro mio fedele

meco immortal sarà.

(parte)

ACI

Che dici or, tu c'hai più poter che Giove?

Ulisse fu, braccio mortal fu quello

che spense a te l'occhio esecrando in fronte.

Quella parte del monte,

che sovra me spingesti, è l'alma sede

della mia deità; Giove in mia sposa

ha l'adorabil Galatea concessa;

pensa or qual sorge l'innocenza oppressa.

In sì penoso estremo

vanta le tue gran prove:

di' pur che Polifemo

ha più poter che Giove!

[N. 26 - Aria]

Senti 'l fato

ch'è già fisso:

io beato,

io giocondo ho sede in ciel:

te crudel

il profondo

cieco abisso al fine avrà.

Già Caronte,

per orrore

nel naviglio

di stupore inarca il ciglio:

mostro tale

senza uguale

Acheronte varcherà.

(parte)

POLIFEMO

Rimproveri crudeli,

parte del mio destin più tormentosa!

Non ti bastava, insazïabil Giove,

di farmi scopo a' fieri sdegni tui,

che mi fai scherno altrui?

E tu, gran nume scuotitor del mondo

mio genitor Nettuno,

tal cura avesti del tuo nobil figlio?

[Cfr. Od.IX 528-9]

Rendi almeno al mio ciglio

la perduta sua luce.

L'offesa è tua: sia la vendetta ancora.

Ma oppresso, abbandonato,

la rabbia mi divora,

e un furor disperato mi tormenta.

Furie, son vostra preda: ah! per voi sia

la vita, ancor con la mia luce, spenta.

(parte)

NEREA

Fra le vicende delle sorti umane

prova il sommo diletto

la spettatrice ed ansïosa mente,

se trionfante alfin mira premiato

sul calpestato reo gir l'innocente.

Ma sola esser non voglio

a non goder fra tante gioie e tante:

a ninfa, quando vuol, non manca amante.

[N. 27 - Aria]

V'ingannate,

ninfe belle,

in pensando,

sebben care,

non amando innamorare:

v'ingannate, è vanità.

Si delude chi vi siegue,

ma chi fugge più s'inganna:

perché al fine o lauro o canna,

scherzo al vento resterà.

(parte)

Scena ultima

Ulisse, Aci, e Galatea, etc.

ULISSE

Intessete ghirlande, inni cantate,

ninfe vaghe dell'onde,

ninfe vezzose delle verdi sponde,

al bel figlio di Fauno e Symethea.

[Aci (cfr. Met. XIII 750: “nymphaque Symaethide cretus”).]

Del sol che già declina

faccia lieto il bel lume

sparse d'oro brillar l'argentee spume

della placida, tremula marina.

In plauso di costanza a' nostri affetti

portino i zeffiretti,

e dalle nude e dall'ombrose fronti

degli scogli e de' monti, Eco suonante.

[N. 28 - Coro]

CORO

Accendi nuova face,

tutta diletto e pace,

Amor costante.

ACI

Scherzino con le Grazie

il riso, il gioco e i pargoletti Amori,

cantando i nostri fortunati ardori.

[N. 29 - Terzetto]

GALATEA

La gioia immortal che alletta

non è soave,

non è diletta,

se non perché,

caro, mi sei fedel.

ACI

Siegui ad amar:

no, non può dar

dono maggior,

se più bear

mi vuole il ciel.

ULISSE

D'Amor l'aureo strale

uguale al sen

piacer mi dà.

Insieme

GALATEA

Ah senz'amor

mai, non v'ha

un bel contento.

ACI

Ah senz'amor

no, non v'ha

un bel contento.

ACI, GALATEA E ULISSE

Un bel contento

nel rïamar

sempre sarà.

Le fonti più gradite

son del diletto,

se dolcemente unite

son dall'affetto

bellezza e fedeltà.

CORO

Accendi nuova face

tutta diletto e pace,

Amor festante.

Fine del libretto.

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Locandina Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena ultima