www.librettidopera.it

Il Tito

IL TITO

Melodramma.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

Da qui accedi alla versione estesa del libretto.
Da qui accedi alla versione in PDF del libretto.

Codice QR per arrivare a questa pagina:
QR code

Libretto di Nicolò BEREGAN.
Musica di Antonio CESTI.

Prima esecuzione: 13 febbraio 1666, Venezia.


Interlocutori:

TITO figlio di Vespasiano imperatore

soprano

BERENICE regina di Giudea, sorella d'Agrippa, amante di Polemone re di Licia

soprano

AGRIPPA tetrarca, fratello di Berenice

tenore

DOMIZIANO fratello di Tito

soprano

POLEMONE re di Licia, amante di Berenice

tenore

MARZIA Fulvia, matrona romana, amante di Tito

soprano

Flavia SABINA nipote di Vespasiano in abito di soldato, amante di Celso

soprano

CELSO nipote del gran Corbulone, amante di Sabina

soprano

Largio LEPIDO generale delle romane legioni

contralto

ELIO capitano delle coorti

basso

Aulo CINNA favorito di Domiziano

tenore

APOLLONIO mago famoso

basso

LUCINDO paggio di Marzia

tenore

NINFO servo di Domiziano

contralto

MESSO

basso






Eccellentissimi principi

Ascrisse Roma a portento, che tre soli servissero di faci funebri all'occaso di Cesare. Attribuirà per lo contrario il mondo a felice auspicio nel veder l'ee. vv. compartire in questo punto il triplicato lume dei loro favori al rinascer d'un Tito. Potrà questi ancorché sepolto nell'urne del Lazio vantarsi anco in questo secolo d'esser la delizia dell'universo s'avrà fortuna d'esser onorato dell'aggradimento di principi cotanto illustri; le cui gesta entro le reggie de' maggiori monarchi decanta con tromba incessante la fama: portando l'uno per prezzo delle eroiche imprese degl'avi, e per premio dovuto ad un più famoso Giasone l'aurata pelle del Tosone d'Iberia: l'altro per aver tra mari di sangue fatti ventilare i gigli de' gloriosi Borboni, sommo duce, e gran pari fu della regia colomba insignito. Né minore fu lo stupore della vasta Lutezia, allor che adorando le sovraumane doti di principessa cotanto saggia, confessò d'ammirare sotto un volto di Venere la sua Minerva; pianse lunga stagione il Tebro la perdita delle sue pompe; quando per consolarlo il porporato sostegno della Francia la rese sovrana colonna d'Italia. Accolgano l'ee. vv. con lieta fronte la composizione d'uno de più nobili ingegni dell'Adria; Dovendosi a ragione consacrar a' principi, che si pregiano d'esser uniti al chiaro sangue d'un Giulio l'opere più magnanime d'un augusto; rassegnandomi

di vv. ee.

Venezia li 13 febbraio 1666

Hum. div. e oblig. servus

Steffano Curti

L'autore a chi legge

Dio voglia, benigno lettore, che questo dramma composto nello spazio d'un lustro, ancorché concepito da elefante, non sortisca una vita da effimera. Confesso di non temere il livore degl'aristarchi, ancorché si verifichi pur troppo in quelli, che calcano la strada poetica, l'avviso che il sole diede a Fetonte

per insidias iter est formasq; ferarum.

Ma inorridito al riflesso del mio debile ingegno, che facendo i voli d'Icaro

Coeliq; cupidine tactu

altius egit iter.

Chi non ha l'idea di Stasicrate, o gli scalpelli di Fidia mal può intraprender di formar gl'Alessandri: tuttavolta non so come tollimus ingentes animos, ed ho stimato minor male il compiacere al genio, ch'il far da Saturno, o rinnovare l'azione dell'esecrata Medea sbranando un parto ormai fatto adulto già qualche tempo. Or seguane che può: potrò almeno inscrivere a piedi di questa composizione ciò che per elogio scrissero le piangenti Eliadi sul tumulo del precipitato fratello

Quod si non tenuit

Magnis tamen cecidit ausis.

È vero, che per non moverti maggiormente a compassione delle mie inezie, ho fatto da Timante col velarti il mio nome; l'averti però altre volte veduto con occhio benigno a blandire il mio Annibale, mi fa crederti altrettanto gentile nell'accoglier il Tito; il quale recitato da primi cantanti d'Europa, e animato dalla musica impareggiabile del sig. cavalier Antonio Cesti, ora, per lo mezzo della splendidezza di chi lo fa rappresentare rinasce alle scene, leggi, vedi, e gioisci.

Argomento

Tito cesare, dopo la morte di Ottone acclamato dai capitani dell'Oriente il di lui padre Vespasiano all'imperio, e stabilito per opera di Antonio, e Licinio Mutiano con l'uccisione di Vitellio, nella monarchia del mondo, fu lasciato dal genitore con parte delle romane legioni all'espugnazione di Gerosolima, la quale presa dopo ostinato assedio per assalto, fu mandata a ferro e a fuoco dall'armi latine; accioché il vasto incendio di città sì grande servisse di rogo all'orrenda strage d'un milione di difensori. Infinito fu il numero de' prigionieri, tra quali capitò in potestà di cesare Polemone re di Licia, che tratto dall'amore della regina Berenice sorella di Agrippa tetrarca la rapì notturno amante fuori di cesarea, e la condusse in Gerusalemme, ma reso cattivo insieme con Berenice, riconosciuta questa dal fratello, che guerreggiava in favor de' romani, ne conseguisce la libertà; Tito se ne invaghisce, Domiziano ne resta acceso; tutto il campo poco meno, ch'innamorato. Formandosi con vari accidenti l'epitesi, e la catastrofe del melodramma, che segue.

Atto primo
Scena prima

Si vedrà l'assalto, e presa di Gerosolima.
Berenice. Polemone.

BERENICE

Chi mi soccorre, o dio?

POLEMONE

Confida in questo braccio, idolo mio.

BERENICE

Frena, mio re, l'ardire

del nemico roman fuggi lo sdegno,

serba te stesso a Berenice, e al regno.

POLEMONE

Mi circondino pur stragi, e ruine,

vada il regno distrutto,

pera, pur ch'io ti salvi il mondo tutto.

BERENICE

Cedi all'empia fortuna,

fuggi, deh fuggi, o sire

l'imminente periglio,

ch'irritar i più forti è van consiglio.

POLEMONE

Amor giova agli audaci;

pugnerà questo ferro,

e fra monti d'estinti

misti n'andranno ai vincitori i vinti;

e s'egli è ver, che ne' volumi eterni

con penna d'adamante

scrisse lassù la mia caduta il fato,

qual più felice sorte,

ch'in braccio alla mia vita aver la morte.

Scena seconda

Elio, capitano delle coorti, coro di Soldati.
Berenice. Polemone. Ninfo.

ELIO

Cedi, o guerrier, del tuo destino all'onte,

ch'il cercar fra cataste

di svenati nemici il suo morire

è valor disperato, e non ardire.

POLEMONE

Pria, ch'a vile timore io dia ricetto

entro l'aste più folte

farò a un torrente d'armi

argine del mio petto.

Vengano pur cento falangi, e cento

non pavento,

sin che l'alma in seno avrò,

pugnerò,

e se la parca micidiale

con la forbice fatale

a miei danni congiurò,

non torpe già questa mia destra ardita,

pagheran mille morti una sol vita.

NINFO

(a cui vien levata l'asta di mano da Berenice)

Ohimè, l'asta perdei!

Ma ad Onfale sì brava

quanti Ercoli oggidì darian la clava.

BERENICE

Invano, invan tentate

empie perfide schiere,

con barbaro furore

svenar il mio signore,

vo', ch'il mio seno ignudo

al mio guerriero amor serva di scudo.

Permetti mio re,

ch'io mora per te,

e 'l mio core

cada vittima d'onore

sull'altare di mia fé.

Scena terza

Lepido. Elio. Polemone. Berenice. Ninfo.

LEPIDO

Cessate dal ferire: e tu campione

frena l'ardir:

ch'è temeraria impresa

contro un immenso stuolo

opporre a mille brandi un brando solo;

ferma il braccio guerriero, e acciò che sappi,

di quai tempre è formato un cor romano,

non mi serbo ragion, spoglia non chiedo,

m'al tuo valor la libertà concedo.

POLEMONE

In questa sola spada

e vita insieme, e libertà ripono,

né gradita mi sia, s'ella è tuo dono.

LEPIDO

Com'invitto è costui!

ELIO

Com'è feroce!

POLEMONE

Pur se un tuo nemico

l'alta virtude oggi onorar sì brama,

concedi al cavaliero anco la dama.

LEPIDO

Che celeste sembianza!

S'io vagheggio costei

col braccio armato, e l'aureo crin disciolto,

è Pallade al valor, Venere al volto.

ELIO

Che val d'acciaro armaro la man fatale,

se del ferro assai più l'occhio è mortale.

LEPIDO

Le prede più sublimi

sono a Tito serbate,

sì per legge di guerra è a noi prescritto,

ben potrà di costei l'alta beltade

di cesare obbligar l'animo invitto;

poiché 'l latino augusto,

il cui sommo valor la gloria spande,

porta al par dell'imper l'anima grande.

BERENICE

Io, che nacqui agli scettri, e alle corone,

or dell'itala plebe

fatta vile spettacolo, e infelice,

incatenata dal romano orgoglio

dovrò accrescere i fasti al Campidoglio?

Ah voi nemiche spade

con pietoso rigor

trafiggete questo seno,

spalancate questo cor.

POLEMONE

Barbaro imperatore invan pretende

ne' suoi pensieri gonfi

di condurti legata a suoi trionfi.

Troncherà questo ferro

(se questa destra, o 'l mio valor non sviene)

Roma, Tito, l'imper, le tue catene.

ELIO

Quel favellar superbo

l'indomita del cor fierezza accusa.

LEPIDO

Schiavo sarà chi libertà ricusa.

Itene, o miei guerrieri,

a cesare guidate i prigionieri.

Scena quarta

Lepido.

Qual bellezza divina

fe' del mio cor rapina?

E per destin d'amore,

da duo luci trafitto,

nelle giudee campagne,

o miracolo novo!

Dove i balsami stan, le piaghe io trovo.

Dite, o candide pupille,

dite, e donde veniste

sin nella siria terra

coperte d'armi bianche a farmi guerra?

Ah che l'arcier bendato

per occultar al core i suoi perigli

anco quegl'occhi ei mascherò di gigli.

Più non amo occhio, ch'è nero,

ch'è ben folle chi si crede

in duo mori trovar fede;

fulminar allor si vede

quando fosco è l'emisfero.

Più non amo occhio, ch'è nero.

D'occhi bianchi ho l'alma accesa,

segna ancor in lieti auspici

bianca pietra i dì felici,

e fra eserciti nemici

bianco lin segno è di resa.

D'occhi bianchi ho l'alma accesa.

Scena quinta

Campo con padiglioni dove sta attendata l'oste romana con ordinanze di cavalli, cammelli, dromedari, elefanti con varie macchine, ed insegne da guerra.
Tito. Domiziano. Aulo Cinna. Coro di Capitani, e Soldati romani.

TITO

Sotto al cesareo brando

giace sconfitto il palestin rubello;

Solima è già distrutta, e in breve d'ora

ciò che Marte lasciò, Vulcan divora.

DOMIZIANO

All'aquile romane

piegò 'l Libano alfin l'audace fronte:

treman le sirie genti,

e fra monti di stragi

scorsero già di sangue ampi torrenti.

CINNA

Cadde l'alta Sionne,

de Quiriti l'impero

contermina con Giove, e ben può dirsi,

mentre tu l'asta, o 'l fulmine ei disserra,

ch'egli è un Tito nel ciel, tu un Giove in terra.

TITO

Di cadaveri, e d'armi

abbastanza, o miei fidi,

del Siloe, e del Giordano

tingeste l'onde, e seminaste i lidi;

or qui sia 'l fin dell'ire, ed è ben giusto,

ch'in aspetto giocondo

s'al fragor di Bellona

perduti ha i sonni, oggi riposi 'l mondo.

Scena sesta

Tito. Domiziano. Cinna. Ninfo.

NINFO

(tutto armato)

Largo al dio della guerra,

ch'ad un giro del mio ciglio

tutto 'l mondo va a scompiglio,

e crollar io fo la terra.

Del terrore,

del furore

io son fratello.

Questo cerro,

questo ferro

degli eserciti è flagello;

ma l'asta mia di tempra è così strana,

che qual lancia d'Achille impiaga, e sana.

CINNA

Merta un eroe sì grande,

che se gli erga una statua in sul Tarpeo,

eccovi trasformato

il Tersite di corte in novo Anteo.

Scena settima

Elio. Berenice. Polemone incatenati. Coro di Soldati, e gli antedetti.

ELIO

Lepido il sommo duce,

ch'alle tue squadre impera,

pegno della sua fede,

trasmette incatenati

duo prigionieri ignoti al regio piede.

TITO

Di Lepido la spada

è il Palladio di Roma,

ei, che di greche palme ornò la chioma,

meraviglia non sia, s'ai prischi onori,

intrecci novi fregi, e novi allori;

ma qual beltà di cielo

con fulgor sovrumano i sensi abbaglia!

Quella chioma ondeggiante,

ch'i dorati volumi al vento spiega

così errante, e disciolta il cor mi lega.

Filosofiche scole or che direte,

che si formin nell'aria le comete?

Se quel bel crin fra dolci mamme intatte

stella è crinita entro la via del latte.

Olà! Miei fidi

si tronchino que' nodi,

si frangano que' ceppi:

e sol per annodare

di così bianca mano il bel candore

dall'arco suo tolga la corda Amore.

DOMIZIANO

Di quel braccio alle nevi

fian le zone del ciel degni legami:

su rompete gl'indugi,

si spezzin quei lacci?

Ma che parlo de' lacci? Ah per mia pena

le catene dal piede

le sciolse Amore, ed al mio cor le diede.

NINFO

Cesare per pietade

si raddoppin le funi a quel guerriero,

se rimirar non vuoi con tuo spavento

Ninfo, Roma, e l'impero andar in vento.

TITO

La clemenza di Tito

si diffonde a' nemici; opra è da grande

il dispensar fortune agl'infelici

si sleghi il cavalier: ma tu chi sei

prigioniera gentile?

Ch'in sì vago sembiante

anco vinta trionfi,

e fai con tue bellezze

anco presa, e legata

felici i nodi, e la prigionia beata?

BERENICE

Donna infelice or miri,

e la tua man, che le province ha dome,

del cui sommo valor schiava è Fortuna,

al cui scettro s'aduna

quanto l'occhio del sol circonda, e vede.

Or, ch'al piede

toglie i nodi,

fian sue lodi

con duplicate palme

vincer i corpi, e trionfar dell'alme.

Scena ottava

Gli antedetti. Agrippa, che sopraggiunge.

AGRIPPA

(Luci mie che mirate?

Le reali sembianze

scorgo di Berenice!)

DOMIZIANO

Signor, se questo serto,

che di sangue Idumeo stilla pur anco,

porto i fasci latini oltre l'Oronte,

se tra falangi astate

stabilii la corona alla tua fronte;

costei, che col bel guardo

di mille cor fa prede,

concedi in guiderdone la mia fede.

POLEMONE

(L'ascolto, e non lo sveno?

Pria che tormi Berenice

mi trarrà l'alma dal seno.)

TITO

Altre spoglie, altre prede, o gran germano

Roma deve al tuo merto, e alla tua mano.

Duolmi, che ora non lice

defraudar di sue pompe il Latio e 'l Tebro;

del popolo romano, e non di Tito

è costei prigioniera,

con sue rare bellezze accrescer voglio

i trionfi, e le glorie al Campidoglio.

BERENICE

Dunque perché più gravi

alla mia libertà fossero i ceppi

si troncaro i miei nodi?

Al dispetto di augusto,

a mal grado di Roma, onta del fato,

sapro con regia destra,

qual nova Sofonisba, uscir di pene,

e sottrarmi ai ludibri, e alle catene.

AGRIPPA

(prostrato innanzi a Tito)

Alla suora Agrippina

non si devon catene:

io, che fra selve d'aste a onor di Roma

vestii l'aria d'insegne, il mar di vele,

io, che per tua bontà, cesare invitto,

degli atavi imperanti

l'alta reggia possiedo,

la libertà di Berenice or chiedo.

BERENICE

Mio german, mio signore!

DOMIZIANO

S'è reina è costei, giubila il core.

TITO

Amico, egli è ben giusto,

che ciò, che ti si dée, ti renda augusto;

ma tu bella reina

per qual cagion là fra nemiche genti

arrotasti ver noi da tue pupille

luminosi tormenti?

Se tua beltà divina,

s'il tuo guardo vivace

vincer potea, e trionfar in pace.

BERENICE

Dal licio re, che temerario amante

di Cesarea colà fra l'alte mura

m'assalì,

mi rapì, non fui sicura,

così di quel guerrier, ch'oggi svenato

giace fra mille estinti in braccio a morte,

resa fui in un sol dì preda, e consorte.

POLEMONE

Scaltro è in mentir, benché fanciullo, amore.

BERENICE

Costui ch'ivi tu scorgi, Adraspe è detto:

questi, allor, ch'il tuo campo

a Sionne superba

portò gli ultimi eccidi, e le ruine,

mi sottrasse co' l'armi

alle spade, agli incendi, e alle rapine.

TITO

(partendo)

Bella, s'un re perdesti,

affrena i tuoi dolori,

avrà 'l mondo per te regi maggiori.

Sta' saldo cor mio

ti veggo in periglio,

l'arco adopra d'un bel ciglio

per ferirti il cieco dio.

POLEMONE

(parte)

Soccorrimi Cupido

stimolo troppo fiero

è in cor di donna avidità d'impero.

DOMIZIANO

Dammi aita nume alato,

dio bendato.

Della mia luce privo

cinocefalo amante io più non vivo.

Luci candide adorate

perché siate

medicina a questo cor,

v'ha formate

di bianche margherite il dio d'Amor.

Ma no, errai

dolci rai,

per far con le sue faci

incendi più voraci,

Cupido sol per gioco

in duo globi di neve ascose il foco.

Scena nona

Agrippa. Berenice.

BERENICE

Mio rege, mio germano!

AGRIPPA

O di radice imperial indegna,

sopprimi quelle voci,

spoglia omai di reina il nome augusto!

Tu prosapia d'eroi? Tu de' tetrarchi,

tu degli Erodi, e degli Agrippi erede?

Dunque a sentier sì degni

della pudica madre

ti chiamar, t'invitar gli alti vestigi?

Perché di vezzi armata

alla tua patria, e alla tua fé rubella

fosti tra sozzi amplessi

d'un altro Adon la Venere novella?

BERENICE

Signor.

AGRIPPA

Taci lasciva!

La porpora d'un re macchie non soffre.

BERENICE

Del mio candore è testimonio il cielo.

AGRIPPA

Invano impura lingua al ciel ricorre,

che sempre il ciel l'impuritade aborre.

BERENICE

Te mio giudice invoco.

AGRIPPA

(vuol ucciderla)

Ebben farò, che con esempio raro

sani la colpa d'amor colpo d'acciaro.

Scena decima

Celso. Berenice. Agrippa.

CELSO

(frastornando il colpo)

Frena l'irata destra!

Perché novo Diomede

tenti svenar con esecrando ferro

la dèa della bellezza?

AGRIPPA

È indegno d'esser re chi onor non prezza.

BERENICE

Se del mio onor diffidi,

odi le mie discolpe, e poi m'uccidi.

AGRIPPA

Parto per non udir: sappi inonesta,

che questo scettro, o questa man non langue,

ma i falli tuoi saprò lavar col sangue.

(parte)

Scena undicesima

Celso. Berenice. Sabina da parte.

BERENICE

Che pretendi, o ciel di più?

Mi togliesti alle catene,

perché viva fra le pene

porti l'alma in servitù?

CELSO

Lagrimate occhi divini:

venga chi veder vol

fatto in acquario oggi più ardente il sol.

Pupillette rugiadose

mentre lagrime versate,

ad Amor l'armi temprate:

che s'avanti i dardi scocchi

spesso Amor gli strali affina,

servirà l'umor degl'occhi

per dar tempra alla fucina.

BERENICE

O chiunque tu sia guerrier cortese,

che pietoso accorresti

d'innocente reina alle difese;

se la vita mi doni,

d'un regio arbitrio a tuo voler disponi.

SABINA

(Deh che miri o Sabina? Ecco il tuo vago

che qual infido Ulisse

acceso d'altra fiamma,

prigionier d'altro laccio,

sospira amante a nova Circe in braccio.)

CELSO

De' tuoi cenni rea

vittima sia quest'alma.

SABINA

Odi l'empio incostante!

Già deposti dell'armi

i bellicosi spirti

nell'idumee foreste

dove nascon le palme, ei coglie i mirti.

BERENICE

Ver la reggia d'augusto

sia al mio naufrago passo

cinosura fedele il tuo valore.

CELSO

Ecco pronta la fé, la destra, e 'l core.

Stelle fortuna, amor,

più di voi non mi querelo,

se l'Atlante son io d'un più bel cielo.

Scena dodicesima

Sabina.

Occhi miei travedeste? Oppur la mente

architettò fantasmi? Ah che purtroppo

fui lince nel veder le mie sciagure;

misera a chi racconto or le mie pene?

Ah solo i pianti miei bevon l'arene.

Or va' Sabina, lascia

l'auguste pompe, e di guerriero usbergo

cingi 'l tenero sen, fuggi dal Tebro:

abbandona la patria, e 'l genitore,

lascia la regia, e 'l regno

sol per seguire un traditore indegno.

O numi coniugali,

o tu del casto letto

protettrice Lucina, o voi del cielo

deità spergiurate!

Voi quest'alma vendicate,

fulminate

numi offesi in questo dì

il fellon, che mi tradì.

Folle, ma che vaneggio: ed a che spargo

inutilmente le querele a' venti!

Ah se de' miei tormenti,

e delle ingiurie miei Giove si ride,

voi, che fate ire omicide?

Questo vindice ferro

fia la spada d'Astrea.

Con barbaro scempio

si sveni quell'empio,

sarò all'anima rea

d'un novello Giason nova Medea.

Scena tredicesima

Galleria con statue.
Tito.

Quanto vale, e quanto può

bella bocca di cinabro,

s'a goder d'un vago labbro

Giove in cigno si cangiò?

Che non opra, e che non fa?

Il candor di vaga fronte,

s'il gran nume d'Acheronte

fe' prigion di sua beltà.

Tito, ma che vaneggi?

Questi i trofei del tuo valor saranno?

Dunque chi di Sion domò l'orgoglio,

chi la Siria atterrò, l'Asia distrusse,

fia prigionier d'un guardo, e della fama

dirassi in Campidoglio,

ch'armata di lusinghe, in breve gonna

del mondo il vincitore vinto ha una donna?

Taci lingua, che parli?

Del bell'idolo mio così ragioni?

O dio quel caro labbro,

quel volto così vago,

e quel dorato crine,

che del sen palpitando in sulle brine

sembra, ch'in mar di latte ondeggi il Tago,

quel portamento altero,

quel non so che d'amabile, e di fiero,

l'aria di quel sembiante

un Xenocrate ancor sarebbe amante.

S'ami pur Berenice,

eliodramo d'amore

il mio sole seguirò,

spiegherò

del mio cor le doglie estreme,

ch'amor, e maestà non vanno insieme.

Scena quattordicesima

Domiziano. Tito. Ninfo.

DOMIZIANO

Dalle grazie di Tito

il mio destin dipende.

TITO

Quanto val questo scettro, o questa mano

tutto può Domiziano.

DOMIZIANO

Gli occhi di Berenice.

TITO

Principio tormentoso.

DOMIZIANO

Benché vestiti di candor celeste

sott'abito di pace,

con armi di pietà mi fecer guerra.

TITO

Una lucida nube,

che di candor si veste

messaggera è talor delle tempeste.

DOMIZIANO

Quai tempeste in amor può aver quest'alma?

se quei candidi lumi

cinti di bianca luce

il mio Castore è l'un, l'altro è Polluce.

TITO

E che dirassi in Roma?

Che dirà Vespasian? Che dirà 'l mondo?

Mentre dunque di Solima i trionfi

ergerà questa man del Tebro in riva,

porterà Domiziano

d'una sira beltà l'alma cattiva?

DOMIZIANO

Quai spoglie più sublimi,

quai trionfi più eccelsi,

se chi vinse 'l mio cor, condurrò meco?

TITO

Inciampa ognor chi ha per sua guida un cieco.

Oltre i fonti del Nilo,

oltre le vie del sole

glorioso correa d'Antonio il nome,

sull'Arasse, sul Tigri, e sull'Eufrate

piantò i latini allori, e alle sue palme

la cervice piegaro Arabi e Indi;

quando ad un sol momento, ad un istante

di guerrier fatto amante

d'una egizia beltà reso idolatra,

folle campion di duo begli occhi neri,

là di Leucate in sen per Cleopatra

perdé scettri, ed imperi.

Lascia cotesti amori!

Presto si spezza alfine

la prigionia d'un crine.

Sovvengati, o germano,

che figlio sei d'imperator romano.

Misero! A che son giunto!

Se qual fisico insano,

mentre alle piaghe altrui porgo ristoro,

trafitto 'l sen da mille strali io moro.

DOMIZIANO

Ella è suora di re.

TITO

Ma d'un re, ch'è servo.

NINFO

Sarà buona per me.

DOMIZIANO

(vede comparire Berenice)

Cieli, ch'osservo!

Scena quindicesima

Berenice. Celso. Tito. Domiziano. Ninfo.

BERENICE

Eccomi al piè d'augusto.

TITO

Mio cor, ch'incontro è questo?

Ergiti, o gran reina.

BERENICE

Cesare di tua luce un lampo solo

può serenar mia vita.

CELSO

A bellezza, che prega

nulla si vieta, o nega.

BERENICE

Agrippa il mio germano

inonesta mi crede,

deh sia scudo al mio onor tua regia fede.

TITO

Creder macchie nel sole

proprio è occhio di talpa,

tergi i tuoi vaghi rai.

DOMIZIANO

Ciò, che può far un Tito oggi vedrai.

BERENICE

Nella tua sola man sta la mia sorte.

DOMIZIANO

Anzi ne' tuoi bei lumi ogn'ora immota

è la sorte, e 'l destin tien la sua rota.

TITO

Voi ritirate il piè, con Berenice

di favellar desio.

DOMIZIANO

Dammi soccorso, o faretrato dio.

Al tuo aspetto m'involo.

CELSO

Parto.

NINFO

Sparisco, volo.

Scena sedicesima

Tito. Berenice. Polemone in disparte.

TITO

Che mi consigli amor?

Or che prospera, e opportuna

per lo crin tengo fortuna,

palesar deggio l'ardor!

Parlerò,

scoprirò

del cor lo strale,

che la piaga più ascosa è più mortale.

BERENICE

Mio monarca, e signore!

TITO

Mia regina, mio nume!

POLEMONE

(in disparte)

Mia infida, mio tiranno!

BERENICE

Arde Tito al mio volto,

d'uopo è finger d'affetti,

tu attesta all'idol mio volante amore,

che, se mente la lingua, ho fido il core.

TITO

Bella io moro trafitto,

ma sì dolci, e sì care

son le ferite mie,

e sì del suo morir l'alma s'appaga,

ch'adoro il ferritor, amo la piaga.

BERENICE

Per saettar un Marte

ci vuol beltà divina.

TITO

Appunto duo begli occhi,

che portan nel color livrea di cielo,

furon del cor gli arcieri.

BERENICE

Forse nel risanarti

non saranno sì fieri.

POLEMONE

(in disparte)

Ah mia tradita fede, e che più speri!

BERENICE

È romana, o straniera

la beltà, che t'accese?

TITO

Sol nell'arabe piagge

nascono le fenici, e la sua culla

sai, che non ha, ch'in oriente il sole.

BERENICE

S' privo di bellezza è 'l ciel latino,

che mendicar dovessi

sin dall'Asia gli amori?

TITO

Non ha l'Africa immensa,

non ha l'Asia, l'Europa, e non ha Roma

meraviglia, o tesoro,

che si pareggi alla beltà, ch'adoro.

BERENICE

Qual beltà

non cedrà

al suo impero alto, e sovrano

è signor d'ogni cor, chi ha 'l mondo in mano.

Scena diciassettesima

Tito. Polemone.

TITO

Mi rallegro alma con te,

che ridente

non più Eraclito dolente

piangerai senza mercé.

Ma che scorgo, ecco Adraspe

opportuno qui giunge,

guerriero, il cui valore

degno è, che fra nemici anco s'onore:

tu, che già avesti in sorte

di Solima distrutta

nella fatal ruina

preservar tra gl'incendi una reina,

difendi dall'ardore

di duo accese pupille anco 'l mio core.

Sai che d'augusto al piede

la fortuna soggiace, e pende il fato,

e un cenno mio sol ti può far beato:

titoli, dignità tesor prometto,

pur che di Berenice

m'intercedi l'affetto.

POLEMONE

Che macchini, o destino?

Dissimular conviene.

Stimo gloria maggiore

di cesar obbedir ai cenni alteri,

che frenar mille imperi.

Temo sol, che costei

del re di Licia amante,

benché estinto lo crede,

qual novella Artemisia, oltre la pira

serbi al cenere suo costanza, e fede.

TITO

Amor nume di foco

non conversa coll'ombre

che lungi da sepolcri,

benché in ferir sia crudo

fugge di morte il gelo un dio, ch'è nudo,

che giova lagrimar per un estinto?

Sol dell'angue del Nilo

all'impietà s'ascrive,

pianger i morti, e far morir chi vive.

Io so, che Berenice

grata mi corrisponde:

ma l'amor stimolato è più veloce:

parla, prega, scongiura,

palesa a lei, ch'adoro

la mia fede amorosa,

che sopra la tua fé Tito riposa.

(partendo)

S'al mio ardor più non resiste

la beltà che mi piagò,

s'amore m'assiste

beato sarò.

Scena diciottesima

Polemone.

A quai pene mi condanni

per seguirti, o dio di Gnido?

Non sai dunque empio Cupido

dispensar se non affanni

per seguirti, o dio di Gnido,

a quai pene mi condanni?

Perché perfide stelle

delle sciagure mie farmi 'l Perillo?

Dunque bombice insano

per intesser altrui seriche spoglie,

ordirò le mie doglie?

E mentre al mio bel nume

sarò dell'altrui fiamma infausto messo,

dovrò qual nova face

per rilucer altrui strugger me stesso?

Ah ciò non sia mai vero.

Tu, ch'udisti i miei torti

Giove, che fai lassù,

ch'ora non vibri il tuo fulmineo telo?

Forse temi quegli occhi,

che son nel saettar emuli al cielo?

Ma, s'il cielo mi fa guerra,

voi dagl'antri di sotterra

fiere dèe di Flegetonte

empie figlie d'Acheronte

agitate,

tormentate

crudi Eumenidi spietate

la crudel che mi piagò,

la infedel, che mi lasciò.

Ma a che chiamar sin da più tetri abissi

le crude Erinni? Il mio furore dunque

non è furia bastante? E qual inferno

chiude mostro più spietato?

Più d'Ercole furente,

più agitato d'Oreste,

d'Erostrato più insano,

arderò questa reggia!

Con questa mano ultrice

sbranerò 'l cor di Tito,

svenerò Berenice.

Scena diciannovesima

Campagna deliziosa con boschi di palme confinante con la marina.
Comparisce una smisurata balena, frenata da due Amorini mori. Questa spalancando le vaste fauci espone sopra la spiaggia.
Marzia. Apollonio. Lucindo.
Due amorini con archi, e facelle alla mano.

AMORINO

Ferma i tuoi giri ondosi

gigantessa de' popoli squamosi,

per consolar un'alma,

del foco tuo ti fe' ministra Amor.

AMORINI

a 2

Non ridete

folli amanti,

se vedete

or d'Amor foschi i sembianti.

Sempre il volto ha nero, e scabro

chi per padre ha un dio, ch'è fabbro;

ed a ragion tetro color c'ingombra,

ch'i diletti d'Amor son fumo, ed ombra.

(qui spiccando il volo spariscono)

Scena ventesima

Marzia. Apollonio. Lucindo. Escono dalla bocca dell'orca.

LUCINDO

Addio mar, addio Glauco, addio Nettuno:

più con Dori, ed Anfitrite

io non o' commercio alcuno.

Addio mare, addio Glauco, addio Nettuno.

Sento l core palpitante,

par ch'ondeggi anco il piè,

in quell'isola guizzante

più non ritorno a fé,

stanza è troppo aborrita

star dalla morte sol lontan tre dita.

È d'uopo, che la donna

sia un cibo molto crudo per natura;

s'ancor che sia sì vasta, e di gran lena

non poté digerirla una balena.

APOLLONIO

Marzia non sia stupore,

se dal cielo di Roma

oggi alle sirie sponde

la tua rara beltà guidai per l'acque,

che dal grembo del mar Venere nacque.

In mia virtù confida,

nelle braccia di Tito avrai conforto,

dopo il naufragio è più gradito il porto.

Sulla ruota di Fortuna

va aguzzando Amor lo stral,

non però tal forza aduna,

che gli sia sempre letal,

varia ognor vicende, e stato

una diva girante, un nume alato.

MARZIA

Scagli pur l'ignudo arciero

le sue faci a mille a mille,

che fra incendi, e tra faville

ho di Scevola il coraggio,

son di Porzia più costante:

per soffrir pena, ed oltraggio,

basta dir, ch'io sono amante.

Ah che quinci non lunge

con un mondo d'armati

cinge Tito guerriero

ad immensa città le forti mura:

là tra 'l ferro, tra 'l sangue, e fra le stragi

sia mia gloria infinita

ritrovar fra le morti oggi la vita.

APOLLONIO

Quanto può del nero tartaro

l'infernal Giove terribile,

quanto val nel cieco baratro

di mia voce il suono orribile

a' tuoi cenni adoprerò,

d'Acheronte i numi pallidi

sol per te costringerò:

ma credi, credi a me,

che per destar ne' cori

amorose faville,

incanti più potenti han due pupille.

(forma l'incanto)

Or voi di Stige orrenda

spaventose falangi,

gran potenze d'Averno

uscite, uscite,

qua volate:

su queste ignude arene

vasta mole fermate.

Qui s'erge maestoso palazzo.

APOLLONIO

Spera, o donna real, quel regio tetto

sia tuo nobil ricetto,

splenda ne' tuoi bei lumi

or più brillante, e più sereno il raggio,

predomina alle stelle un cor, ch'è saggio.

LUCINDO

Ohimè! Misero me!

Per lo spavento

reggermi più non posso:

con quella nera verga

ha costui congiurato

di farmi entrar più d'uno spirto addosso.

MARZIA

È più dolce quell'amore,

che s'acquista col penar.

Sempre ascosa

fra le spine

sta la rosa;

e i suoi favi di rigore

l'ape ancora suole armar,

è più dolce quell'amore

che s'acquista col penar.

È più caro quel contento,

che s'ottiene col martir,

mai non cogli

vaga perla,

che fra scogli,

e dal grembo del tormentoso

ha la nascita il gioir.

Segue il ballo di Mori, che escono dal palazzo.

Atto secondo
Scena prima

Cortil regio.
Domiziano. Aulo Cinna. Ninfo. Coro di Soldati con faci alla mano.

DOMIZIANO

Su apprestate le faci:

ardete, desolate incenerite

queste moli superbe:

all'ardire l'ardore vada congiunto;

chi mi priva del mio foco,

tra le fiamme sia consunto.

CINNA

Ah mio signore, mio prence,

i voli troppo audaci

son d'Icari follie. Ferma, deh ferma?

DOMIZIANO

Scrive in marmo l'offeso, un genio altero

aspira sempre a meditar vendette;

negarmi l'idol mio?

E che non son io forse

figlio di Vespasiano?

Non son cesare anch'io?

O della Flavia gente

non son rampollo?

Dunque di civil sangue

del biondo Tebro imporporai le sponde,

perché poscia a mio danno

la porpora tingessi ad un tiranno?

A chi m'usurpa il trono

usurperò la vita? In questo giorno

o 'l roman diadema

mi cingerà la fronte,

o tra fiamme di guerra

dell'impero latin sarò il Fetonte.

CINNA

Chi nutre nel suo cor pensier giganti,

stupor non è, se d'un irato Giove

provi in sé stesso i folgori tonanti.

DOMIZIANO

E che vuoi tu, che spettatore inerte

lasci rapire a questa man lo scettro?

Non bastava a costui dunque usurparmi

delle squadre il comando,

se con esempio indegno

non mi rapiva e Berenice, e 'l regno?

Ma che parlo de' regni?

Se Berenice al crudo amore unita,

in virtù d'un sol guardo oggi ha raccolto

tutto l'impero mio nel suo bel volto?

CINNA

Dunque per una donna

barbara di natali, empia di fede,

d'Eteocle più crudo

con modi atroci, ed empi

di Tebe vuoi rinovellar gl'esempi?

DOMIZIANO

Spettacolo non sia già novo in Roma,

Romolo, che l'eresse,

il primo fu, che di fraterno sangue

imporporasse il ferro;

e chi non sa, che le beltà sabine

seminaron nel Lazio altre ruine?

CINNA

Delle cognate spade

frena il lampo guerrier: dal grand'augusto

otterrò, ciò che brami,

tronca l'ali al furor, l'ira sospendi,

cada precipitata

la discordia sotterra,

e le palme romane

non scenda a funestar nembo di guerra.

DOMIZIANO

Pur che l'idolo mio mi stringa al seno,

regga a sua voglia Tito

dell'orbe il freno, ed al superbo piede

vegga prostrarsi e le province, e i regi.

Mi rapisca i diademi,

mi levi il patrio soglio,

e l'avite grandezze

prema ad ogn'or sicuro,

mi ceda Berenice, altro non curo.

Che s'un guardo solo pietoso

da quel ciglio luminoso

il mio bene avvien che scocchi,

vaglion per mille mondi i suoi begl'occhi.

NINFO

Certo, Marte provvide:

se sbizzarrir lasciava il mio furore,

oggidì sol per gioco

mandavo una cittade a ferro, e foco.

Scena seconda

Lepido. Elio.

LEPIDO

Labirinto dell'alme è un biondo crin.

D'auree fila entro l'errore

Minotauro d'ogni core

si raggira il dio bambin.

Per mirar Berenice

peregrino amator m'aggiro intorno,

e nel candor delle sue luci belle

l'alba ricerco in sul morir del giorno.

ELIO

Credo, ch'amor entro que' lumi ardenti

scrivesse in bianco foglio i tuoi tormenti.

Ah Lepido, ah signore

pria, che reso gigante

svena Cupido in fasce:

dubito, che quegli occhi

fatte pire fatali

al tuo cor, ch'è già morto,

formin con bianche faci i funerali.

LEPIDO

S'in que' roghi fortunati

di languire un dì mi lice,

morrò farfalla, e sorgerò fenice

ELIO

E se cesare amasse il bel, ch'adori?

LEPIDO

Non lascerei gli amori,

s'il mio braccio guerriero

donò a Tito l'impero,

s'in mia virtù regge dell'orbe il freno,

come potrà quel grande

a chi un mondo gli diè negargli un seno?

ELIO

Sovente appo de' grandi

è la virtù demerto, il tuo valore

d'ampia mercede è degno,

ma non voglio compagni amore e regno.

LEPIDO

L'alto genio di Tito

troppo m'è noto, e so,

che d'una anima regia

diffidar non si può.

Ma che miro? Ecco Agrippa.

Vo' scoprir del cor la face,

sempre pena in amor chi non è audace.

Scena terza

Lepido. Agrippa. Elio. Tito, che sopraggiunge.

AGRIPPA

Lepido amico?

LEPIDO

Generoso regnante.

AGRIPPA

Quanto Roma ti deve,

s'al lampo di tua spada

cade l'Arabo crudo, e 'l Siro estinto,

e in virtù del tuo braccio il Lazio ha vinto.

LEPIDO

Vincer, che val? S'ora trafitto il core,

preda di duo begli occhi è 'l vincitore?

AGRIPPA

Dell'ignudo arcier bendato

l'arco aurato

sempre è rigido, e mortale,

e fuggir non si può da un dio ch'ha l'ale.

AGRIPPA

Ma qual bellezza altera

di Lepido piagò l''alma guerriera?

LEPIDO

Della figlia d'Erode i dolci labbri

fur delle reti mie Ciclopi, e fabbri.

AGRIPPA

Pur m'arridi, o fortuna? Afferma augusto

che della mia germana

fu innocente il trascorso.

Or siasi quale io credo:

di sì prode campion gli alti imenei

sol ponno risarcir gli scorni miei.

Tua sarà Berenice?

TITO

(che sopraggiunge)

Che intesi?

LEPIDO

Stelle, se ciò sia vero, io son felice.

Scena quarta

Tito.

Delle spoglie di Tito,

de' cesarei trofei

chi può disporre, o dèi?

Sol chi d'aquila è figlio

può affissarsi nel sol: Lepido dunque

innalzato da me, per altro ignoto

sacrerà alla mia diva il core in voto?

Animo s'in me vivi,

cerca strada alle pene:

le tede maritali

saran faci funebri a questo indegno;

sarà 'l letto sepolcro,

pronuba Libitina;

per punire un fellone

saprà Tito cangiarsi oggi in Nerone.

Scena quinta

Celso. Tito.

TITO

Celso!

CELSO

Gran monarca del Tebro, e qual fortuna

del regio volto il bel sereno imbruna?

TITO

Un crin reale

benché cinto di gemme, e di corone

ha più punte, che luce:

l'esser maggior degli altri

sembra delitto al mondo;

ch'indistinti ne van con l'odio i regni.

È cesare tradito:

oggi sta collocato

dell'impero l'onor nelle tue mani.

CELSO

In tua difesa

diverrò un Marte in saettar titani.

TITO

Vo' che Lepido, e Agrippa

muoiano in questo dì; se la tua spada

l'anima di quegli empi a me destina,

per mercé del tuo merto avrai Sabina.

CELSO

Chi è ribello ad augusto,

è nemico di Roma,

e chi a Roma è nemico,

è nemico di Celso.

Il mio duce da periglio

questa destra sottrarrà:

chi della terra è figlio,

se da Giove vol far, sempre cadrà.

Scena sesta

Sabina. Celso.

SABINA

Quando in grembo alla mia vita

io speravo esser felice,

d'Arianna più infelice

novo Teseo m'ha tradita.

Mentre in seno al mio adorato

posar crede il cor già lasso,

qual di Sisifo il gran sasso

è in amor precipitato.

Ma che veggo? Che scorgo?

Ecco delle mie doglie or l'Archimede,

ecco l'empio Sinon della mia fede.

CELSO

Numi del ciel che miro?

Per qual prodigio estrano

sotto forme guerriere in altro oggetto

di Sabina vagheggio

trasmigrate le luci?

Quegli occhi son pur dessi

al fulminar del guardo,

ai risalti dell'alma io li conosco.

SABINA

Al mio improvviso aspetto

quasi, ch'ei rimirasse

d'un'orrenda medusa

il serpentoso crin, si fe' di marmo:

mentirò l'esser mio.

Campion? S'alla tua fronte ognor più vaghe

nutra il Giordan le palme,

deh scorgi innante a Celso

d'un afflitto guerriero il piede errante.

CELSO

Di Sabina è la voce, ed il sembiante!

Amabile guerrier Celso son io,

tu chi sei? Donde vieni? E che ricerchi?

SABINA

Scusa signor, se nell'acciaro involto,

non ravvisai la maestà del volto.

Io là da sette colli

drizzai l'antenne in ver le sirie sponde,

per annunciarti, ah mia infelice sorte!

di Sabina la morte.

CELSO

Cesse al fato Sabina? O stelle, e come?

Se nel tuo volto delicato, e vago

ne miro più, che mai viva l'imago?

SABINA

Sappi, ch'io son Metello

dell'estinta il fratello:

all'ora che dal Tebro

allontanasti il piè, spirò Sabina:

che senza l'alma sua, senza conforto,

chi lungi è dal suo ben, si può dir morto.

CELSO

Tergi, o Metello il pianto,

che se in terra Sabina

ebbe forma divina,

lunga stagion fra noi

non potea dimorar cosa celeste:

a che giova il dolersi,

ove il dolor non vale?

Sotto l'acciar di Cloto

vittima è destinato ognun, che nasce;

del fato di ciascun tien Giove il vaso,

ciò, che vive quaggiù, prova l'occaso.

La vita ch'è labile,

qualora se n' va,

e 'l fato immutabile

il tutto disfa.

Contro parca inesorabile

non val pregio di beltà:

la vita ch'è labile,

qual onda se n' va.

Scena settima

Sabina.

Parte l'empio, e mi lascia,

e d'un cor, che l'adora

col riso in bocca il funerale onora.

Ah ch'allor, che l'infido,

per approdar di Palestina al lido,

entro de falsi argenti

fidò l'anima ai venti,

e su prora volante ei pose il piede,

sciolse al par delle vele anco la fede.

È follia di donna amante

prestar fede a bionda età;

che dell'onda più incostante,

più dell'apode vagante,

sempre in giro se ne sta;

sue faville

dona a mille,

e qual camaleonte a nuovo oggetto

sempre muta colori, e cangia aspetto.

Scena ottava

Apollonio. Marzia. Lucindo sovra il dorso di tre sfingi volanti, che scendono a terra.

APOLLONIO

O voi dell'Erebo

mostri canori,

sirene aligere

di tetri orrori,

per obbedir di Stige al torvo re,

su questo suolo

frenate il volo,

posate il piè.

LUCINDO

Pur ricalco la terra,

che sentier stravagante

d'un demone sul dorso

sfidar i venti al corso,

e qual Bellerofonte

su Pegaso d'inferno

scorrer del ciel per le stellate vie,

maledetti gli amori, e le magie.

Se credesse di morire

vol la donna sbizzarrirsi;

Mercurio novello,

ha l'ali al cervello,

e non cura il suo martire

benché sa, che ha da pentirsi.

MARZIA

Ah, ch'invano di Giuno

su volante corsier trascorsi i regni,

se lungi dal mio bene

Perigono d'amor per mio tormento

non veggo il foco, e pur la fiamma io sento.

APOLLONIO

Marzia fuga il martire,

all'ombre della notte

sempre l'alba succede,

spesso è d'un lungo pianto il riso erede.

Ecate di tre forme

scorgerà la grand'opra,

e pria, che là sul Gange

di Titano la figlia apra due volte

con rosea man l'aurate porte al giorno,

Tito nel seno tuo farà ritorno.

MARZIA

Volate momenti,

portate quel dì,

ch'in braccio ai contenti

stringa quella beltà, che mi ferì.

APOLLONIO

Ove il Siloe argentato

con spumoso flagel d'onde sonanti

sferza ad orrenda balza il fianco antico,

ad altre cure inteso

rivolgo il piè vagante:

tu, mentre resti, o bella

(qui sorge nube improvvisa)

fuor dell'opaco velo

di questa cava nube

del tuo vago l'aspetto

mirar potrai non conosciuta amante.

Ama confida, e spera;

vince solo in amor, chi è più costante.

LUCINDO

Quanti amanti oggi vorrebbero

sempre andarsene invisibili,

quante donne proverebbero

le lor gioie più godibili,

senza tanti tormenti al cor

saria pur gustoso amor;

s'ognun sapesse incanto sì giocondo

non ci sarian Penelopi nel mondo.

Scena nona

Polemone.

POLEMONE

Dell'Asfaltide in seno

nasce frutto gentile,

che sotto manto d'or chiude il veleno,

e mentre in verdi fronde

fa pompa d'un tesor, la polve asconde:

tal è il piacer

del nudo arcier

di Venere,

sembra vago al veder, m'al tocco è cenere.

O speranze distrutte! O del mio core

macchine dissipate! Ah crude, ah ingrata

Berenice spietata!

Così estingui la face,

così tradisci, o dio!

la mia fé, l'amor mio!

E dell'aria più vana, e più incostante,

mi lasci del tuo ardor ludibrio indegno

senza cor, senza vita, e senza regno.

Ma, che scorgo? Ecco Tito:

con la veste del riso

mi convien mascherare il mio dolore,

quanto sei crudo a chi ti segue amore.

Scena decima

Tito. Polemone.

TITO

Adraspe? O del mio sole

custode avventurato! Alla mia vita

narrasti i miei sospiri?

Palesasti la fiamma?

Rivelasti i martiri?

POLEMONE

De' reali giardini

i fioriti sentieri, e i tetti augusti

per cercar Berenice invan trascorsi.

TITO

Ecco t'assiste amore,

la fortuna t'arride,

la reina se n' viene,

che maestà! Che volto!

In quei lumi brillanti

congiurati a' miei danni

veggo armati di foco i miei tiranni.

Mentre cauto in disparte il tutto osservo,

tu de' miei cenni esecutor sagace

scopri a lei la mia fede, e la mia face.

(qui si ritira in disparte)

POLEMONE

Che Sisifo col sasso?

Ch'Ision sulla rota?

Che Tantalo dannato all'arse arene?

Son sogni, e non son pene.

Il lasciar l'oggetto amato

fra le braccia del rivale,

nell'inferno degli amanti

non si dà tormento uguale.

Scena undicesima

Berenice. Polemone. Tito. Marzia in disparte.

BERENICE

O di mia vita, o del mio onor sostegno!

Dolce tranquillator de' miei sospiri,

dove lunge da me, dove t'aggiri?

POLEMONE

Della tua regia luce i raggi i' seguo,

ma ben devo da lunge

adorar del tuo piè l'orme reali,

ora, che Berenice

è dell'orbe romano

sovrana imperatrice.

MARZIA

(O mia sorte spietata! O me infelice!)

BERENICE

Che vaneggi? Che parli? E quando mai

di Quirino lo scettro,

o 'l diadema di Roma

indorò questa destra?

Coronò questa chioma?

POLEMONE

Tito cesare il grande

il cui cenno real dà legge al mondo,

te sola adora, e brama,

all'impero ti chiama.

MARZIA

(Misera! O ciel, ch'intesi?)

BERENICE

Quando di Licia al rege

fia dato di calcar del Tebro il soglio,

comparir non ricuso

col titolo d'augusta in Campidoglio.

MARZIA

(Ah ciò non sia mai vero,

ch'una destra servil regga l'impero.)

BERENICE

Che Polemone io lasci? Amor non vole:

sin che fosforo acceso

predirà col suo lume al sol la cuna,

sin che l'orsa gelata

schiverà di Nereo tinger nell'onda

il suo dorso stellante

porterò l'alma accesa, e 'l core amante.

Ma tu perfido di'

il cor d'una regina

si tormenta così?

POLEMONE

Del licio rege, o bella

disperata è la speme:

ti propongo corone

porgo fasci di scettri alla tua mano.

BERENICE

Ah spietato! Inumano!

POLEMONE

La fortuna, che vola,

ad afferrar nel crine oggi t'esorto;

ma, s'accetta l'impero, o dio! son morto.

BERENICE

Dunque parla da vero?

Ah pur troppo sicure

sono le mie sciagure.

Che deggio far in questo punto estremo?

Fingerò non curarlo.

TITO

Che martire?

POLEMONE

Che doglia?

MARZIA

Ahi che tormento!

TITO

Da un solo sì

MARZIA E POLEMONE

Da un solo no

MARZIA, TITO E POLEMONE

gradito

POLEMONE

pende d'Adraspe

MARZIA

pende di Marzia

MARZIA E POLEMONE

il core.

TITO

Pende l'alma di Tito.

BERENICE

Guerriero, il tuo gran merto

mi fa mutar consiglio:

lascio chi mi lasciò. Le tue proposte

come sagge aggradisco, ed è ben giusto,

ch'alla fede, ed ai prieghi

d'un tanto intercessor nulla si neghi.

Vattene a Tito, va',

digli, che Berenice

sempre l'adorerà.

Se nell'anima serba

qualche scintilla ancor di tanto ardore,

al suon di queste voci

morirà l'infedele, il traditore.

TITO

Semivivo mio cor ritorna in vita.

MARZIA

Crudo ciel!

POLEMONE

Fiero amor!

BERENICE

Speme tradita!

Scena dodicesima

Tito. Berenice. Domiziano, e Ninfo, sopraggiungono.

TITO

Mia vezzosa regina,

anima del cor mio!

Per agguagliar le tue sembianze belle

non col roman diadema,

ma qual di Berenice è 'l crine in cielo,

vorrei tua chioma incoronar di stelle.

BERENICE

Qui mi giova il mentire:

proprio è d'un sol romano

sollevar i vapori, e dargli luce.

TITO

Quel brio più che divin, che nel tuo labbro

in cuna di rubin nutrisce il riso,

l'anima m'involò;

te sul trono del Tebro

fatta nume del mondo inchinerò.

DOMIZIANO

(che sopraggiunge)

Odi 'l Caton latin! Mira di Roma

l'Ippolito ritroso!

Mi sgrida perché io l'amo,

ed ei poscia trafitto

da due luci omicide

d'una Iole Idumea fatto è l'Alcide!

TITO

Per festeggiar sì fortunato giorno,

vo' ch'alla tua presenza

nobil caccia s'appresti: Ite o miei fidi:

e all'ora, che l'aurora

desterà in grembo a Teti il sol, che dorme,

là dove il bel Giordano

in più rivi si svena,

e dove il crin selvoso

sparso di verdi fronde

il Libano odoroso

con le nubi confonde,

sollecitate al corso

de' feroci molossi

la famiglia latrante; ite indagate

le più dense foreste!

siate fieri alle fere,

delle fugaci belve

spopolate le selve.

Se dei boschi entro l'orrore

assisti al mio core

arciero Cupido,

l'Enea sarò d'una più bella Dido.

NINFO

(Quanti cefali, o quanti!

Di così vaga damma

seguendo la traccia

porriamo ogni ora il loro veltro in caccia.)

Scena tredicesima

Domiziano. Ninfo.

DOMIZIANO

Eppur vidi, e l'intesi! E vivo, e spiro?

O dell'orrenda Stige

numi al cielo nemici! O furie! O mostri!

Accorrete,

volate,

apprestate

l'atre faci a questa mano.

Mora l'empio germano:

sì, che vo' farne scempio:

sì, che vo' lacerarlo,

lo sveno sì? Ma dove son? Che parlo?

Del mio pianto amor si ride,

d'altri è fatto il mio tesoro;

son per me comete infide

que' begli occhi, eppur gli adoro.

NINFO

A che tanti sospiri?

La frode con Amor nacque gemella.

Signor, s'a Ninfo credi, in questa notte

all'ora, ch'ognun dorme,

dell'amata reina

entro l'augusto tetto

di condurti prometto:

là tra l'ombre notturne,

simile nella voce al tuo germano,

d'esser Tito fingendo,

con la vagga nemica

senza lorica intorno, e senza lume

lottar potrai nell'amorose piume.

DOMIZIANO

(abbracciando Ninfo)

O servo, o amato servo:

quanto devo al tuo merto,

seguirò il tuo consiglio

che sprezza un cuore amante ogni periglio.

Nel regno d'amore

sol gode chi tenta.

Sta sempre in dolore

un cor, che paventa.

NINFO

Imparate

voi, ch'in corte

disperate

della sorte;

da fortuna è sempre scorto

chi è in amor ministro accorto.

Dopo sol l'alta rapina

gode 'l nome di reina,

e 'l fulmine sostien con forme nove,

perché l'aquila fu mezzana a Giove.

Scena quattordicesima

Celso.

Ogni bella fa per me.

È quest'alma un Proteo instabile

di Vertuno più mutabile

varia forma, e cangia fé.

Ogni bella fa per me.

Fatto son novella Istrice,

tengo al cor selve di strali:

d'ogni sol son la fenice,

sta 'l mio amor sempre sull'ali.

Così amando ognor per gioco

salamandra d'ogni foco

mai non sparsi un mezz'ohimè.

Sulle romulee sponde

vidi beltà, che con le trecce d'oro

parea Mida novello

cangiar l'onda del Tebro in un Pattolo;

arsi allora a quel volto,

e vissi in schiavitù d'un occhio moro:

or per novo stupore,

di Berenice in fronte

son fatte, o dio, per mio maggior martoro

due pupille d'argento il mio tesoro.

Son un Giano amoroso,

ch'a due beltà m'aggiro;

ma s'estinta è Sabina,

spero ottener da Tito

in premio del mio colpo una reina.

Vol che Lepido mora

lo svenerò, farò, ch'il cor d'Agrippa

vittima del mio ferro al suol ne vada,

riposta ogni mia sorte è in questa spada.

Scena quindicesima

Sabina.

Notte amica agl'amanti,

de' corridor volanti

sferza le nere piume,

spero veder fra l'ombre il mio bel nume.

Così attendo, ch'in cielo il sol tramonte

per adorar chi tien duo soli in fronte.

Poiché amor nel sen m'entrò

un tal nodo all'alma ordì,

che discior no 'l potrò

fin all'ultimo mio dì;

così reso prigion d'un crin, ch'adoro,

un Prometeo è 'l mio cor tra lacci d'oro.

Dell'incendio ch'arde in me

un bel guardo il Giove fu,

pur tra 'l rogo la mia fé

si ravviva ogn'ora più;

e mentr'arde 'l mio cor, né trova loco,

qual Pirausta son io d'amor al foco.

Scena sedicesima

Notturna. Con appartamenti di Berenice.
Domiziano. Ninfo con face alla mano.

NINFO

Chi dirà ch'il dio del foco

sia di Venere geloso?

E tra reti per suo gioco

rendesse prigionier Marte sdegnoso

se ad introdur un agguerrito amante

di nova Citerea dentro alla porta

questo chiuso Vulcan serve di scorta

DOMIZIANO

Elitropio d'amor la luce io seguo,

Berenice ricerco, ed or, ch'il sole

l'alto rival di sue bellezze è spento,

i rai del morto giorno

da quei begl'occhi a mendicar io torno.

NINFO

(aprendo una porta)

Ferma, ferma o signore!

Ecco la tua nemica in braccio all'ombre.

Posan sue luci belle,

ora, che di quel volto in sulla rocca,

benché di foco armate,

dormon le sentinelle;

se l'aureo crin ti porge in man fortuna,

tenta pur di sforzar la mezza luna.

DOMIZIANO

Che veggo? Ella riposa! E mentre in seno

le diluvia la chioma in aureo nembo,

rassembra Pasitea del sonno in grembo.

O miracolo strano! Entro a que' lumi

dona stanza gradita

al fratel della morte or la mia vita.

Luci belle, ed amorose

pur vi miro sonnacchiose,

stanche forse di piagarmi

chiudeste i lumi, e rinfodraste l'armi.

Folle, ma che vaneggio?

Qual tregua alle mie piaghe

dal bell'idolo mio

unqua sperar poss'io?

Se beltà così fiera

chiusa fra padiglioni è più guerriera.

Ah che l'empia, ch'adoro ancor sognando

sa ferir mille cori in mille forme,

mal, se veggia la cruda, e mal, se dorme.

Mio cor, ma che paventi?

Anima di che temi? Ardisci! Ardisci!

Gl'incendi tui refrigerar sol ponno

arditezza, ed amor, la notte, e 'l sonno.

(entra)

Scena diciassettesima

Ninfo in atto di timore.

Il padrone è in sicuro, è buon nocchiero

s'ingolferà nell'ocean d'amore:

io qui mi trovo solo,

ogni mosca, che vola,

rassembra un Gerione al mio timore.

Ohimè! Che gente è quella?

Chi mi segue? Chi è là?

La vita per pietà.

Ma no, furon fantasmi;

che strana frenesia?

Io mi posi in timor dell'ombra mia.

Meglio fia, ch'io mi celi, e occulti 'l lume,

che, s'Agrippa mi trova, o Adraspe ardito,

buona notte, son spedito.

Scena diciottesima

Berenice. Domiziano in atto di volerla sforzare.

BERENICE

(afferrata per un braccio)

Cieli! Numi! Soccorso!

Lasciami traditore.

DOMIZIANO

È degna di pietà colpa d'amore.

BERENICE

Tentar con empia mano

coronate rapine, osar furtivo

di profanar la maestà regnante,

è un atto da nemico, e non d'amante.

DOMIZIANO

Berenice t'accheta,

se con ignota forza

la tua beltà mi sforza,

del mio fallir le tue bellezze incolpa.

Chi pecca violentato, ha minor colpa.

BERENICE

E chi sei tu? Che temerario indegno

osi assalir notturno una regina?

DOMIZIANO

Un ch'a dar legge al mondo or ti destina.

BERENICE

Di più mondi 'l tributo

s'a tal prezzo si compra, io lo rifiuto.

DOMIZIANO

Le stelle in ciel, ch'hanno maggior grandezza

son le più riverite, umil vapore

quanto più in alto è attratto ha maggior luce.

BERENICE

Sì ma poi quel fulgore

onde sembra del sol lucido erede,

serve a indorargli i precipizi estremi;

e cadendo dal cielo ei prova alfine

Icaro temerario alte ruine.

DOMIZIANO

Il far del suo voler legge alle genti,

il poter ciò, che piace,

l'aver a' cenni suoi servo il destino

e un far da Giove in terra, un genio altero

non può aver cor da rifiutar l'impero.

BERENICE

T'inganni empio tiranno!

Chi a' suoi desir dà legge

abbastanza è monarca, alla salita

il cader va congionto,

dalla reggia alla greggia evvi un sol ponto.

DOMIZIANO

Son cesare: son Tito.

Non ho temenza alcuna,

se stringendoti al seno

or tengo nelle man la mia fortuna.

Concedi mio core,

permetti mio ben,

che temprar possi l'ardore

nelle nevi del tuo sen;

lasci, che da' tuoi labbri un bacio invole,

e nel grembo alla notte io stringa il sole.

BERENICE

Ah pria ver me l'inesorabil Cloto

vibrerà in questo sen la falce orrenda,

che dell'onor le sacre leggi offenda.

DOMIZIANO

Che onor! E qual onore

più sublime, o maggiore

può figurarsi in terra uman pensiero,

ch'aver ch'il tutto regge

entro le braccia sue suo prigioniero?

Lascia!

BERENICE

Ferma lascivo!

DOMIZIANO

Le preghiere de' grandi

son decreti, e comandi.

BERENICE

Son regina ancor' io.

DOMIZIANO

Ma suddita a' miei cenni.

BERENICE

Menti! Mio re non sei:

né alla tua infame destra

l'alto impero di Roma oggi è concesso,

che dée chi è nato a' regni

pria che regger altrui, regger sé stesso.

DOMIZIANO

Senti, o donna crudel! Voglia o non voglia,

tua bellezza ostinata

al dispetto d'amor sarà mia spoglia.

BERENICE

Ah pria cadrò svenata.

DOMIZIANO

Sì fiera a chi t'adora?

BERENICE

Ha le Lucrezie sue la Siria ancora.

NINFO

(correndo)

Ah mio signor, mio prence!

D'armi, loriche, e spade

odo un nembo crudele,

entro 'l mar de' piaceri

torci 'l timon, piega le gonfie vele.

DOMIZIANO

Mi tradisci o fortuna! Amor m'uccidi!

(partendo)

NINFO

Alla fuga, alla fuga.

(nel fuggire trabocca, e perde il lanternino, che teneva coperto)

Ben sapevo ch'al piè trovavo intoppo,

s'avevo per compagno un dio, ch'è zoppo.

(qui gli cade il lume)

Scena diciannovesima

Agrippa con spada alla mano. Berenice.

AGRIPPA

Qual voce di spavento? Quai confusi stridori

mi destaron dal sonno?

Chi dentro a regii tetti

osa notturno portare il piede

(qui scopre Berenice)

Berenice! Reina! E come? E quando?

Sciolta 'l crin, nuda 'l sen, lacera il manto

fuor dell'usate piume

lagrimosa ti scorgo?

Chi turba i tuoi riposi?

Chi insidia alla tua vita?

Parla! Scopri l'affanno! A me s'aspetta

contro a chi tanto ardì l'alta vendetta.

BERENICE

O dèi! Respiro: Agrippa,

fuggi l'infame reggia.

Tito l'empio tiranno

scorto da cieco amore

penetrò nelle stanze,

ei notturno m'assale, io lo respingo,

tenta co' preghi, usa la forza, e l'arte,

dalle piume io mi lancio, egli m'afferra,

m'oppongo, mi rincalza, alzo le strida,

della tua spada al lampo

move alla fuga il passo,

tu opportuno qui giungi a darmi aita,

difensor del mio onore, e di mia vita.

AGRIPPA

Giove! Che ascolto? E come!

Una porpora augusta

puote servir di manto al tradimento?

Si fugga dall'aspetto

d'un nemico sì fiero:

ma dove fuggirem, che non ci sia

intercetta la via?

Se quando copre, o cela

dell'orbe l'emisfero,

serve al romano impero?

BERENICE

Infelice

Berenice!

Costretta a sparger pianti

dallo sposo tradita, e dagli amanti.

AGRIPPA

Rasserena la fronte,

per rintuzzar d'imperatore ingiusto

ogni sforz'ogn'offesa,

ricorrerem da Domiziano, ei forte

pari a Tito di sangue, e di valore,

fia l'egida fatal del regio onore.

BERENICE

Pur che dall'impudico

sia questo sen, sia questo onor sicuro

guidami in grembo a Pluto altro non curo.

AGRIPPA

È un Falari amore,

che legge non ha:

ma tiranno

l'altrui danno

macchinando sempre va,

è un Falari amore

che legge non ha.

Errò chi lo finse

un nume del ciel,

se fra pene

tra catene

di Cocito è un dio crudel.

Errò chi lo finse

un nume del ciel.

Scena ventesima

Boscaglia di cipressi con fontane, statue. Spunta l'aurora.
Tito combatte contro d'una tigre.
Marzia in abito da cacciatrice.
Apollonio da parte.

TITO

Arrota pur o fiero

fulmine delle selve

le tue lunate zanne:

cor avvezzo ai perigli

dente non cura, e non paventa artigli.

APOLLONIO

È questo il tempo.

MARZIA

(uccidendo con un dardo la fiera)

Tinta nel proprio sangue

vittima del mio ferro

cade la fiera esangue.

Ma, che giova alato arciero

preservar il cacciator,

se sbranato,

lacerato

da mostro più fiero

languisce il mio cor.

TITO

O chiunque tu sia, che donna, o diva

nume di queste selve

mi porgi amica in sì grand'uopo aita,

all'atterrata belva

non fu la morte acerba,

che per sì bella man morì superba.

Sin dove Eto anelante

su focosa quadriga il giorno adduce,

farò, ch'il tuo gran merto alto rimbombe.

E sui latini altari,

di vittime svenate

arderò al nome tuo mille ecatombe.

MARZIA

Ad altra deitade, ed ad altro nume

idolatra divoto

l'anima, o traditor! Sacrasti in voto.

Inumano! Crudele?

Incostante! Infedele?

Così Marzia tradisci? E altrui ti doni?

Mira, ch'anco tradita

mentre morte mi dai, ti do la vita.

(fugge, e si dilegua)

Scena ventunesima

Tito.

Qual fantasma? Quai larve!

Marzia sgridommi, e sparve?

Come dall'Aventino

sul palestino lido

se n' venne Marzia ad abitar le selve?

E d'amore è questo un gioco

per deluder il mio foco;

mentre a Marzia ribellato

d'altra seguo il lume arciero,

vani oggetti si forma il mio pensiero.

Sin ch'io spiri,

bianche luci io voglio amar;

potrò dir fra vaghi giri

sulla fronte del sol l'alba adorar.

Sia d'argento il lor splendor,

bianca in ciel la luna è ancor,

e pure fuora di Febo esser si crede,

occhio, ch'ha più candor, mostra più fede.

Scena ventiduesima

Lucindo con l'arco, ed il carcasso. Correndo, e guardandosi dietro.

LUCINDO

Soccorso! Aita! Ohimè! Son semivivo,

d'un feroce leone,

che rassembra alla mole un elefante,

fuggo il dente fulminante.

Son novo Meleagro intimorito,

son Adon spaventato,

oppur per lo terrore

un Atteone in cervo oggi cangiato.

Il mio cor timoroso

divenuto è con salti un danzatore.

Ma se sparì la belva,

vo' fuggar con il canto il mio timore.

(s'asside sopra d'un fonte)

Per me dono la caccia a chi la vol.

Più non vo' tra valli ombrose

dimenar il veltro mio;

certe damme dispettose

di cacciar più non desio;

seguir fera, che fugge è troppo duol,

per me dono la caccia a chi la vol.

[Ballo di quattro Satiri, e quattro Ninfe di marmo escono in forma di fonte.]

Atto terzo
Scena prima

Ippodromo.
Sabina.

Duo begl'occhi, che son neri,

son gl'inferni degl'amanti;

che per dar crucci più fieri

han duo demoni giganti.

Spero invan le mie fortune

da pupille così oscure:

che le stelle, che son brune,

danno influssi di sventure.

Io di chi 'l mondo regge alta nipote,

or d'un amante infido

sarò vile rifiuto, ed infelice,

sol perché il frutto de' miei dolci amori,

goda alfin Berenice?

Ah no! Ch'invan di rilucente acciaro

non armai questo seno;

ho cor di bronzo,

ho un'anima di ferro, e ciò che d'empio

il Fasi vide, o l'agghiacciato Ponto,

oprar saprò; sorgi mio spirto, sorgi.

E omai t'accingi a inusitate prove!

L'impudica Idumea mora svenata;

sia di Sion l'arena

oggi del mio furor tragica scena.

Sì sì inaspritevi,

incrudelitevi

fra le stragi, o miei pensieri,

chi può nulla sperar, nulla disperi.

Scena seconda

Domiziano. Ninfo. Lepido.

DOMIZIANO

Sempre dunque ho da penar?

Quando credo aver riposo

fra duo labbra colorite,

resto un Tantalo amoroso

con le fauci inaridite,

né goder un sol dì posso sperar,

sempre dunque ho da penar?

Domizian, ma dove

ti rapiscono l'alma

d'effeminato cor teneri affetti?

Questi del minor figlio

del gran Giove romano

fian sospiri, e concetti?

Io languir per amore? Io lagrimante

per barbara beltà supplice amante?

Se di mille reine

può dispor questo scettro, e se felice

posso farmi a momenti?

Or perché tra singulti, e fra lamenti

porgerò voti a chi è soggetta, e serva?

Rapirò la spietata,

sforzerò la crudele, e di costei

sprezzatrice d'imperi

il fasto domerò;

d'un'alma ritrosa

Tarquinio sarò.

NINFO

Alata è la fortuna, e s'una volta

stende i vanni leggeri,

d'afferrarla nel crine invan più speri.

Con le donne renitenti

non ci voglion complimenti,

per natura all'uom non cedono

se costrette non si vedono,

ed ancor ch'al diletto ognuna inclini,

son virginee al sembiante, al cor son Frini.

LEPIDO

O del latino formidabil soglio

sommo onor, salda spene a te m'inchino.

DOMIZIANO

Lepido, o come grato

il cielo a me ti scorge.

LEPIDO

Imponi, o sire,

di qual impero il mio servir sia degno.

DOMIZIANO

Vo', che tra armate schiere ora ti porte

all'albergo d'Agrippa;

Berenice vedrai, colei ch'adoro,

la mia dèa, la mia vita,

bramo, che sia rapita;

con l'alta preda in braccio alle mie tende

drizza veloce i passi.

LEPIDO

Ah mio signore!

Temo.

DOMIZIANO

Di chi?

LEPIDO

Di Tito, anzi pavento

l'ira di Vespasiano.

DOMIZIANO

Dunque a parte io non sono

dello scettro romano?

LEPIDO

Non vede amor, ch'è cieco il suo periglio.

DOMIZIANO

Io voglio ubbidienza, e non consiglio.

Scena terza

Lepido.

Nume arcier, tiranno dio,

quanto sono fallaci i tuoi contenti,

han maschera di gioie, e son tormenti.

Ahi, che troppo tardi imparo,

ch'il tuo dolce è sempre amaro.

Misero, che farò?

Senza vittime esangui

non si placa giammai l'ira de' grandi.

Mio cor, che pensi tu?

Alla beltà, ch'adori,

non aspirar mai più:

mio cor, che pensi tu?

Folle, m'a che deliro?

E non posso a mia voglia

mitigar la mia doglia?

Rapirò Berenice, e in apparenza

del barbaro amatore

eseguirò 'l comando,

ma pria che Berenice ad altri ceda,

io goderò la preda,

Agrippa a me la diede,

Tito no 'l negherà, Roma, la corte

applaudirà alle nozze: il tempo intanto

raddolcirà del principe lo sdegno.

Troppo di quei begl'occhi

sento la face, e 'l dardo,

non v'è peggio in amor, ch'esser codardo.

Scena quarta

Marzia. Apollonio.

MARZIA

Una vile Idumea,

degna sol di trattar lane servili

sederà in Campidoglio,

e nel romano soglio

ammirerà a mio scorno

popoli adoratori al piede intorno?

O chimera de' mortali

nume alato

faretrato

con tua face, e con tuoi strali

l'universo ognor confondi,

o quanto fiele in poco miele ascondi.

APOLLONIO

E pur anco sospiri, e porti 'l ciglio

rugiadoso di pianto?

Ah ch'i più saggi avvisi un petto amante

rare volte riceve.

MARZIA

Duol, ch'ammette conforto, è un duol, ch'è lieve.

APOLLONIO

Febo non laverà nel mar d'Atlante

la folgorante chioma,

che di Tito nel seno

t'acclamerà felice Italia, e Roma.

S'il fato

beato

a tue gioie or vole arridere

lagrimare è follia, quando déi ridere.

MARZIA

Quando spera amante core

di goder vaga beltà,

gli rassembrano in amore

i momenti eternità.

Quando in braccio a chi s'adora

deve un'alma uscir di duol,

pigra sembra in ciel l'aurora,

e che tardo corra il sol.

Scena quinta

Tito. Messo. Domiziano, che sopravviene.

MESSO

Signor, il siro audace,

qual novo Anteo risorge, e in nova guerra

sparge del ferro i lampi;

e con torrenti d'armi

dell'arenosa Ioppe inonda i campi.

TITO

Sì temeraria Ioppe! Incontro a Roma

armi novelle impugna?

L'idra giudaica dunque

non diede ancor sul memorando suolo

di Sionne, e Sebaste i guizzi estremi;

che del mar filisteo sopra la foce

contro i fasci latini

osa innalzar le redivive reste?

A così grave colpa

darò pari 'l castigo:

di quell'empia cittade

espugnerò le contumaci mura;

e sul rubello palestino esangue

nuoteran mie vittorie in mar di sangue.

Ma ecco Domizian: del suo valore

sarà degna l'impresa:

o folgore di guerra, o del mio campo

alto sostegno, o mio real germano,

della Siria già doma augusta parte

contro l'aquile auguste

spiega insegne di Marte:

va', vedi, e vinci e con guerriera mano

resti 'l fasto di Ioppe arso, e distrutto,

memorabile esempio al mondo tutto.

(parte)

DOMIZIANO

Ch'io vada a debellar falangi armate?

Se da mille catene ho 'l cor avvinto,

come vincer può altrui chi è preso, e vinto?

Perdonami pur Roma,

s'io fuggo di Bellona il nume irato,

pugnar non può chi porta il cor piagato.

Da, che un guardo quest'alma ferì

ch'io più risanassi, amor non soffrì;

così

Atalanta quest'alma si fe',

le poma d'un seno fur remore al piè.

Scena sesta

Berenice. Agrippa. Domiziano.

BERENICE

Signor, per questa eccelsa, e regal destra

invitta in guerra, e gloriosa in pace,

per quiest'illustre ferro

domator di tiranni, e ch'alla sorte

legge può dar, soccorri

un'afflitta reina,

che prostrata al tuo piede umil t'inchina.

DOMIZIANO

Cieli! Fato! Fortuna! Amor, che veggo?

AGRIPPA

Atto proprio è dei regi

l'esser pietoso, e sotto 'l manto augusto

raccor chi prega. Ah sire:

Tito il tuo gran germano

tratto da fiamma impura,

l'onor di Berenice arder procura.

Dall'insidie oltraggiose

preserva una infelice,

farlo ben puoi signor, tu, che di sangue

sei pari al maggior duce, e dell'impero,

e del trono latin ben degno erede.

NINFO

(che sopraggiunge)

Nell'amorosa pesca

tanto guizzò, che preso è il pesce all'esca.

DOMIZIANO

Bella, affrena i singulti:

di quell'intatte poma

sarò 'l vigile drago, or tergi intanto

le luci rugiadose,

al tuo timor la sicurezza arreco:

che temi più? Domiziano è teco.

BERENICE

O degno sol, cui Roma

d'alloro imperial cinga la chioma.

DOMIZIANO

A novelli trionfi, e a nove palme

d'oricalchi guerrieri il suon feroce

verso Ioppe mi chiama;

Agrippa, e che farai?

AGRIPPA

Con la tua spada

unirò questo brando, e non ricuso

seguirti all'alta impresa,

e contro a mille squadre

espor l'ignudo petto in tua difesa.

DOMIZIANO

Appena sorgerà Cinzia vezzosa

con l'orbe suo d'argento

entro 'l notturno velo

dei fraterni splendori erede in cielo,

che moverassi 'l campo; or fia tua cura

Berenice condur.

AGRIPPA

Tanto eseguisco.

DOMIZIANO

Già non fia benigne stelle,

che di voi mi dolga più,

o detesti le facelle,

per cui l'alma accesa fu.

Più non bramo d'amor la fiamma, o 'l laccio,

con gl'astri in fronte avrò il mio sole in braccio.

Scena settima

Berenice. Cinna.

BERENICE

Infelice mio core, e da qual astro

or pende il tuo disastro?

Polemone spergiuro

mi tradisce, e m'aborre,

e in quell'anima infida

puote desio di regno

al mio svenato amor l'urna comporre.

O Tito, o Licia, o Roma!

Ben conobbi alle prove i vostri inganni,

e in questo ahi sempre amaro, e infausto die

Cassandra fui delle sciagure mie.

Ma inulta non andrò, l'estrema sorte

saprò affrettare al regnator romano.

Cadrà 'l superbo, e ancor che cinga al seno

l'egida portentosa, o pur d'Achille

ei vesta l'armi, o dell'eroe troiano,

olocausto farà di questa mano.

Ma non è questi Cinna?

Per atterrar d'un cesare lascivo

l'impudica baldanza

delle vendette mie costui fia parte,

così deluderò l'arte con l'arte.

CINNA

O de' tetrarchi illustri inclito germe,

qual impeto feroce agita, e volge

l'animo perturbato?

BERENICE

Penso d'augusto al fato.

Vattene a Tito, vola,

digli, che s'egli apprezza

e la vita, e l'impero,

solo, cauto, e guardingo a me ne venga,

alla fonte d'Adone

l'attenderò: ciò impongo alla tua fede.

(parte)

CINNA

Per obbedirti impenno l'ali al piede.

O di chi regge scettri, e frena imperi

troppo infelice stato,

se quando in alto soglio

seggono sublimati,

la fallace fortuna

per ruina maggior par, che gl'innalzi,

e mentre a mille turbe adoratrici

sparsi di gemme, e d'ori

sembran vaghi pianeti, e luminosi,

precipitando al suolo

divengono a momenti

questi soli terreni astri cadenti.

Scena ottava

Giardino con fontana, ove risiede la statua d'Adone con palazzo nel prospetto.
Polemone.

Berenice ove sei?

Dove dove t'ascondi

luce degl'occhi miei.

Marmi o voi, che nel candore

pareggiate la mia fé.

Per pietate

palesate

il mio sol, dite, dov'è?

Folle, ma con chi parlo?

Ah che l'empia, l'indegna

conscia di sue lascivie, e de' miei torti,

rapida qual baleno

s'è ricovrata al novo amante in seno.

Ma vanne pur o cruda,

fuggi pur da quest'occhi, e vola dove

sotto incognito ciel l'orbe divide

il frapposto Nettun, fuggi inumana,

ch'ad ogni piaggia inospita, e romita

negl'ultimi recessi, e più remoti

d'un amante tradito

ti giungeranno i voti.

Furori armatemi,

tutto ingombratemi

di stigio ardor

cada svenata,

e lacerata

l'empia, spietata,

che già rapimmi con l'alma il cor.

Scena nona

Tito.

Qui dove edra serpente

per rintuzzar del sol gl'estinti ardori,

dimostra a braccia aperte

in difesa dell'ombre,

quante foglie ha nel sen cotanti cori;

di Berenice ai cenni

veloce, solo, e incustodito io venni.

Cieli, che sarà mai?

Qual petto di Procuste,

o qual alma di Scini alla mia testa

insidie ordisce, e le congiure appresta?

E del cesareo alloro

s'indegna questa fronte,

che contro a questo capo ognor si deggia

scagliar ferro omicida?

O di chi 'l mondo regge

alte miserie estreme,

se chi nasce agl'imperi

quanto temuto è più, tanto più teme.

Ma neppur anco miro

quelle luci ch'adoro,

ove in marmorea fonte

sgorga tra verdi piante

dalle ferite sue stille d'argento

della più bella dea l'estinto amante?

Al dolce mormorar d'onda fugace

attenderò colei,

che con gl'occhi sereni

sol può temprar di questo cor la face.

(s'asside sopra il fonte)

Pupille vezzose,

ch'il seno m'aprite;

pur ch'un dì siate pietose,

corre l'alma alle ferite:

ch'il bel guardo, che m'impiaga,

può Esculapio d'amor sanar la piaga.

Ma qual d'aura gentile

vezzoso ventilar i lumi stanchi

al riposo lusinga?

Se qual Endimion dormendo ancora

stringerò la beltà, che m'innamora,

in sì dolce sopore

fammi dormir eterni sonni amore.

(qui s'addormenta)

Scena decima

Berenice con lo stilo in mano.
Tito che dorme. Polemone, che sopraggiunge.

BERENICE

Animo, perché cessi? È questo il loco,

ch'a mie vendette oggi destina il cielo

su assistete, inspirate

ultrici deitadi

nove furie al mio sen, rivegga Roma

d'un cesare la strage, ammiri 'l mondo

con memorando esempio

d'un lascivo lo scempio.

Ma che scorgo? Qui dorme

l'involator de' miei riposi? O dèi!

Mentre da mille cure ha 'l seno aperto,

dite voi, come ponno

le torbide palpebre

d'un tiranno crudel star chiuse al sonno.

O numi dell'onore

voi scorgete il mio ferro,

voi guidate la mano,

mora l'empio inumano.

POLEMONE

(che sopravviene afferrandola per la mano)

Ferma eccelsa reina: e qual offesa

tanto acerba, o mortale

contro sì nobil vita

arma la man reale?

BERENICE

Lascia cotesto ferro, o de' miei torti

consiglier scellerato!

Costui, che poco dianzi empio lascivo

tentò rapir a questo sen l'onore,

vo', che vittima sia del mio furore.

POLEMONE

(Dunque fede mi serba,

mentre cesare aborre;

giusto è, che Tito mora:

ma troppo dolce sorte

fora per la tua man provar la morte.)

Con questo invitto braccio

trarrò all'empio inumano l'alma dal seno:

vanne mia vita intanto;

e là dove il Giordano con lucid'onda

sferza l'erbosa sponda,

su volante corsier cauta m'attendi;

e perché più sicura abbi la fuga

dell'usbergo d'Agrippa

cingi al tenero seno il grave incarco:

già pongo fine all'opra.

Che dal sonno alla morte è un picciol varco.

BERENICE

(Dunque fido è costui, se pronto aspira

alle parche sacrar l'empio tiranno.)

Prendi il vindice ferro! Uccidi, svena

cesare impudico,

il mio onor vilipeso altro non chiede

dal tuo acciar, dal tuo cor, dalla tua fede.

Scena undicesima

Tito, che dorme. Polemone.

POLEMONE

Or che più tardi

animo irresoluto;

ecco a quel fonte appresso

giace dal sonno il tuo nemico oppresso:

su via (fa' che tra l'ombre

dorma un sonno di ferro;) a quel lascivo

togli l'alma, apri 'l seno,

cada trafitto: ecco l'uccido, e sveno:

ma qual ignota forza

mi ritoglie il furor? Qual dio? Qual fato

mi rapisce a me stesso? Ah, ch'il mio spirto

generoso, e audace, e ch'ad ogn'ora

seguì di gloria l'orme,

aborre di svenar un uom, che dorme.

Deh non fia ver, che fra mie eccelse imprese

unqua l'Asia racconti,

che per amar altrui

vil cavaliero, e traditore io fui?

Viva cesare viva

alto esempiod'onor; e a ciò, ch'ei vegga,

ch'a questa destra è debitor dell'alma,

inciderò in quel tronco

la storia de' suoi casi; or quindi apprenda,

ch'un magnanimo core, un'alma ardita

sa al nemico talor donar la vita.

(qui scrive con lo stilo nel tronco ove Tito s'appoggia)

Scena dodicesima

Tito. Polemone: Cinna. Coro de' Soldati.

TITO

(svegliato prende Polemone nel braccio)

Che tenti empio, crudel?

POLEMONE

Salvar da morte

il regnator latin?

CINNA

Ferma spietato!

Sì prezioso stame

troncar procuri.

POLEMONE

Anzi a difesa armato

sospesi a Tito l'imminente fato.

TITO

Qual ciclope sì crudo

or del mio sangue ha sete?

POLEMONE

Mentre fra queste frondi

al respirar d'un zefiro leggero

del più caldo meriggio

cerco temprar la face,

miro d'acciar vestito

sconosciuto campion, col ferro ignudo

tenta questi svenarti, accorro, volo,

m'oppongo, egli resiste, alfin prevale

la virtude al furor, fugge l'ignoto.

Io d'un sì gran d'alma

tolta alla man di Cloto

scrivo con l'armi stesse in su quel mirto

gl'acquistati trofei. Tu desto all'ora

mi credi traditor, ma quella pianta

ch'inscritto ha 'l sen di così eroica impresa

me di tua vita il difensor palesa.

CINNA

Quai caratteri leggo?

(legge)

«D'un nemico rival la destra ardita

mentre giaci, o gran Tito,

entro 'l sonno sopito

fra le braccia di morte, or ti dà vita.»

Queste note, o signore,

son prove d'innocenza, e di valore.

TITO

Adraspe amico, o quanto

deggio al tuo braccio invitto:

ma se tua destra forte

d'inesorabil parca

mi sottrasse al furor: come un nemico

mi preserva alla luce? Io da quel giorno

che sotto 'l giogo del romano impero

cadde Sion superba, e che dall'armi

Berenice salvasti,

sol ti conobbi; or come

nemico sei se all'opre

il tuo genio sublime

mio difensor ti scopre?

POLEMONE

(Sì augusta al par del nome

porta l'alma costui, sì generoso

e magnanimo ha 'l cor, ch'io non diffido

palesargli 'l mio stato.)

Polemone son io di Licia il trono

freno con man real, della mia spada

qual siasi 'l taglio, entro a più dubbi assalti

le tue squadre il provar; amor che nudo

sa trionfar di Marte,

d'un bel guardo m'accese;

Berenice rapii, con l'alta preda

a Solima fuggii, quando d'intorno

cinto dal tuo gran campo

in assedio sì lungo, e sì ostinato

mentre invitto difendo i regni altrui,

della strage comun consorte io fui.

TITO

Trattar non usa

fuor, ch'un'alma di rege opre reali;

il nome di nemico

sbandisci omai, già Roma

per amico t'acclama, e tale io sono,

sempre i falli d'amor mertan perdono.

(parte)

POLEMONE

Cieca diva inesorabile,

già per me tuo globo instabile

favorabile

girerà.

Né sempre al dolore

un misero core

bersaglio sarà.

Scena tredicesima

Campagna montuosa sopra le sponde del Giordano.
Berenice armata con l'armi d'Agrippa.

BERENICE

Già Polemone invitto avrà reciso

d'un'empia vita il filo: io qui l'attendo

compagna della fuga;

ma con piè sì veloce,

tutto nell'armi chiuso,

che richiede costui?

Scena quattordicesima

Celso. Berenice. Coro di Soldati.

CELSO

Amici ecco 'l ribello

nemico dell'impero:

Roma dal vostro ferro

chiede quel capo infido:

ma no: fermate il passo,

da solo a sol con generosa destra

saprò quell'alma iniqua

oggi ad Eaco sacrar: empio guerriero

snuda quel brando.

BERENICE

O dèi che fia? Son morta...

(qui vien percossa e cade a terra)

CELSO

Un cor fellone

va sempre armato di viltà; gettate

l'esangue busto entro 'l Giordan; se folle

premeditò gl'incendi al ciel latino,

mentre dal ferro ei fulminato giacque,

merta novo Fetonte:

nella caduta sua sepolcro d'acque.

(viene gettata Berenice nel fiume)

Terminata è già l'opra: Agrippa estinto,

lepido morirà; resta che Tito

conceda alla mia fé,

già che spirò Sabina,

Berenice in mercé.

Ecco cesare appunto:

ite lunge, o tormenti;

mi prepara il destino alti contenti.

Scena quindicesima

Tito. Cinna. Celso.

TITO

Stelle che deggio far?

A chi mi diè la vita,

devo l'alma lasciar?

Che deggio fare o stelle?

Ma che dirà l'onore,

la dignità l'impero,

se fulminato da un bel guardo arciero

vinta la Siria, e Palestina doma,

dalle sabee pendici

qual Paride lascivo

porterò in seno all'acque il foco a Roma.

La maestà, la fede

vol ch'al licio regnante

la consorte si doni:

ma per dar vita altrui, dovrò a quest'ora

crudamente pietoso

pellicano d'amor svenar me stesso?

Troppo troppo o pensieri

siete d'un cor amante

rigidi consiglieri.

S'in eterni martiri ho da penar,

che deggio far o stelle?

Stelle che deggio far?

CELSO

Come, o sire, imponesti,

vittima del tuo sdegno

cadde Agrippa l'indegno:

or, se da voti miei

lice tanto impetrar, di Berenice

bramo gl'alti sponsali:

già che Flavia Sabina

mi rapiron di Cloto

le forbici fatali.

TITO

O ciel, non basta,

che quest'anima esali

sospiri agonizzanti,

se con novi martiri a tormentarmi

non veniva costui? Mio fido amico:

duolmi, ch'ora non lice

dispor di Berenice.

Ad altri in sorte

la destinaro i cieli: altra mercede

di Celso avrà la fede.

Scena sedicesima

Gl'antedetti. Berenice. Agrippa. Polemone. Due Pescatori taciti.

CINNA

Due siri pescatori

portan signor, di grave usbergo cinto

sovra dell'onde un cavaliero estinto:

s'io non traveggo, all'armi

Agrippa mi rassembra.

CELSO

Il cadavero indegno

sarà di quel fellon.

TITO

Cesare aborre

con sì fiero spettacolo, e funesto

le luci profanar, urna decente

abbian l'ossa reali: io non permetto

tanto allo sdegno mio, ch'anco a' defunti

turbi i riposi in sulle stigie rive;

non dée guerra con l'ombre aver, chi vive.

CINNA

Ma che veggo, signor! Or non è questi

Agrippa il re.

TITO

Che miro?

Olà: scoprite,

chi sia il guerriero esangue:

Celso l'error mi pagherà col sangue.

CELSO

O me infelice!

CINNA

Numi che scorgo?

TITO

O cieli!

CELSO E TITO

È Berenice

AGRIPPA

Berenice! E a quai colpi

astri mi riserbate?

Come cinta d'acciaro in questo lido?

TITO

Su littori cingete

di stringenti ritorte

Celso, l'empio omicida,

scopo di mille strali egli s'uccida.

CELSO

Uscite pur dagl'archi,

o pietose saette,

merta pena infinita

chi puote dar la morte alla sua vita.

(vien condotto altrove)

CINNA

O portenti funesti! Ora nell'acque

una venere muor, s'un'altra nacque.

BERENICE

Chi mi dona i respiri?

TITO

O dèi! Ch'ascolto?

BERENICE

Chi mi toglie alle parche? Ove mi trovo?

AGRIPPA

Fra le braccia d'Agrippa.

POLEMONE

(che sopravviene)

Empia sorte, che miro?

Per quale strano caso

il mio adorato sol giunto è all'occaso?

BERENICE

Polemone mio re?

Gira un guardo pietoso a chi t'adora,

porgi la destra a questa destra almeno,

moro contenta, or, ch'io ti spiro in seno.

AGRIPPA

Polemone è costui? Respira, vive

il lascivo nemico?

Ma qual di fosca nube orrido vel

fra tuoni, e folgori

oscura il ciel?

Scena diciassettesima

Gl'antedetti. Apollonio. Marzia.
S'apre fra tuoni, e folgori una nube, e scendono a terra.

APOLLONIO

Tito, gl'inumani eventi

non ruota il ciel a caso;

ch'incatenato insieme

con vicenda fatal va 'l pianto al riso.

Marzia, che destinata

ti fu dal fato infin dal Tebro io trassi,

giusto è, signor, che così lunghe doglie

succedano i respiri,

Io l'idumea reina

a Lachesi involai,

perché di Licia al rege

la donasse un augusto; ora di Roma

seconda i voti, o sire, e fa', ch'il mondo

dopo tanti trofei,

novo Alcide festoso

lieto t'adori imperatore, e sposo.

(vien rapito a volo)

TITO

Entro a cimmerii orrori

avvezzò le pupille,

chi cieco amante vole

prepor le stelle in paragon del sole.

MARZIA

Mia luce.

TITO

Mio core.

MARZIA

Mia vita.

MARZIA E TITO

Mia spene.

I latini trionfi...

MARZIA

oggi contemplo...

TITO

oggi coroni...

MARZIA E TITO

entro alle sirie arene.

Scena diciottesima

Gl'antedetti. Domiziano. Ninfo.

DOMIZIANO

D'Ioppe contumace

or volo con tuo auspicio all'alta impresa.

TITO

Del tuo brando guerrier l'invitte prove

secondi amico Giove.

DOMIZIANO

Che mirate miei lumi?

Sotto spoglie guerriere

il mio nume s'asconde?

Che diria, che d'elmo, e scudo

si coprisse Amor, ch'è nudo:

e per l'alme infiammar con la sua face

ei fosse di Bellona ora seguace,

e pur per tormentarmi

costei cerca fierezze in mezzo all'armi.

TITO

Pria che ritorni al campo,

vo', ch'alla tua presenza

di Licia al gran regnante

Berenice si doni.

DOMIZIANO

Questi son di mia fede i guiderdoni?

BERENICE

Invan pretendi

col donarmi allo sposo

d'offesa donna mitigar lo sdegno.

Aborrisco gli scettri,

Polemone ricuso

fier tiranno impudico.

S'egl'è dono fatal d'empio nemico.

TITO

Io tiranno, io lascivo

profanator di tua onestà?

DOMIZIANO

Mio core,

ora, ch'è disperata ogni tua spene

su palesa gl'inganni; io fui l'audace,

ch'acceso da que' lumi

mentre un guardo il sen m'impiaga

col baciar i feritori

tentai sabar di questo cor la piaga:

ma se d'accorto Amor non giovò l'arte,

lascio Cupido, e mi rivolgo a Marte.

(parte)

NINFO

O gran saggio è il mio signor,

già che più goder non può,

si ribella al dio d'Amor,

e campion di Bellona ora gli basta

trattar lo stocco, e maneggiar sol l'asta.

(parte)

BERENICE

Il mio giusto dolor scusa o signore,

non è delitto involontario errore.

AGRIPPA

Se d'augusto è voler, ch'al licio rege

Berenice s'annodi

con sovrani sponsali,

applaude Agrippa agl'imenei reali.

TITO

Pria che nell'onda ibera

dell'aurata quadriga

attuffi il sol le luminose rote

nella reggia pomposa

con gl'allori di Roma

io vo' di Marzia incoronar la chioma.

MARZIA

Felice cor festeggia sì:

già per te d'amor la face

non vorace

splende lieta in questo dì.

Scena diciannovesima

Reggia di Salomone.
Sabina. Lucindo.

SABINA

Resi lumi funebri

al funeral d'un sole occhi splendete;

o cangiate vicende

trasformatevi in fonti,

e lagrimate tanto,

ch'io divenga Aretusa in mar di pianto.

Cadrà Celso il mio bene,

ah che fra tante pene

trafitta da que' strali anch'io sarò,

se spira la mia vita, anch'io morrò.

Di quest'alma al rio martoro

dio de' cori soccorri tu,

se non salvi 'l bel ch'adoro

tuo idolatra non m'avrai più.

LUCINDO

Al dispetto di fortuna

pur alfin con lieto viso

divenuto è d'amor compagno il riso.

Che non può donna, ch'è bella

con un guardo lusinghier,

se di Venere la stella

sa placare il dio guerrier.

Per un crin, che lo legò,

anco un Ercole filò;

che per levar lo spirto ad ogni ardito

d'una morbida man basta un sol dito.

SABINA

O se di Pafo, e d'Amatunta i numi

secondino il tuo merto

giovinetto gentile, al piè d'augusto

scorgi d'alto guerriero il passo errante.

LUCINDO

A così bel sembiante

io averei giurato

per un Cupido armato:

sarò duce al tuo piede,

ecco Tito, che viene:

ma vo' darti un consiglio

con sì bizzarro arnese

ti veggo in questa etade in gran periglio.

Scena ventesima

Tito. Marzia. Berenice. Polemone. Lepido. Cinna. Sabina. Lucindo. Agrippa.

MARZIA

Sparso il crin di lampi d'oro

rida il sol più luminoso,

e di Tespo il dio vezzoso

m'incateni al bel, ch'adoro.

TITO

Del latino diadema

già rifulge tua chioma:

scenda Imeneo festante, ebbra di gioia

intorno a' sacri altari

strida la casta fiamma,

e di timpani, e trombe al suon giocondo

lieta Roma festeggi, applauda il mondo.

Lepido!

LEPIDO

Mio signore!

TITO

All'or, ch'ai rai dell'alba Eto fiammeggia,

con Polemone invitto

scorterai Berenice

colà di Licia alla sublime reggia.

LEPIDO

Obbedirò a' tuoi cenni. O dèi, che miro!

Berenice è d'altrui!

E novello Ision per mio tormento

abbraccio l'aura, e sol restringo il vento.

SABINA

O di Sion superba

famoso spugnator, ecco al tuo piede

la nipote d'augusto,

che di Celso invaghita,

in duro acciaro involta,

sott'elmo rugginoso

i volumi del crin nascose ad arte,

e tra falangi astate

seguì armata nel campo il suo bel Marte.

Se di regal fanciulla

può in te signor qualche pietade, aita

porgi o Tito a quest'alma,

dona a Celso la vita.

TITO

O gran germe de' Flavi, alta Sabina,

rasserena le luci,

già precorsi i tuoi voti,

vive il tuo Celso, e in più felici nodi,

fia ch'Amor al tuo seno oggi l'annodi.

MARZIA

Non disperi un cor amante

di goder vaga beltà,

che del cieco arcier volante

lo strale

fatale

eterni tormenti

alfine non ha.

BERENICE, MARZIA E TITO

Ogn'alma arriva

tra le noie

alle gioie

ai contenti

TUTTI GLI ALTRI

Viva Tito viva, viva.

Fine del libretto.

Generazione pagina: 14/01/2016
Pagina: ridotto, rid
Versione H: 3.00.40 (W)

Locandina Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Scena sedicesima Scena diciassettesima Scena diciottesima Scena diciannovesima Scena ventesima Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Scena sedicesima Scena diciassettesima Scena diciottesima Scena diciannovesima Scena ventesima Scena ventunesima Scena ventiduesima Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Scena sedicesima Scena diciassettesima Scena diciottesima Scena diciannovesima Scena ventesima