Al lettore [da edizione successiva]

Perché di tutti e tre i generi, a' quali ne' moderni secoli si è ridotto il teatro, si abbia qui saggio, ecco per terzo un dramma musicale. Avendo la presente condizion de' tempi fatta sospendere l'apertura del nuovo teatro della nostra accademia di Verona, che nella primavera passata con tanta sontuosità preparata era, e per somma sventura impedendola anche nel prossimo autunno, non solamente se n'è provato il danno di gravissime spese indarno fatte, ma n'è rimasta in oltre tormentata curiosità, che molti aveano di vedere il dramma, ch'era destinato. Essendone però andate fuori alcune copie, benché non uniformi tra loro, si è creduto di poterla considerare come opera in certo modo pubblicata, e di poterla dare alle stampe: e ciò senza pregiudizio della nobil recita quando sarà permessa, e per la quale sono in ordine tutti gli apprestamenti, e tutte le scene, lavorate sontuosamente dal sig. Francesco Bibbiena architetto, e pittor bolognese. Perché un dramma non è necessario, che non sia stato letto.

Stimo bene di far qui sapere, come l'accademia veronese detta filarmonica, nata alla metà del secolo cinquecentesimo, ebbe come appare dal titolo stesso per antico suo istituto il coltivare tanto la poesia, quanto la musica, quali come gl'intendenti ben sanno son due arti gemelle, e tra loro sì analoghe, che a pensare e favellar sanamente non vi dovrebbe esser poesia senza musica, né musica senza poesia. Si vede ne' vecchi statuti dell'accademia, come a que' primi tempi in pubblico cantavano, e suonavano gli accademici stessi: stabilirono però di fabbricare nel loro fondo un teatro magnifico, del qual si vede il modello; abbenché cangiatasi la condizione de' tempi, quel modello fatto al gusto de' latini, e de' greci teatri non siasi trovato abile alle costumanze presenti, né alla nuova maniera de' drammi musicali. Li presenti accademici adunque hanno seguito l'istituto de' loro padri fabbricando col concorso della miglior parte della città un nobilissimo teatro, dalla forma del quale ben si conosce, come l'idea è stata affatto signorile. Il nostro autore però, ed insieme con lui il sig. conte Ippolito Bevilacqua il sig. conte Gerolamo Pompei, e il sig. conte Giorgio Allegri, i quali a preghiere dell'accademia assunsero la sopraintendenza di così difficil negozio, e quelli parimente, che l'anno scorso cedendo alle pubbliche instanze intrapresero d'assistere alla prima sontuosa apertura, l'hanno fatto per nobile adempimento dell'istituto dell'accademia stessa.

Ora per venire al proposito nostro, quando l'autore fece prima questo componimento, era nell'anno suo diciottesimo, e lo tenne però con altri sepolto. Molto tempo dopo divisandosi da alcuni cavalieri suoi amici per certa occasione una recita in musica, lo prese per mano, e vi mutò gran parte de i versi, perché il gusto dello stile da quel tempo assai mutato era. Svanito poi quel disegno, tornò a seppellirlo sino alla presente congiuntura, quando desiderandosi dramma nuovo, e pastorale per ischivar le troppe mutazioni di scena, dopo d'aver eccitati invano alcuni valenti poeti a comporlo, credendosi allora che fosse assai ristretto il tempo, diede mano a questo.

Bisogna avvertire, che l'autore non considerava questo dramma come perfezionato, e che dovesse rimanere come qui si trova, non avendo anzi voluto dargli l'ultima mano, perché non volea farlo se non sotto gli occhi del maestro di musica, qual però voleva venisse a comporre in sua casa per levar arie, o aggiungere, e per adattarle al di lui piacere nel modo, e nel sito, e in altre circostanze della scena, secondando anche il genio de i cantanti: anzi in alcuni loghi vi erano due arie in vece di una, perché il maestro prendesse la più geniale, di qualcuna ancora essendosi servito, che aveva con applauso usata in cantate. Credo, che tutto ciò era coerente alla opinione, ch'egli accennò nella prefazione al Teatro italiano; cioè che dopo la maniera, ch'ora corre di musica nei nostri teatri, i drammi non siano altro, com'egli dice quivi, «che un'arte storpiata in grazia di un'altra, e dove il superiore serve all'inferiore, e dove il poeta quel luogo ci tenga, che tiene il violinista ove suoni per ballo». Per lo che suol dire, questi essere componimenti, de' quali per lo più perisce la memoria col suono; come dell'eloquenza di Seneca disse Tacito negli Annali. E pure è cosa ammirabile, quanto rari sieno i poeti, che in tali difficili bagatelle riescano, e incontrino, richiedendovisi ancora alquanto più del poetico nello stile, e più difficili, che non pensa chi provato non vi si ha, essendo le ariette; che però se si farà per curiosità osservazione, molto rare si sogliono vedere, che sentimento giusto contengano, e parole di riempitura, e sforzate, e versi superflui al concetto non abbiamo; e difficile anche essendo l'andarne variando il metro, e l'idea. Del moderno canto poi nel teatro parla il Gravina in questa forma nel libro della Tragedia; cioè che «in cambio di esprimere, e d'imitare, suol più tosto estinguere, e cancellare ogni sembianza di verità, e che lusinga e molce la parte animale, cioè il senso solo, senza concorso della ragione, come fa il canto di un cardello, o d'un usignolo». Credo per altro, che poco avrebbe avuto il nostro autore da rimutare, poiché il sig. Giuseppe Orlandini fiorentino, maestro di musica tanto celebrato, il qual da Bologna si era già trasferito a Verona, e in casa dell'autore principiava con sommo piacere a comporre, molto si rallegrò dell'arie, che trovò di tutto suo gusto; ed essendo esse capitate allora sotto l'occhio del nobil uomo Benedetto Marcello, riconosciuto in oggi comunemente per principe in così nobil facoltà, e che con l'opera de i Salmi di David eccellentemente a tal fine tradotti dal nobil uomo Girolamo Giustiniani, si è acquistata tanta gloria, disse, e scrisse non avere dopo il suo abbandono di così geniale esercizio patita maggior tentazione di ripigliarlo, che per far la musica a questo dramma. Vi sono veramente alcune canzonette che restano in scena, il che suole aborrirsi da questi cantanti, che credono esser necessario sentirsi sempre dietro il rumore del popolaccio; ma queste dal savio, e inventivo maestro si possono fare di poco impegno, o senza tornar da capo, e a maniera di cavate, avendo già ogni cantante le sue arie a luogo, e di spicco; e sono anche in siti, che si posson lasciare, non servendo, che a variare il recitativo. Questa usanza di voler le canzonette nel fine è una delle ragioni, che rendono ridicoli i drammi, facendosi spesso partire il personaggio con una similitudine, o con pensieri, e motivi lirici, e sentimenti che sono fuor di luogo. Nel principio dell'atto terzo intenzione era di far luogo a qualche instrumento raro con qualche cantata a piacere. Facendosi l'ultima aria dell'atto primo a tre, vien a finire ogn'atto con una specie di coro. Ma se il maestro volesse più tosto farla a solo, le due Ninfe hanno luogo di partire avanti l'aria. È vero, ch'essendosi altre arie a più, ch'hanno del comico, come il teatro ama, sarebbe anche bene farne una in grazia dell'arte musica, al che si conosce diretta l'intenzione del poeta nelle parole, asserendomi un bravo professore, che la ruota, ch'ora gira volge in quella canzonetta, ed ora sta fissa, presta un bell'adito alle parti contrarie, e allo scherzare dell'una in fuga, quando l'altra sta ferma, e al cambiarsi fra esse, che tanto diletta chi intende, e per la forza dell'armonia chi non intende ancora. Così nell'altre arie con la diversità de' metri, e de' pensieri, e con figure, e con certe parole a bello studio poste, ben si conosce aver avuto mira il poeta a varietà, e a novità nella musica di dar motivo.

Quanto al dramma stesso, o sua materia, essendo il soggetto delle pastorali come quello delle commedie, in tutto finto, non occorre parlarne altro. Dà però alla favola certo fondamento di verisimiglianza il sapersi come ne' mezzani secoli l'isole dell'Egeo furono grandemente infestate da corsari, e come alcune stabilmente da tal gente occupate, e possedute furono. Avendo poi Aristotile nella sua Poetica insegnato, che il maggior diletto nel teatro nasce dal riconoscimento, per lungo tempo non si vide quasi tragedia, né commedia, che scoprimenti di persone non contenesse. Ma essendo poi per tanta frequenza venute queste cose a noia, si tralasciò affatto di usarle più, massime ne' drammi musicali, ne' quali rarissime volte si è tenuta questa strada. Nel presente adunque lo sciogliere, che si fa per via di riconoscimento, viene dopo sì lungo disuso ad aver grazia di novità. L'ultima apparenza, o comparsa, e introduzion di deità, aggiunta ultimamente, credo era diretta a far conoscere con nobilissima scena, e di nuovo artifizio la forza del teatro; e si è dal poeta trovato modo di congiungerla al dramma istesso senza separarla a modo di farsa; la quale staccatura suol riuscire per più ragioni disgustosa: né da questo attaccamento nasce qui alcuna opposizione, perché il dramma ha già avuto l'esito suo, e non sendosi qui nel caso del precetto Oraziano: nec deus interfit nisi dignus vindice nodus.

Giulio Cesare Becelli

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